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A
944,550
Giuseppe Parini
POESIE
ass
ULRICO HOEPU
EOrrORE U8RAI0 DELLA REALCASA
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' ^' --::■'\^ ^^■' >> :£^i0<^m^ m
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S33
^^t^ ^^^ ^"^ >^i4^
POESIE
DI
GIUSEPPE PARINI
SCELTE E ILLUSTRATE
PER LE PERSONE COLTE E PER LE SCUOLE
DA
MICHELE SCHERILLO
ULRICO HOEPLI
EDITOHE-LIBKAJO DELLA KEAL CASA
MILANO
19 00
PROPRIETÀ LETTERARIA
TIR A. LOMBARDlDiM.BEl.LINZAGHI
MILANO-7 FIORI OSCURI 7.-MILAN0
17636
A BONAVENTURA ZUMBINI
Carissimo professore,
Quando, or è poco più d'un anno, venni a rive-
dervi nella quiete della vostra villetta posta " quasi
al cominciar dell'erta „ vesuviana, il discorso cadde
quasi subito - ricordate? - sul Leopardi, che il " fornii-
dabil monte „ giganteggianteci alla vista sarebbe valso
a richiamare alla nostra mente, pur se altre ragioni
fossero mancate. Tra qualche mese a Recanati si sa-
rebbe celebrato il centenario della nascita di quel
grande; e voi, annuendo all'invito della Regia Ac-
cademia di Archeologia Lettere e Belle Arti, vi ac-
cingevate a commemorarne la dimora in Napoli. Avevo
anche sentito dire che in quella occasione vi sareste
finalmente indotto a raccogliere in volume i mirabili
e tanto ammirati vostri studi intorno al poeta predi-
letto della vostra giovinezza; e ve ne chiesi. Ma voi
mi dichiaraste che del Leopardi non avreste oramai
riparlato senza prima esaminare quei preziosi mano-
scritti, con crudele ironia ancor denominati napole-
tani , che, sottratti dopo lunghi sforzi alla gelosa
custodia del mago Ranieri, erano stati affidati a quella,
diversamente gelosa, d'alcuni egregi, che intanto li
esaminavano per conto dello Stato e un pochino,
s'è visto, anche per conto proprio.
Del Leopardi m'ero, quell'anno, venuto occupando
ancor io, nelle mie lezioni presso quest'Accademia
VI LETTERA
Scienti fico-Letteraria; e avevo preso accordi con Fe-
dito re benemerito ed amico cortese comm. Ulrico
Hoepli per ripubblicarne le poesie e qualcuna delle
prose con illustrazioni e commenti. A codesto volume
avevo vagheggiato nel pensiero — e ve n'avevo giÃ
toccato in una lettera — di porre in fronte il vostro
nome illustre ; che, attestando l'immutato affetto e la
gratitudine devota dell'antico discepolo, sarebbe al-
tresì giovato a rassicurare i lettori sulla provenienza
del carico. Ma potevan quelle considerazioni, che trat-
tenevano e trattengono voi, non consigliare me pure
di differire a miglior tempo la pubblicazione del mio
commento ?
Tuttavia mi parrebbe d'infliggermi una punizione
non meritata ritardando ancora il piacere d'attestarvi
pubblicamente la mia riconoscenza ed affezione; e
vi prego perciò di gradire, in attesa della leopardiana,
questa mia scelta dei capilavori pariniani.
Ho io bisogno di richiamarvi alla memoria il pro-
filo che con mano maestra il Recanatese schizzò della
nobile ed austera figura dell'abate brianzuolo ? " Giu-
seppe Parini „ egli scrisse proemiando a quel Dialogo
della Gloria che intitolò da lui, " fu alla nostra me-
moria uno dei pochissimi Italiani che all'eccellenza
nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri,
e molla notizia ed uso della filosofìa presente: cose
oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si
comprenderebbe come queste se ne potessero scom-
pagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti
esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare inno-
cenza, pietà verso gl'infelici e verso la patria, fede
verso gli amici, nobiltà d'animo e costanza contro le
avversità della natura e della fortuna, che travaglia-
rono tutta la sua vita misera ed umile, finché la
morte lo trasse dall'oscurità . Ebbe parecchi discepoli;
ai quali prima insegnava a conoscere gli uomini e le
cose loro, e quindi a dilettarli coll'eloquenza e colla
poesia „.
Ora, come sapete, c'è una ragione d'opportunità a
rinfrescarne la fama, e a diffonder tra le persone
A BONAVENTURA ZUMBINI. VII
colte e nelle scuole la conoscenza e lo studio delle
opere sue. Compirà tra pochi giorni (il 15 del prossimo
agosto) il primo centenario della morte del magna-
nimo scrittore che — vanto davvero singolare, ricono-
sciutogli da Cesare Balbo— " aiutò T opera de'fatti e
del secolo „; e qui, in una delle più belle piazze che la
" città superba „, non più " lasciva d' evirati cantori
allettatrice „, ha aperte al sole e all' " aria pura „ di
tra il labirinto delle vecchie viuzze dove " al pie de'
gran palagi „ o delle " sublimi case „ o dei " lari
plebei,, fermentava il fimo alto ed ammorbante; in
capo alla sontuosa ed ampia strada a cui la Milano,
non più " dolente „, non più baluardo della potenza
guelfa, ha imposto il fatidico nome di Dante; si la-
vora ad elevargli un monumento che sia finalmente
meno inadeguato al inerito di lui. Ed è ben degno del-
l'Italia rinnovellata che v'abbian concorso, da ogni an-
golo della Penisola, tutti gli ordini de'cittadini da Sua
Maestà Umberto I agli scolaretti de' ginnasi; ed è con-
forto a bene augurare e sperare. Giacché col Parini la let-
teratura nostra, infrivolita dagli Arcadi o imbastardita
dalle contaminazioni forestiere, si rifece umana ed
italiana. Egli, com'ebbe a sentenziare il nostro De-
Sanctis, " è il primo poeta della nuova letteratura che
sia un uomo, cioè che abbia dentro di sé un conte-
nuto vivace ed appassionato, religioso, politico e mo-
rale. La sua virtù é pura di ogni ostentazione e di ogni
esagerazione : non ci é posa, non mira all' effetto. Ha
la pudicizia della sincera virtù, una contentezza piut-
tosto che una vanità di sé stesso, e degli altri una
estimazione giusta, pura di ogni falso zelo. Ond'é che
ti riesce insieme nobile e semplice. Com'è naturale nel
suo sentire, cosi é giusto nel suo concepire, e proprio
nel suo parlare. L'uomo educa l'artista. Scrive quando
ha alcuna cosa importante a dire. Apparisce il nuovo
contenuto, l'idea moderna uscita da una lunga ela-
borazione di secoli, e non nella sua generalità , e non
nelle sue vesti d'accatto, ma cosi come é concepita
e formata in uno spirito armonico. Base di questo
contenuto è la libertà e l'uguaglianza civile, svilup-
vili LETTERA
pata in un ambiente puro e morale, naturalmente
elevato. L'artista è d'accordo con l'uomo. La sua
idea non è già una tesi che debba dimostrarsi o un'a-
spirazione che si faccia via con la lotta, ma è come
il sentimento di cosa a tutti nota e tranquilla nella
sua espansione. Non ha energia o impazienza rivo-
luzionaria; anzi ha l'intima persuasione che con la
forza sola della ragione e della giustizia le condizioni
dell'uomo possano divenire migliori. Perciò la sua
esposizione è animata, ma tranquilla, e ha più la gra-
vità dell'ode che i furori dell'inno. Lo diresti un ro-
mano in toga, che non predica la virtù, ma bandisce
la legge, sicuro che sarà da ciascuno riconosciuta
giusta e ubbidita... 11 Parini non concepisce l'arte se
non insieme con la patria, la libertà , l'umanità , l'a-
more, la famiglia, l'amicizia, la natura, tutto un mondo
religioso e morale. In quest'armonia universale, dove
uomo, patriota, amico, amante, artista, poeta, letterato
s'internano e s'immedesimano, è il verbo della nuova
letteratura. L'Italia da gran tempo aveva artisti, non
aveva poeti. Qui comincia a spuntare il poeta, perchè
dietro all'artista c'è l'uomo „.
Mi son lasciato vincere la mano, e ho citato più di
quanto il freno dell'arte e della discrezione non avreb-
bero permesso. Ma mi preme troppo che i nostri
giovani abbiano del Parini, della sua arte, dei suoi
intenti morali e politici, un concetto conforme al vero;
che non lo scambino, confondendo uomini e tempi, per
un demagogo, un rivoluzionario, un giacobino, un socia-
lista; e che una voce così autorevole come quella del
principe dei nostri critici li scuota e distolga dall'am-
mirazione assonnata d' un' arte modernissima , vuota,
frolla, malsana, moralmente e civilmente dannosa:
un'arte " lubrica „ non meno di quella dell' antico
" Fauno procace „, e da cui la " saggia matrona „
dovrèbbe pur ora partire " vergognando „.
La forte generazione, che ridonò dignità e co-
scienza di popolo agl'Italiani, si era educata coll'e-
sempio " di lui, che nelle reggie primo l'orma stampò
dell'Italo coturno „, e alla scuola " di quel che sul
A BONAVENTURA ZUMBINI. IX
plettro immacolato cantò Torna a fiorir la rosa „. Il
quale,^allorchè il 6 dicembre del 1769 potè finalmente
salire su quella cattedra che l'illuminato governo di
Maria Teresa aveva istituita proprio per lui, vi pro-
clamò solennemente che ufficio del suo insegnamento
sarebbe stato " di formare, di promovere, di pro-
pagare il bongusto nella nostra patria, e d'eccitare
e di spingere al volo il genio nascente della gioventù,
acciocché, dietro alla scorta de'grandi esempj, disde-
gnando la infelice mediocrità ed elevandosi coi sen-
timenti e coirimmaginazione, produca, sia nelle Let-
tere, sia nelle Belle Arti, opere degne della grandezza
di questo secolo, innalzi la sua patria al pari delle
più colte nazioni, e formi la gloria di sé medesima...
Difl^atti „, continuava, " finché non si giugne a rivol-
ger l'affetto, l'ambizione e la venerazione de' cittadini
ad oggetti più sublimi, che non sono la vana pompa
del lusso o la falsa gloria delle ricchezze, mai non
si destano gli animi loro, per accorgersi che ci é un
merito , che ci é una gloria infinitamente superiore ;
mai non si sollevano a tentar cose grandi, a segna-
larsi nella lor patria, e ad aver la superbia di di-
stinguersi, benché nudi, fra l'oro e le gemme che cir-
condano gli altri „.
Non occorre eh' io m' indugi qui a dichiararvi
quale metodo abbia seguito in questa ristampa e in
queste illustrazioni. Quanto all'ortografia del testo, il
Parini medesimo fu sempre oscillante ; e se per le
odi son potuto riuscire a darne una uniforme, non
ho osato fare altrettanto pel poemetto. Vorrei però
esortare i giovani a non volerla imitare quando si
compiace " di scioglier nei loro elementi alcune ma-
niere e forme che l'uso generale ha definitivamente uni-
ficate „. Altro é scrivere in versi, altro in prosa; e a rav-
vicinare le due ortografie, si mette " in i)ericolo la
retta pronunzia „ e si ripristinano " grafìe di alcune
delle quali la grammatica storica sa che nacquero da
meri abbagli „. Dovremmo aver tutti , insegna un
amico e collega vostro e maestro mio amatissimo, " un
po' più di pietà per la nostra povera lingua, non ap-
portarvi di continuo riforme inutili, rispettare quanto
ormai v*era in essa di stabilito „. *
Un' ultima parola devo dirvi circa il ritratto del
Parini che è qui contro. Esso riproduce uno schizzo
a mano, su carta brunella giallognola, con matita di
graffite e con tocchi di bianchetto e di creta rossa,
alto 42 cm. e largo 28, conservato in un grosso album
presso l'Accademia di Brera, insieme con molti altri
disegni dal raccoglitore (Giuseppe Vallardi (1820) as-
seriti opera dell'Appiani. A me è stato indicato dalla
cortesia del prof. G. Carotti; il quale anzi me n'ha
altresì procurata, perchè se ne potesse cavare questa
incisione, una bella fotografìa. Ma egli stesso ha vo-
luto avvertirmi che nel museo di Como si conserva
un ritratto del nostro poeta, sicuramente derivato da
questo disegno che l'esplicita dichiarazione del Vallardi
e qualche altro indizio (quale una figurina virile nuda,
seduta, tracciata a semplice contorno sul rovescio
del foglio, nel suo stile caratteristico) attribuiscono
all'Appiani, con la scritta: " Vera e forse unica effigie
di Parini fattagli per sorpresa dal prof. Mazzola nel
luglio 1793 „. La cura onde il lavoro appar condotto
non renderebbe verosimile codesta sorpresa. Ma la-
sciando che i meglio competenti decidano a quale
dei due artisti il disegno veramente appartenga, a
me sembra opportuno di qui riferire il Frammento
di un'ode ad Andrea Appiani il pittore^ salvatoci dal
Reina; il quale seppe anche dirci che il poeta " com-
piacevasi forte delle idee raccolte per quest'ode, che
egli stava maturando negli ultimi tempi di sua vita „.
Gli Appiani erano originari di Bosisio; ma Andrea
era nato in Milano il 23 maggio del 1754.
Te di stirpe gentile
E me (li casa popolar, cred'io,
Da l'Èupili natio,
Come fortuna variò di stile,
Guidaron gli avi nostri
De la città fra i clamorosi chiostri.
* D'Ovidio, Le correzioni ai Promessi Sposi e la quesiionc delia
lingua; Napoli, Pierro, 1895, 4.* ediz., p. 238.
A BONAVENTURA ZUMBINI. XI
E noi da l'onde pure,
Dal chiaro cielo e da quell'aere vivo
Seme portammo attivo,
Pronto a levarne da le genti oscure,
Tu, Appiani, col pennello,
Ed io col plettro seguitando il bello.
Ma il novo inerte clima
E il crasso cibo e le gran tempo immole
Il Reina slesso, che col Parini visse in grande
dimestichezza, ne abbozzò con le parole un ritratto,
non meno pregevole ne meno per noi interessante
di quello a matita. " Statura alta ,„ egli scrive, " fronte
bella e spaziosa, vivacissimo grand'occhio nero, naso
tendente all'aquilino, aperti lineamenti rilevati e gran-
deggianti, muscoli del volto mobilissimi e fortemente
scolpiti, mano maestra di bei moti, labbra modificate
ad ogni affetto speziale, voce gagliarda pieghevole e
sonora, discorso energico e risoluto, ed austerità di
aspetto raddolcita spesso da un grazioso sorriso, in-
dicavano in lui l'uomo di animo straordinariamente
elevato, e conciliavangli una riverenza singolare „.
Quale segreta commozione e quale compiacenza
nelle parole di questo valentuomo che sente come
gli sarà anche dai nipoti più lontani invidiata la for-
tuna d'essere stato discepolo d'un tanto maestro! E
con una compiacenza non dissimile, vi mando, mio
carissimo professore, da questa cameretta donde veggo
gli operai intenti a costruir la base del monumento
pariniano, un saluto riverente ed affettuoso.
Milano, 1.0 giugno 1899.
// vostro
M. SCHERILLO.
CENNI BIOGRAFICI
In Bosisio, amena borgata che si distende sul declivio meridio-
nale d'un colle speccliiantesi a nord nel tranquillo laghetto
eupilino ora detto di Pusiano, da Francesco Maria Parino (cosi
veramente questo cognome si trova scritto nei documenti briau-
zuoli), modesto negoziante di seta e " possessore di un solo po-
deretto„( Op., I, v), e da Angela Maria Carpani, jw^a^i, nacquero,
dal 1722 al '29, quattro figliuoli: un Giulio, una Caterina che
fu maritata nei Corneo di Monastirolo, una Laura che entrò
negli Appiani, e il nostro Giuseppe. Questi, l'ultimo dei quattro,
vide la luce e fu battezzato, padrino un Carl'Andrea Appiano
{8ÃŒc)y il 23 maggio del 1729.
Di nove anni, il padre, che voleva "dare al vivacissimo ed
ingegnoso figliuolo una diligente educazione,,, lo condusse a Mi-
lano, in casa della prozia Anna Maria vedova Lattuada, e lo
inscrisse alle classi inferiori del Ginnasio Arcimboldi tenuto
dai Barnabiti: frequentavano allora le superiori Pietro Verri e
Cesare Beccaria. "Addio, monti sorgenti dalle acque!,, avrebbe
forse esclamato quel giovinetto pensoso, se avesse potuto pre-
sentire l'acuto tormento della nostalgia, onde tutta la sua vita
sarebbe stata poi travagliata ; che sempre gli rimasero dinanzi
alla mente quei "colli ameni „ e quelle "pure linfe „.
La prozia mori poco dopo, nel 1741, legando per testamento
al nipotino dodicenne, con liberalità regale, " un matarazzo ad
electione del medesimo pronipote „, e al padre di lui "la quarta
parte di tutti li mobili e suppellettili, perchè potesse instruere
la casa in Milano „. Si augurava che il piccolo Giuseppe volesse
mettersi in grado di pregare ufficialmene per l'anima di lei; e
XIV CENNI BIOGRAFICI.
perciò, **se continuerà nel stato clericale e vorrà promoversi al
sacerdotio„, grlì costituiva una rendita annua su beni immobili
per una messa quotidiana. (Salveraglio, p. 6-7).
C'era poco da stare allegri; e il giovinetto tirava sii alla meglio,
facendo da ripetitore ai nipoti del canonico Agudio e copiando
carte forensi. Lo sostenevano la coraggiosa spensieratezza degli
anni e la vivacità della fantasia. Nei ritagli di tempo leggeva
e studiava le poesie altrui e ne componeva di proprie, e intanto
sospingeva lontano nell'avvenire lo sguardo avido di gloria.
Di 23 anni, nel 1752, con la falsa data di Londra, mandò fuori,
aiutato dagli amici, un primo volumetto di versi: Alcune poesie
di Bipano EiipilÌ7io {Bipano ò anagramma di Parino). E pre-
ludeva con questo baldanzoso sonetto:
Io son nato in Parnaso, e Talrae Suore
Tutte furon presenti al nascer mio;
E mi lavà ro in quel famoso rio,
Mercè solo del quale altri non muore.
Però mi scalda sì divin furore,
Sebben giovine d'anni ancor son io,
Che d'Icaro non temo il caso rio,
Mentre compro co' versi eterno onore.
So che turba di sciocchi invida e bieca
Ognor mi guarda, e con grida e lamenti
Sì bel valore a troppo ardir mi reca.
Ma non per ciò mio corso avvien ch'allenti;
Né l'età verde alcun timor m'arreca;
Ch'anco Alcide fanciul vinse i serpenti.
Erano 93 tra compoìiimenti sacri e profani, amorosi e satirici,
pastorali e pescatorii; e in tempi in cui imperava l'Arcadia, eb-
bero buona accoglienza e lodi. Per merito loro e pei buoni uffici
del Passeroni (v. più avanci, p. 46-7, 64, 159), il Parini fu ricevuto
nell'accademia dei Trasformati, che si radunava in casa del conte
Giuseppe M.Imbonati (v. p. 19,26-7) e raccoglieva quanto di meglio
potesse vantare Milano in fatto di cultura: dal conte diFirmian,
ministro plenipotenziario dell'imperatrice Maria Teresa in Lom-
bardia, e dal cardinale arcivescovo Pozzobonelli, a Pietro Verri,
al dottor Bicetti. al Beccaria, al Balestrieri, al Baretti, al Tanzi,
all'Agudio. Fu altresì ascritto alla Colonia Insubre dell'Arcadia,
ove prese il nomignolo di Darisbo Elidonio; e lo vollero nella
loro accademia anche gl'Ipocondriaci di Roggio, che lo ribattez-
zaron Cataste.
CENNI BIOGRAFICI. XV
Raggianta l'età prescritta dei 24 anni, il 14 giugno del 1754
il Parini fu ordinato sacerdote: non senza però prima superare
gravi difficoltà per mettere insieme il così detto patrimonio sacro.
L'esecutore testamentario della prozia gli era avverso; e sarebbe
forse riuscito a defraudarlo di quel po' di rendita, se non fosse
intervenuto il buon canonico Agudio a rendersi gai-ante pel chie-
rico perseguitato.
Certo, vocazione vera per uno stato che gì' impediva di for-
marsi una famiglia egli non ebbe; "né si richiese meno della
paterna autorità per istrascinarlo repugnante alla teologia ed al
sacerdozio „, attesta il Reina. Ancora tra i 50 e i 55 anni, a chi
lo invitava a scrivere un epitalamio l'amabile poeta rispondeva
con inestinta malinconia {Op.^ Il, 250) :
Chi noi già per l'undecimo
Lustro scendente con l'età fugace
Chiama fra 1 lieti giovani
A cantar d'Imeneo l'accesa face,
E trattar dolci premj e dolci affanni
Con voce aspra da gli anni?
Era gioconda immagine
Di nostra mente un di fresca donzella
, AUor che con la tenera
Madre abbracciata o la minor sorella
Sopra la soglia de' paterni tetti
Divideva gli affetti :
E rigando di lagrime
Le gote che al color giugnean natio
Bel color di modestia,
Novo di sé facea nascer desio
Nel troppo già per lei fervido petto
Del caro giovinetto,
Che con frequente tremito
De la sua mano a lei la man premendo
La guardava sollecito.
Sin che poi vinta lo venia seguendo,
Ben che volgesse ancor gli occhi dolenti
A gli amati parenti.
L'ode rimase incompiuta; forse quel vago fantasima d'una feli-
cità per sempre perduta inaspriva troppo le ferite non mai ri-
marginate.
A un nato di plebe, se avesse voluto vivere dei suoi studi,
non rimaneva altro modo che d'entrare in quella casta eguaglia-
trico a cui si spalancavano le case patrizie o le Corti. L'abito ta-
XVI CENNI BIOGRAFICI.
lare era come il dominò nero, col quale si poteva essere am-
messi, pur senza marsina, nel gran teatro della commedia umana.
Il giovane Parini si trovò subito al bivio: o prete, o morir di
fame: egli prescelse la via crucis, che avrebbe se non altro
assicurato il pane alla sua povera madre.
Fu assunto, l'anno stesso del l'ordinazione, nella casa ducale dei
Serbelloni, come precettore di Gian Galeazzo e degli altri figliuoli
nati nascituri dal duca Gabrio (spirito bizzarro e inconclu-
dente, ma fratello del cardinal Fabrizio, eh' era stato nunzio
apostolico presso l'Imperatore, e del conte Giambattista, niente-
meno che feldmaresciallo di Maria Teresa e comandante in capo
della Lombardia) e da donna Maria Vittoria duchessa di Fiano,
nata Ottoboni Boncompagni. Questa signora, che rappresentò
una parte cospicua nella vita del poeta, meritò, quando morì
nel 1790, l'elogio di Pietro Verri. "Fu donna „, ci lasciò scritto,
"di animo fermo e buono, e aveva lo spirito corredato da una
assai vasta lettura. La storia sacra, la romana, la mitologia, queste
tre classi le possedeva. Aveva una memoria eccellente, e ren-
deva buon conto di tutte le produzioni teatrali e di romanzi.
Era capace d'amicizia, d'animo disinteressato e benefico. Se non
fosse stata d'una vivacità di sentimento che talvolta la rendeva
imprudente nel parlare, se non avesse aderito con facilità a tutti
i consigli di qualche persona incautamente prescelta, sarebbe
stata donna senza difetti. Io Pietro Verri, che scrivo questa
nota, vissi. frequentandola quattro anni; e fu la prima signora
che frequentai, e le debbo d'aver conosciuta la bella letteratura
francese, e d'aver conservato genio ai libri „. (V. più avanti,
p. 191).
Il Parini rimase in questa casa otto anni, tanto mal visto
dal Duca quanto benaccetto alla Duchessa. Ma un bel giorno
dell'autunno 1762, nella villa di Gorgonzola, avendo donna Vit-
toria perduta la pazienza con la figliuola del maestro Sammartini
sua ospite che voleva a tutt' i costi tornare in città e datole due
schiaffi, il poeta di sangue popolano insorse contro il sopruso
feudale, e, lasciando in asso la signora e i pupilli, ricondusse,
com' un antico cavaliere, la donzella lagriniosa alla casa paterna.
" Non ho altra consolazione che nei libri „, scrisse in quei giorni
la Duchessa al figliuolo lontano. "Ho dovuto disfarmi dell'abate
Parini, a cagione d'una scenata che mi fece a Gorgonzola „.
A Milano il Parini si trovò sul lastrico. Dalla burrasca egli
CENNI BIOGRAFICI. XVII
usciva nudo com* un naufrago, ma portando alto sui marosi, come
Cesare, l'opera immortale, sua gloria, e vendetta non solamente
sua. Il Mattino era licenziato per le stampe sette mesi dopo.
Che amari giorni quelli dall'autunno del '62 alla primavera
del '63 ! Ce ne rimane un triste documento nel Capitolo al ca-
nonico Agudio. Certo, esso, buttato giù in una notte, non ag-
giunge multo alla fama dell'artista squisito; e la trovata me-
desima né apparisce usata ed abusata dagl'imitatori del Borni
(efr. E. Bertana, Il Favini tra i poeti giocosi del Settecento,
Giorn. Stor. d, lett, ital., suppl. 1, 1898). Pure, c'è tanta ingenuitÃ
e tanto decoro, riesce così accorato l'accenno alla madre che ha
fame (il padre gli era morto nel '60), ed è così vero e sangui-
nante l'altro alle limosino di messe che veiigon mancando, che
a leggerlo si sente una stretta al cuore. Tanto più se sappiamo
della poscritta che il poeta appose al capitolo berniesco, e che
suona con sincerità pur troppo insospettabile: "Canonico caris-
simo, non lasciate di farmi oggi questa grazia per amor di Dio,
perchè sono senza un quattrino e ho mille cose da pagare. Verso
le 23 e mezzo io andrò in casa Riso, e spero che m'avrete con-
solato. Non mostrate a nessuno la mia miseria descritta in questo
foglio. Il vostro P. che vi è debitore di quanto ha„. (Salvera-
GLio, p. 35-6).
Pare che qualche utile il poeta ricavasse dalla pubblicazione
del poemetto: dicono un 150 zecchini (circa 1800 delle nostre
lire); ad ogni modo potè sentire meno acuti i morsi della miseria.
Quel poemetto lo mise nelle grazie del conte di Firmian ; che,,
narra il Reina, "sempre il voleva seco, e consigliavasi con lui
sulle più gravi faccende, e su quelle spezialmente che riguarda-
vano la letteraria restaurazione „. Sperando di poter creare per
lui un ufficio più conveniente, ei gli affidò intanto la direzione
della Gazzetta di Milano (v. più avanti, p. 36-7).
Nel 1766 il Parini fu invitato ad andare a Parma, per inse-
gnare Eloquenza e Logica in quelle nuove scuole della Paggeria
Reale; ma non volle muoversi da Milano, aspettando che il Firmian
e il Wilzeck riuscissero ad attuare il loro disegno, d'istituire
qui una cattedra d'Eloquenza Superiore. Un insegnamento co-
desto necessario ed utile dovunque, ma tanto più a Milano,
scriveva il poeta al conte di Wilzeck [Op., IV, 161 ss.), "dove ad
onta di tante recenti cure di S. M. non si può negare che regni
ancora di molta barbarie. Senza far torto „, continuava, "a que-
XVIII CENNI BIOGRAFICI.
gl'individui che per lo solo impeto del loro talento si aprono
una strada fra le tenebre, V. S. IH.™* ben vede quanto sì le
pubbliche come le private scritture manchino per lo più d'ordine,
di precisione, di chiarezza, di digrnità . Gli avvocati, gener.al mente
parlando, non hanno idea del buono scrivere, non dico io già di
quello che si riferisce semplicemente alla grammatica od allo
stile, che pure ò molto importante, ma di quello che ha rapporto
alle convenienze degli affari e delle persone, cosa che dovreb-
b'essere tutta propria di loro. I predicatori (non parlo io de' frati,
a' quali non s'appartiene naturalmente nò fondamentalmente *la
predicazione della Chiosa Cattolica, e che oltre di ciò non si può
sperar di correggere), i predicatori, dissi, per lasciar da parte
tutto il resto di cui mancano, sono generalmente privi della prima
facoltà , cioè di farsi sentir con piacere; e ciò più per difetto d'a-
bilità in loro che di pietà ne' cittadini. Che dirò io a V. S. III.'»*
di tanti giovani sonettanti, che infestano il nostro paese, per-
suasi d'esser qualcosa d'importante; che dietro a questa vanità ,
estremamente nociva alle famiglie ed allo Stato, perdono i ta-
lenti che dovrebbero esser meglio impiegati?,, Il Parini, s'in-
tende, parlava degli avvocati, dei predicatori e dei sonettanti
del tempo suo!
Sullo scorcio del 1769, "a dispetto de' Gesuiti che malissimo
il comportarono „ (Op., I, xviii; e cfr. più avanti, pag. 13 e 38),
la cattedra fu finalmente cVeata nelle Scuole Palatine alla Ca-
nobiana; e il Parini la inaugurò solennemente il 6 dicembre, alla
presenza del ministro Frimian e del " rispettabile magistrato costi-
tuito moderatore della parte più nobile e più importante del Go-
verno, cioè gli studi dei cittadini,,. {Op., IV, 22: e v. dietro, p. ix).
Rimase colà fino al 1773, quando, cacciati i Gesuiti, quelle
scuole furono trasportate in Brera. Qui la sua cattedra mutò
l'antico nome nell'altro di Magna Eloquenza e Belle Arti (cfr.
Lettere di due amici^ p. 17); ma il titolo magniloquente non
valse a render meno modesto lo stipendio, così che il poeta non
riusciva a sgranchir le membra di sotto alla pressura della mi-
seria. È vero: con indulto arcivescovile del 25 febbraio 1772 gli
era stato concesso un beneficio ecclesiastico annesso alla chiesa
dei SS. Colombano e Paolo in Vaprio; ma non si trattava che
di sole 160 lire milanesi annue (circa 121 delle nostre)! E l'anno
appresso quel poveretto, che non possedeva "altri beni che lo
stipendio di professore „, dal letto in cui nuovamente giaceva
CENNI BIOGRAFICI. XIX
"malato di febbre terzana,, chiede al Governatore un qualche
miglioramento. " La mia presente situazione, oltre l'ordinaria
cagionevolezza della mia salute „, scriveva (Salverà glio, 38-9),
**mi fa ora sentire il peso della mia ristretta fortuna, e ciò mi
dà occasione di pensare con maggior cautela alla età già avanzata „.
Parve questo un buon momento ad alcuni ladri por fargli una
visita; anzi gliene fecero due, a poca distanza di tempo! "I ladri
perseguitano il sig. ab. Parini,,, è notato, sotto la data del 24
giugno 1776, in un diario conservato nell'Ambrosiana. "Fu
per la seconda volta rubato, e per consimil modo, di tutta la
biancheria. Ciò però ha dato motivo ad una nobil azione del
sig. conte Greppi. Il quale accompagnò con graziosissimo bi-
glietto un regalo di due pezze finissime di tela d'Olanda al me-
desimo sig. abate,,. Il buon Passeroni "corse a recargli tutti
i pochi quattrinelli che aveva „, narra il Tteina.
Nel dicembre del 76 il Papa gli accordò una pensione di 50
scudi romani sopra alcuni beni di Canigate e Chiara valle; e
poco più di due anni dopo, nel maggio del '79, i proprietari dei
palchi del t«5atro alla Scala gli donarono 50 gigliati, per aver
fornito al pittore D. Riccardi il soggetto del nuovo telone. Eran
proventi che lo salvavano a pena dalla fame. E nell'anno stesso
della Caduta, il 1785, il poeta già glorioso fu costretto a nuova-
mente supplicare S. A. R. perchè volesse conferirgli il beneficio
di Saìita Maria Assunta in Leu tate; che ottenne.
Ancora nel luglio del 1791 lo stipendio del maestro illustre
non ammontava che a 2300 lire milanesi, pari a circa 1750 delle
nostre! E dire che il Bramieri, il Cantò, il Salveraglio, il Car-
ducci si son quasi seccati del continuo chiedere che l'uomo in-
temerato era costretto a fare, e lo han quasi quasi gratificato
del titolo di querulo! Oh caritatevole conte Greppi e ottimo
professor Passeroni, il mondo o peggiora o va sempre a un modo!
Qualche buona promessa gli era stata fatta; e nell'agosto quel
poveretto pieno d'acciacchi ringraziava il Governo, persuaso che,
"senza uscire dai limiti della moderazione,,, sarebbe stato "de-
corosamente provveduto alle sue reali necessità fisiche ed eco-
nomiche „. Difatto, nell'ottobre, l'Imperatore, su proposta della
Consulta governativa, gli accordava, oltre alla cattedra, "anche
la carica di Soprantendente superiore delle scuole pubbliche
in Brera, coU'aumento di soldo, portandolo a lire annue 4000 „
(circa 3000 delle nostre: lo stipendio d'uno Straordinario!). In-
XX CENNI BIOGRAFICI.
sieme con l'assegno gli fu anche accresciuta e migliorata l'abi-
tazione, che già prima gli era stata concessa nel palazzo di Brera.
Essa, secondo risultò dalle ricerche di L. Dell'Acqua {Rendiconti
delV Istituto Lombardo, 9 novembre 1865, p. '251-2), era "col-
locata a mezzogiorno, colle finestre prospicienti l'orto botanico, e
composta di una parte di quelle stanze che sono al presente oc-
cupate dalla presidenza e segreteria del reale Istituto Lombardo
di scienze e lettere „. Dopo la concessione del 1791, consistette
"in una stanza per uso di anticamera, in un'altra stanza detta
a panò (ossia a riquadratura, dipinta cioè a cornici quadrilunghe
a uno o più doppj, e col fondo di un solo colore), nella stanza
del cammino, nella stanza da letto, ed in un camerino, poste tutte
a piano terreno e fiancheggiate da un portico; mentre prima
del 1792 consisteva nelle sole due prime stanze sopraindicate „.
L'aula dove il Parini insegnò (v. più avanti, p. 85-6 e 92) ò quella
a pian terreno, a sinistra di chi entri nel palazzo di Brera, sotto
il porticato, e a sinistra del busto del poeta, che Barnaba Oriani
vi fece porre nel 1801. Ora è adibita per magazzino di vecchiumi.
I tempi erano vìa via diventati grossi, e la bufera che imper-
versava di là minacciava di passare di qua dalle Alpi. Al pro-
fessore, che oramai viveva tranquillo "coltivando la sua lirica
e l'amicizia do' buoni „, crebbe allora, narra il Reina, "il felice
entusiasmo di libertà , e nacquegli la speranza di giorni migliori
per l'Europa, e spezialmente per l'avvilita Italia, costante og-
getto de' suoi voti; e parve che non conoscesse più incomodi
di salute o di declinante età . La politica meditazione delle an-
tiche e moderne cose libere paragonate colle giornaliere, e la
lettura di tutti i famosi giornali parigini, divennero la delizia
di lui; ma l'animo suo prudente versava in segreto su gli og-
getti amati co' fidi amici, il dottor Vincenzo Dadda ed Alfonso
Longo; nò si condusse mai ad azione veruna che offendere po-
tesse la delicatezza de' suoi doveri qual suddito o qual precettore.
La materiale lettura di giornali mal impressi gì' indebolì la vista,
e gli si appannò da una cateratta l'occhio destro,,.
Nel marzo 1798, il fulmine Napoleonico scoppiò in Italia: il 9
maggio l'esercito repubblicano passò l'Adda, il 15 entrò in Milano,
"trionfante ed applaudito da' repubblicani, o, come li chiama Botta,
gli utopisti Italiani, esecrato dal grosso delle popolazioni che si
sollevarono qua e là „ (Balbo). Il buon Parini n'esultò con in-
"genuità giovanile ; e il 6 pratile con ordinanza del generale Bo-
CENNI BIOGRAFICI. XXI
naparte e del Commissario del Direttorio Saliceti veniva chia-
mato a far parte della Municipalità di Milano, insieme con Pietro
Verri ed altri ventinove cittadini che non valevano loro due.
"Parini il poeta „, scriveva il Verri al fratello Alessandro 1*8
giugno, ** è municipalista mio collega. È un uomo un po' pedante,
ma illuminato sui principii della scienza sociale, e di molta pro-
bità „. L'altero aristocratico era dunque convertito! (V. più avanti,
p. 199 ss.). E quanti accoramenti e disinganni non ebbero oramai
comuni quei due generosi ! Il 27 luglio il Verri riscrive: "Parini,
il fermo ed energico Parini, talvolta piange. Io non piango, ma
fremo, e lo amo come uomo di somma virtù „. E il 6 agosto: "La
superiorità francese ha congedati sette municipalisti, tre dei quali
erano veramente rapaci; gli altri sono dimessi per partito, e tra
questi il nostro Parini, uomo deciso per la giustizia e fermo contro
civium ardor prava jubentium. Mi duole e mi rallegro con lui„.
Il Verri medesimo lasciò poi scritto nell'incompleta sua. Storia
deirinvasione dei Francesi repubblicani nel Milanese: ''Alcuni
pochi nomini onesti s'erano posti nella Municipalità ad oggetto
di dare qualche apparenza a quella unione screditatissima. Fra
questi l'abate Parini vi si trovò quasi collocatovi a tradimento :
il pubblico conosce in lui il poeta; chi se gli accosta, conosce
l'uomo decisamente virtuoso e fermo, e perciò il partito domi-
nante poco dopo lo fece congedare „.
Perchè lo sciancato abate potesse recarsi al Comune, il Governo
aveva messi a sua disposizione due uomini che lo sorreggessero,
specialmente nello scendere e salire le scale. Tuttavia gli acciacchi
sempre crescenti l'obbligarono, il 14 messidoro, a scrivere al " cit-
tadino ministro „ perchè volesse scusare la sua assenza dall'uf-
ficio: "alle altre infermità della mia costituzione e dell'età mia„,
gli diceva, "si è aggiunta una cateratta, che mi ha recentemente
privato dell'uso d'un occhio, e minacciami anche l'altro „. Un
decreto di tre giorni dopo, dei Commissari Saliceti e Garrau, lo
tolse d'angustie, esonerando lui e altri sei colleghi dalla carica.
Come indennizzo per i tre mesi che la tenne, gli furon pagate
1026 lire; che la sdegnosa anima, racconta il Reina, "fece se-
gretamente distribuire dal suo parroco a' poverelli „.
Tornato alla quiete della sua scuola, pur seguitando "con pre-
mura costante gli andamenti politici della giornata „ e "lodando
e biasimando cogli amici a tenore delle circostanze „, egli "visse
una libera vita privata in mezzo alle fazioni che miseramente
XXII CENNI BIOGRAFICI.
lacerarono questa bella contrada „. Pare che, nei momenti di ozio,
venisse via via narrando le "principali vicende avvenute nel
patrio municipio a' tempi suoi „ ; ma nei manoscritti non se ne
trovò traccia, e le parti che già n'aveva distese "ragionevolmente
suppongonsi cadute nelle mani de' Tedeschi „. Si narra che quando
costoro ripresero Milano condotti dal Suwarow, e "sparsero il
terrore e la desolazione fra i seguaci Sella libertà „, minacciarono
altresì di toglier la cattedra all'abate liberale. Il quale a un a-
mico che "gli offeriva al caso onesto ricovero „ sdegnosamente ri-
spose: "Aìidrò più presto mendicando, per ammaestramento de'
posteri ed infamia di costoro „.
E una maledizione alle nequizie democratiche e una biblica
profezia per gli eccessi reazionari degli Austro-Russi fu l'ultimo
canto dcW Italo cigno, liberissimo ed imparziale. Il 15 agosto
del 1799, levatosi alle 8 del mattino "per inquietudine e caldo
eccessivo,,, egli dettò al collega professor Paolo Brambilla "con
voce elevata un sonetto che si volle da lui sul ritorno de' Te-
deschi; finitolo disse: Vi ho posto un buon ricordo per costoro I „
Il sonetto ò questo {Op., II, 44):
Predà ro i Filistei l'Arca di Dio.
Tacquero i canti e Tarpe de' Leviti,
E il Sacerdote innanzi a Dagon rio
Fu costretto a celar gli antiqui riti.
Ma al fin di Terebinto in sul pendio
Vinse Davidde, e stimolò gli arditi ;
E il popol sorse, e gli erapj al suol natio
Fé' dell'orgoglio loro andar pentiti.
Or Dio lodiamo. Il Tabernacol santo
E l'Arca è salva, e si propone il Tempio
Che di Gerusalem fia gloria e vanto.
Ma splendan la giustizia e il retto esempio,
Tal che Israel non torni a novo pianto,
A novella rapina e a novo scempio.
Poco dopo le due del pomeriggio egli placidamente si spegneva
(v. più là , p. 111-12). "Privatissimi furono i funerali di lui„,
conclude il Reina, " per lutto de' tempi e per ultima sua volontà ,
così espressa: Voglio, ordino, comando che le spese funebri mi
siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all'uso che si
costuma per il più infimo dei cittadini „. Fu anche troppo scru-
polosamente obbedito; e appunto come se si fosse trattato del-
l'infimo dei Milanesi, la salma ne fu modestamente trasportata,
CENNI BIOGRAFICI. XXIII
"con funerale privato di terza elasse „ notò il curato di S. Marco,
al cimitero di Porta Oomasina. Cinque anni prima vi era stato
sepolto il Beccaria. E colà la pietà d'un collega ed amico, Cali-
mero Cattaneo, professore di rettorica, gli pose una pietra (cfr.
Forcella, Iscrizioni delle chiese di Milano, VII, p. 7), che do-
veva solo valere a ricordare che in quel cimitero orano seppel-
lite, non a distinguere quelle illustri dalle volgari ossa che
vi s'andavano accumulando. Non sono molti anni che il cimi-
tero stesso fu trasformato in orto, e pur quella modesta memoria
del poeta sottratta agli occhi dei visitatori devoti.
Mi piace chiuder questi cenni d'uno scrittore magnanimo con
le parole che scrisse di lui un altro magnanimo. Il Parini, notò
Cesare Balbo, "non volle essere né degli adulatori nò dei copri-
tori, non temette essere degli svelatori ed assalitori de' vizi pa-
trii. Sono di quelli, anch'oggi [nel 1846, come, pur troppo, non
mancano del tutto in quest'anno di grazia 1899!!, che si scan-
dalizzano a queste rivelazioni, e si fanno autorità di quel detto
di Napoleone, che bisogna far il bucato in famiglia. Ma Napo-
leone disse questo del dividersi, nel pericolo, dinanzi agli stra-
nieri; ed io sono, e fui, d'accordo con lui.... Certo che l'Italia
non avrà mai Danti, Parini od Alfieri a centinaia e migliaia;
ma quando le centinaia e migliaia de' suoi scrittori seguiranno
questi uomini suoi quasi soli severi, invece di tener dietro alla
turba dei nostri grandi adulatori, scusatori e copritori, allora
solamente e finalmente l'Italia avrà una opinione sana e virile
che la conduca a virili fatti.... Se ne persuada una volta la mi-
sera Italia: ella fu perduta da' suoi adulatori, dagli accarezza-
tori de' suoi vizi e delle sue passioni, dagli scusatori delle colpe
sue. Finche ella darà retta a costoro ed ai successori di costoro,
storici, politici, oratori di ogni sorta, ella non può riconoscere
i suoi vizi; e finche ella non li abbia riconosciuti, ella non ò
nemmen sulla via di correggerli; e finche ella non li abbia cor-
retti, ella vizierà , ella perderà tutte le occasioni, tutte le imprese „.
ODI
ODI
Avvertenza. — Le Odi vennero sparsamente pubblicate, a mano
a mano che uscivan di mano deirautore ; il quale non consenti che
si raccogliessero insieme, se non quando seppe che se ne prepa-
rava un'edizione fuori di Milano. Solo allora egli accordò al suo
scolaro ed amico Agostino Gambarelli la facoltà di ristamparle in
un volumetto, che venne fuori a Milano^ coi tipi di Giuseppe Ma-
relli, nel 1791. Questa edizione, dopo la morte del poeta, fu varie
volte riprodotta, con l'aggiunta delle odi Per V inclita Nice, A Siluia,
Alla Musa, scritte dopo il '91.
Si dice che il Parini medesimo meditasse una completa ristampa
delle sue poesie; ad ogni modo, tra i suoi manoscritti furon ritro-
vate le Odi corrette di sua mano. E appunto attenendosi, per quanto
gli era possibile, all'ultima volontà del poeta, l'avvocato Francesco
Reina le ripubblicò nel II volume della sua bella edizione delle
Opere di G. P. (1802). Le ristampe posteriori, comprese quelle di
Giuseppe Beraardoni (Milano, 1814), di Giuseppe Giusti (Firenze,
Le Mounier, 1846), di Giosuè Carducci (Firenze, Barbèra, 1858), non
hanno, quanto al testo, una vera importanza. Per riuscire a qualche
miglioramento notevole, bisognava " rifare sui manoscritti e sulle
stampe il lavoro del Reina, cercando l'ultima lezione voluta dal
poeta e porre tra le varianti tutte le lezioni anteriori , : e ciò si
propose Filippo Salveraglio, nella sua edizione, per molti lati pre-
gevole, delle Odi (Bologna, Zanichelli, 1881).
Anche noi, come tutti quelli che hanno di recente curato ri-
stampe commentate delle Odi pariuìane, abbiamo adottato il testo
del Salveraglio: ma anche noi non abbiam creduto bene compren-
dere tra esse le due canzonette Per nozze e 11 Brindisi (cfr. Novati,
nel Giornale Storico d. lett. ital., I, 124-5), che releghiamo tra le
Poesie varie; e qua e là abbiamo accolte le correzioni proposte
da Alfonso Cerquetti (// testo più sicuro delle Odi di G. P.; Osimo,
1892), dal Bertoldi (Firenze, Sansoni, 1890), dal Mazzoni (Firenze, Bar-
bèra, 1897). Quanto ai titoli, siamo senz'altro tornati a quelli che,
adottati dal Gambarelli e dal Reina, sono stati consacrati dall'uso,
dando tra parentesi quelli che il Salveraglio credè conveniente
sostituire; e quanto all'ordine, abbiam seguito quello che ci è
parso più esattamente cronologico.
LA YITA RUSTICA
(Su la libertà campestre).
Perché turbarmi Fani ma,
O d'oro e d*onor brame,
Se del mio viver Àtropo
Presso è a troncar lo stame,
E già per me si piega
Sul remo il nocchier brun
Colà donde si niega
Che più ritorni alcun ?
Queste che ancor ne avanzano
Ore fugaci e mèste,
Belle ci renda e amabili
La libertade agreste.
Qui Cerere ne manda
Le biade, e Bacco il vin ;
Qui di fior s'inghirlanda
Bella Innocenza il crin.
So che felice stimasi
Il possessor d'un'arca.
Che Plulo abbia propizio
Di gran tesoro carca ;
Ma so ancor che al potente
Palpita oppresso il cor
Sotto la man sovente
Del gelato timor.
ODI.
Me non nato a percotere
Le dure illustri porte
Nudo accorrà , ma libero,
Il regno de la morte.
No, ricchezza né onore
Con frode o con viltÃ
Il secol venditore
Mercar non mi vedrà .
Colli beati e placidi
Che il vago Èupili mio
Cingete con dolcissimo
Insensibil pendio,
Dal bel rapirmi sento
Che natura vi die.
Ed esule contento
A voi rivolgo il pie.
Già la quiete, a gli uomini
Si sconosciuta, in seno
De le vostr' ombre apprestami
Caro albergo sereno :
E le cure e gli affanni
Quindi lunge volar
Scorgo, e gire i tiranni
Superbi ad agitar.
Qual porteranno invidia
A me, che di fior cinto,
Tra la famiglia rustica,
A nessun giogo avvinto.
Come solca in Anfriso
Febo pastor, vivrò,
E sempre con un viso
La cetra sonerò!
Inni dal petto supplice
Alzerò spesso a i cieli.
Si che lontan si volgano
I turbini crudeli,
E da noi lunge avvampi
L'aspro sdegno guerrier.
Né ci calpesti i campi
L'inimico destrier.
LA VITA BUSTIOA.
E te, villan sollecito, '
Che per nov'orme il tralcio
Saprai guidar, frenandolo
Gol pieghevole salcio;
E te, che steril parte
Del tuo terren di più
Render farai, con arte
Che ignota al padre fu;
Te co' miei carmi a i posteri
Farò passar felice ;
Di te parlar più secoli
S'udirà la pendice.
Sotto le meste piante
Vedransi a riverir
Le quete ossa compiante
I posteri venir.
Tale a me pur concedasi
Chiuder, campi beati,
Nel vostro almo ricovero
I giorni fortunati.
Ah quella é vera fama
D'uom che lasciar può qui
Lunga ancor di sé brama
Dopo Tultimo di!
Il GambarelU disse quest'ode composta * nel novembre del 1758 ,
o in quel torno, e * nel 1758 , la disse scritta U Reina; ma, con buone
ragioni, il Salveraglio argomenta che si debba risalire all'estate
del 1757. Ad ogni modo, essa non fu stampata se non il 1780, nel
volume XllI delle Rime degli Arcadi (Roma, Giunchi, p. 146-9), col
titolo, nell'indice: Su la libertà campestre. Il Reina riprodusse ap-
punto questo testo a stampa, tenendo conio di " alcune correzioni ,
che II poeta stesso v'era venuto a mano a mano facendo ; il Gam-
barelU ii^vece, e dopo di lui il Bernardoni, il Giusti ecc., ridiedero
il testo quale correva manoscritto prima deUa pubblicazione ro-
mana, e dov'eran tre strofe che dal poeta, asserisce U Reina, * erano
state precedentemente rifiutate ,.
LA SALUBRITÀ DELL'ARIA
Oh beato terreno
Del vago Èupili mio.
Ecco al fin nel tuo seno
M'accogli ; e del natio
Aere mi circondi,
E il petto avido inondi!
Già nel polmon capace
Urta sé stesso e scende
Quest'etere vivace
Che gli egri spirti accende,
E le forze rintegra,
E Tanimo rallegra.
Però ch'Austro scortese
Qui suoi vapor non mena :
E guarda il bel paese
Alta di monti schiena,
Cui sormontar non vale
Borea con rigid'ale.
Né qui giaccion paludi
Che da l'impuro letto
Mandino a i capi ignudi
Nuvol di morbi infetto:
E il meriggio a' bei colli
Asciuga i dorsi molli.
Péra colui che primo
A le triste oziose
LA SALUBRITÀ DBLL*AIIIA.
Acque e al fetido limo
La mia cittade espose;
E per lucro ebbe a vile
La salute civile.
Certo colui del fiume
Di Stige ora s'impaccia
Tra Torribil bitume,
Onde alzando la faccia
Bestemmia il fango e Tacque
Che radunar gli piacque.
Mira dipinti in viso
Di iriortali pallori
Entro al mal nato riso
I languenti cultori;
E trema, o cittadino,
Che a te il soffri vicino.
Io de' miei colli ameni
Nel bel clima innocente
Passerò i di sereni
Tra la beata gente
Che di fatiche onusta
È vegeta e robusta.
Qui con la mente sgombra.
Di pure linfe asterso.
Sotto ad una fresc'ombra
Celebrerò col verso
I villan vispi e sciolti
Sparsi per li ricolti;
E i membri non mai stanchi
Dietro al crescente pane;
E i baldanzosi fianchi
De le ardite villane;
E il bel volto giocondo
Fra il bruno e il rubicondo;
Dicendo: Oh fortunate
Genti, che in dolci tempre
Quest'aura respirate.
Rotta e purgata sempre
Da venti fuggitivi
E da limpidi rivil
ODI.
Ben larga ancor natura
Fu a la città superba
Di cielo e d'aria pura;
Ma chi i bei doni or serba
Fra il lusso e Tavarizia
E la stolta pigrizia ?
Ahi I non bastò che intorno
Putridi stagni avesse;
Anzi a turbarne il giorno
Sotto a le mura stesse
Trasse gli scelerati
Rivi a marcir su i prati.
E la comun salute
Sagri fìcossi al pasto
D'ambiziose mute,
Che poi con crudo fasto
Galchin per Tampie strade
11 popolo che cade.
A voi il timo e il croco
E la menta selvaggia
L'aere per ogni loco
De' varj atomi irraggia,
Che con soavi e cari
Sensi pungon le nari.
Ma al pie de' gran palagi
LÃ il fimo alto fermenta ;
E di sali malvagi
Ammorba l'aria lenta,
Che a stagnar si rimase
Tra le sublimi case.
Quivi i lari pleblei
Da le spregiate crete
D'umor fracidi e rei
Versan fonLi indiscrete.
Onde il vapor s'aggira,
E col fiato s'inspira.
Spenti animai, ridotti
Per le frequenti vie,
De gli aliti corrotti
Empion r estivo die :
LA SALUBRITÀ DBLL*ABIA.
Spettacolo deforme
Del cittadin su Torme!
Né a pena cadde il sole,
Che vaganti latrine
Con spalancate gole
Lustran ogni confine
De la città , che desta
Beve Taura molesta.
Gridan le leggi, è vero;
E Temi bieco guata:
Ma sol di sé pensiero
Ha rinerzia privata.
Stolto ! e mirar non vuoi
Ne' comun danni i tuoi ?
Ma dove ahi corro e vago
Lontano da le belle
Colline e dal bel lago
E da le villanelle
A cui si vivo e schietto
Aere ondeggiar fa il petto ?
Va per negletta via
Ognor Tutil cercando
La calda fantasia,
Che sol felice è quando
L'utile unir può al vanto
Di lusinghevol canto.
Fu scritta, dice il Reina, " verso il 1759 „; ■nello stesso anno
dell'ode precedente , o poco dopo, U Salveraglio. Stampata fu però
solo nel 1791.
Una delle solite gride del governatore spagnuolo proibiva, il
19 luglio 1619, * tutti li risi dentro lo spatio di quattro migUa dalla
città di MUano , ; ma, posta essa pure, come quelle contro i bravi,
* in obblivione, ne segue „, diceva una nuova grida del 7 settembre
1662, * che poi Tacque fatte stagnanti rendano, come mostra l'espe-
rienza, l'aria insalubre, e causino infìrmità e danno considerabile
alla publica salute ,. Onde nuove ingiunzioni perchè nessuno 'ar-
disca di seminare, né far semina, né permettere che sia seminato
riso in alcuna parte del dominio di Milano vicino aUe città , alle
ville, edifitii e strade, per la distanza ... da Milano . . . per spatio
e circonferenza di quattro migUa, misurate per aria e per retta
10 ODI.
linea, e non per le strade , ; ai trasgressori, confisca dei prodotti)
multe, tratti di corda, galera. Il risultato vero di tanto rigore di
leggi fu che, ai tempi del Parini, le marcite si stendevano al sole
per fin " entro a le mura stesse , della città !
Le leggi SOM, ma chi pon mano ad esse?v
sembra che il Parini ripeta.
Né si direbbe che ottenesse subito un grande effetto la grida ge-
nerale del 30 aprile 1756, promulgata dal Maestrato della Sanità per
" rimovere tutte quelle incidenze che pregiudicar potessero alla
conservazione della pubblica salute, per togliere quegli abusi od
inconvenienti che potessero nocere alla salubrità dell'aria, od anche
ad una polizia che una tanta metropoli richiede ,. Essa coman-
dava : • che si tenghi netto avanti le proprie abitazioni.... ; che
niuno getti, o mandi,.. . in qualsiasi ora, acqua nelle strade e luoghi
pubblici di questa città , che possa cagionare fango o fettore, molto
meno alcun'altra cosa immonda o fetida, e specialmente alcun
animai morto....; che tutti quelli che avranno navazze stercorarie
per evacuar necessari, che soglionsi chiamar nauazzari, non pos-
sino avere né adoperare né far adoperare navazze se non ben
chiuse, di modo che non possino spandere, all'intorno né al di
sotto, la materia che in esse si riporrà ....; che.... quelle persone
alle quali morissino cani, gatti, polli, ed altri animali...., si co-
manda.... che non li ritengano scoperti nelle loro case, cortili,
luoghi, o giardini, e molto più che non li gettino né lascino get-
tare o mandare in alcun luogo pubblico della città , ma che subito
o li sotterrino o li mandino fuori delle mura in parte remota, da
non averne a ricevere offesa né il pubblico né il privato, ovvero
a casa de' deputati ed obbligati a questa provvisione degli animali
morti....; e proibiscono a qualsiasi persona.... il gettare o far get-
tare cavallo, asino, mulo, o qualunque altro .quadrupede morto o
moribondo nelli Navigli, cosi in vicinanza di questa città come in
qualsiasi altra parte dove scorrono ,.
Cfr. per tutto ciò la nota del Salveraglio, p. 192-6.
LA IMPOSTURA
Venerabile Impostura,
Io nel tempio almo a te sacro
Vo tenton per l'aria oscura;
E al tuo santo simulacro,
Cui gran folla urta di gente,
Già mi prostro umilemente.
Tu de gli uomini maestra
Sola sei. Qualor tu détti
Ne la comoda palestra
I dolcissimi precetti,
Tu il discorso volgi amico
Al monarca ed al mendico.
L' un per via piagato reggi ;
E fai si che in gridi strani
Sua miseria giganteggi;.
Onde poi non culti pani
A lui frutti la semenza
De la flebile eloquenza.
Tu de Taltro a lato al trono
Con la Iperbole ti pósi :
E fra i turbini e fra il tuono
De' gran titoli fastosi
Le vergogne a lui celate
De la nuda umariitate.
Già con Numa in sul Tarpeo
Désti al Tebro i riti santi,
1.2 ODI.
Onde l'augure poteo
Co' suoi voli e co' suoi canti
Soggiogar le altere menti
Domatrici de le genti.
Del Macedone a te piacque
Fare un dio, dinanzi a cui
Paventando Torbe tacque :
E ne TAsia i doni tui
Fur che T arabo profeta
Sollevaro a si gran meta.
Ave, dea. Tu come il sole
Giri e scaldi Tuniverso.
Te suo nume onora e còle
Oggi il popolo diverso:
E Fortuna a te devota
Diede a volger la sua rota.
I suoi dritti il merto cede
A la tua divinitade,
E virtù la sua mercede.
Or, se tanta potestade
Hai qua giù, col tuo favore
Che non fai pur me impostore ?
Mente pronta e ognor ferace
D' opportune utili fole
Have il tuo degno seguace;
Ha pieghevoli parole;
Ma tenace e, quasi monte,
incrollabile la fronte.
Sopra tutto ei non oblia
Che si fermo il tuo colosso
Nel gran tempio non slaria.
Se qual base ognor col dosso
Non reggessegli il costante
Verosimile le piante.
Con quest'arte Gluvieno,
Che al bel sesso ora è il più caro
Fra i seguaci di Galeno,
Si fa ricco e si fa chiaro;
Ed amar fa, tanto ei vale,
A le belle egre il lor male.
LA IMPOSTURA. 13
Ma Gluvien dal mio destino
D'imitar non m'è concesso.
De ripocrita Crispino
Vo' seguir Torme da presso.
Tu mi guida, o Dea cortese,
Per io incognito paese.
Di tua man tu il collo alquanto
Sul manc'omero mi premi:
Tu una stilla ognor di pianto
Da mie luci aride spremi:
E mi faccia casto ombrello
Sopra il viso ampio cappello.
Qual fia allor si intatto giglio
Ch'io non macchi o ch'io non sfrondi.
Da le forche e da l'esiglio
Sempre salvo ? A me fecondi
Di quant'oro fìen gli strilli
De' clienti e de' pupilli !
Ma qual arde amabil lume?
Ah ti veggio ancor lontano,
Verità , mio solo nume,
Che m'accenni con la mano,
E m'inviti al latte schietto
Ch' ognor bevvi al tuo bel petto.
Deh perdona ! Errai seguendo
Troppo il fervido pensiere.
I tuoi rai del mostro orrendo
Scopron or le zanne fiere.
Tu per sempre a lui mi togli;
E me nudo nuda accogli.
Fu ■recitata in una pubbUca adunanza de' Trasformati „ scri-
veva nel 1791 il Gambarelli, â– circa un trent'anni fa , : si deve
dunque ritenere, ne conclude il Salveraglio, â– scritta circa U 1761 ,.
Non apparve però stampata se non nell'edizione del Gambarelli,
e con qualche ritocco e soppressione. NotevoU queste: dopo il
verso Che non fai pur me impostore? seguivano ancora tre strofe:
Temerario menzognero
Già su Plstro non vogl' io
Al geografo Buffiero
14 • ODI.
Tórre un verso e farlo mio;
E buscar gemine e fischiate,
Falso conte e falso vate.
Né me stesso od altri io voglio
Por nel coro de* celesti,
. Vana speme e pazzo orgoglio,
Onde porta gli ocelli mesti ; .
• 11 .Biografo beflato,
Quel che il Bruni ha effeminato.
Non invidio il losco ingegno
Di si sciocchi mentitori.
Dèa, costor nel tuo bel regno
Abbiantitol d'impostori; • • .
. Xa sian risi^ ed abbian pene.
Poi che impor non sepper bene.
Non s|itìtendè completamente a quali fatti il poeta alluda. Pare
soltanto certo che il biografo- beffato sia il barna];)ita P. Bruni, al
quale furon fatte credere opera d'una divota certe vecchie e giÃ
stampate Meditazioni; ond'egli ne ricercò e scrisse la vita, col pro-
posito d'iniziarne il processo di beatificazione.
Dopo il verso A le belle egre il lor male, continuava con partico-
lari caratteristici:
Ei non come i pari suoi
Pompa fa di lingua argiva,
Ma vezzoso i mali tuoi
Chiama un'aura convulsiva;
E la febbre ch'ei nutrica
Chiama dolce e chiama antica.
Ei primiero il varco aperse
A un r»i/oro confidente;
Egli a' medici scoperse
Come l'utero si pente.
Dea, ben dritto è se n'hai scolto
Nel tuo tempio il nome e il volto.
Credo anch' io che codesto medico delle dame fosse • un ritratto
dal vivo „, come suppone il Carducci; ma non è facile, ora, iden-
tificarlo. I nomi di Cluvieno e di Crispino il poeta prese a prestito
da Giovenale (I, 80; IV, 1).
L' EDUCAZIONE
(Per la guarigione di Carlo I.mbonati).
Torna a fiorir la rosa
Che pur dianzi languia;
E molle si riposa
Sopra i gigli di pria*
Brillano le pupille
Di vivaci scintille.
La guancia risorgente
Tondeggia sul bel viso :
E quasi^ lampo ardente,
Va saltellando il riso
Tra i muscoli del labro
Ove riede il cinabro.
I crin, che in rete accolti
Lunga stagione ahi fòro,
Su Fornero disciolti
Qual ruscelletto d'oro,
Forma attendon novèlla
D'artificióse anella.
Vigor novo conforta
L'irrequieto piede:
Natura ecco ecco il porta,
Si che al vento non cede,
Fra gli utili trastulli
De' vezzosi fanciulli.
16 ODI.
O mio tenero verso,
Di chi parlando vai,
Che studj esser più terso
E polito che mai?
Parli del giovinetto
Mia cura e mio diletto?
Pur or cessò Taffanno
Del morbo ond'ei fu grave:
Oggi Tundecim'anno
Gli porta il sol, soave
Scaldando con sua teda
I figliuoli di Leda.
Simili or dunque a dolce
Mèle di favi Iblei
Che lento i petti molce,
Scendete, o versi miei.
Sopra Tali sonore
Del giovinetto al core.
O pianta di buon seme
Al suolo al cielo amica,
Che a coronar la speme
Cresci di mia fatica,
Salve in si fausto giorno
Di pura luce adorno.
Vorrei di gemali
Doni gran pregio offrirti;
Ma chi die liberali
Essere a i sacri spirti?
Fuor che la cetra, a loro
Non venne altro tesoro.
Deh perchè non somiglio
Al Tèssalo maestro
Che di Tetide il figlio
Guidò sul cammin destro!
Ben io ti farei doni
Più che d'oro e canzoni.
Già con medica mano
Quel Centauro ingegnoso
Rendea feroce e sano
II suo alunno famoso;
L* EDUCAZIONE. 17
Ma non men che a la salma
Porgea vigore a Talma.
A lui, che gli sedea
Sopra la irsuta schiena,
Ghiron si rivolgea
Con la fronte serena.
Tentando in su la lira
Suon che virtude inspira
Scorrea con giovanile
Man pel selvoso mento
Del precettor gentile;
E con l'orecchio intento
D'EÃ cide la prole
Bevea queste parole:
Garzon, nato al soccorso
Di Grecia, or ti rimembra
Perchè a la lotta e al corso
10 t'educai le membra.
Che non può un'alma ardita
Se in forti membri ha vita?
Ben sul robusto fianco
Stai ; ben stendi de Tarco
11 nervo al lato manco,
Onde al segno ch'io marco
Va stridendo lo strale
Da la cocca fatale.
Ma in van, se il resto oblio.
Ti avrò possanza infuso.
Non sai qual contro a Dio
Fé' di sue forze abuso
Con temeraria fronte
Chi monte impose a monte?
Di Teti, odi, o figliuolo,
Il ver che a te si scopre.
Da l'alma origin solo
Han le lodevol'opre.
Mal giova illustre sangue
Ad animo che langue.
D'Èaco e di Pelèo
Col seme in te non scese
IS ' ODI.
Il valop che Teseo
Chiari e Tirintio rese:
Sol da noi si guadagna^
E con noi s'accompagna.
Gran prole era di Giove
Il magnanimo Alcide;
Ma quante egli fa prove
E quanti mostri ancide,
Onde s'innalzi poi
Al seggio de gli eroi?
Altri le altere cune
Lascia, o garzon, che pregi.
Le superbe fortune
Del vile- anco son fregi.
Chi de la gloria è vago
Sol di virtù sia pago.
Onora, o figlio, il Nume
Che da Talto ti guarda ;
Ma solo a lui non fumé
Incenso o vittim'arda:
È d'uopo, Achille, alzare
Ne Talma il primo altare.
Giustizia entro al tuo seno
Sieda e sul labbro il vero;
E le tue mani siéno-
Qual albero straniero
Onde soavi unguenti
Stillin sopra le genti..
Per che si pronti affetti
Nel core il ciel ti pose?
Questi a Ragion commetti,
E tu vedrai gran cose:
Quindi Talta r^ttrice
Somma virtude elice.
Si bei doni del cielo -
No, non celar, garzone,.
Con ipocrito velo ^ ^
Che a la virtù si oppone.
Il marchio ond'è il cor scolto
Lascia apparir nel volto.
L* EDUCAZIONE. 19
Da la lor mela hah lode,
Figlio, gli affetti umani.
Tu per la Grecia prode
Insanguina le mani:
Qua volgi, qua l'ardire
De le magnanim' ire.
Ma quel più dolce senso,
Onde ad amar ti pieghi,
Tra lo stuól d'armi denso
Venga, e pietà non nieghi
Al debole che cade
É a te grida pietade.
Te questo ognor costante
Schermo renda al mendico;
Fido ti faccia amante
E indomabile amico.
Cosi con legge alterna
L'animo si governa.
Tal cantava il Centauro.
Baci il giovan gli offriva
Con ghirlande di lauro.
E Tètide che udiva
A la fera divina
Plaudia da la marina.
Fu scritta nel maggio del 1764. Il 24 di quel mese ricorreva Tun-
decimo compleanno del primogenito, anzi ' l'unico amato germe
maschil deUa prosapia illustre „ del conte Giuseppe Maria Imbo-
naU, fondatore e mecenate dell'Accademia dei Trasformati, e di
Francesca Bicetti de' Buttinoni, soreUa del dottor Giammaria cui
il Parini diresse Tanno dopo Tode suU'/n/ie«/o del vaiuolo. Il con-
tino Carlo (' il mio ImbonaUno „, lo chiamava il Barelli, Scritti
inediti, II, 51), la cui educazione aveva in cura il Parini, era stato,
' colpa del secol pigro al fido innesto «, fieramente colpito dal
' morbo fatai » ( Versi sciolti del dott. Bicetti, p. 71) ; ma per buona
fortuna l'aveva vinto. Di ciò teneramente si compiace Tallo suo
educatore; che, sano e forte il corpo, intende ora, come ' il gran
Chirone U qual nudrl Achille », a dar precetti al suo alunno che
valgano a rinvigorirgli anche Tanimo.
Carlo Imbonati non si mostrò indegno d'un tanto maestro, che,
divenuto poi suo amico, egU ammirò sempre con reverente affetto
quale ' scola e palestra di virtù «. Anzi U Manzoni giovinetto potè
20 ODI.
immaginare di sentirgli ripetere a suo vantaggio, quasi scultoria-
mente codificati, quegl' insegnamenti medesimi che già * con l'orec-
chio intento , egli avea bevuti dal â– precettor gentile , (cfr. il
carme In morte di Carlo Imbottati):
Sentir, riprese, e meditar; di poco.
Esser contento; da la meta mai
Non torcer gli occhi ;. conservar la mano
Pura e la mente; de le umane cose
Tanto sperimentar quanto ti basti
Per non curarle; non ti far mai servo;
Non far tregua coi vili; il santo Vero
Mai non tradir; né profferir mai verbo
Che plauda al vizio, o la virtù derida.
L'ode non comparve stampata se non nel 1791.
L'INNESTO D^L VAIUOLO
(ÀI dottore Giammaria Bicetti de' Buttinoni).
O Genovese, ove ne vai^ qual raggio
Brilla di speme su le audaci antenne?
Non temi, oimé, le penne
Non anco esperte de gli ignoti venti?
Qual ti affida coraggio
A r intentato piano
De lo immenso oceano?
Senti le beffe de TEuropa, senti
Come deride i tuoi sperati eventi.
Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice
Che natura ponesse a Tuom confine
Di vaste acque marine.
Se gli die mente onde lor freno imporre;
E da Talta pendice
Insegnògli a guidare
I gran tronchi sul mare,
E in poderoso cà nape raccórre
I venti, onde su Tacque ardito scorre.
Cosi Teroe nocchier pensa, ed abbatte
1 paventati d'Ercole pilastri;
Saluta novelli astri,
E di nuove tempeste ode il ruggito.
Veggon le stupefatte
22 ODI.
Genti de Torbe ascoso
Lo stranier portentoso.
Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito
A l'Europa che il beffa ancor sul lito.
Più de Toro, Bicetti, a Tuomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più de Toro possanza
Sopra gli animi umani ha la bellezza.
E pur la turba ignara
Or condanna il cimento,
Or resiste a l'evento
Di chi '1 doppio tesor le reca; e sprezza
I novi mondi al prisco mondo avvezza.
Come biada orgogliosa in campo estivo,
Cresce di santi abbracciamenti il frutto.
Ringiovanisce tutto
Ne raspetto de' figli il caro padre;
E dentro al cor giulivo
Contemplando la speme
De le sue ore estreme,
Già cultori apparecchia artieri e squadre
A la patria, d'eroi famosa madre.
Crescete, o pargoletti: un di sarete,
Tu forte appoggio de le patrie mura,
E tu soave cura
E lusinghevol esca a i casti cori.
Ma, oh Dio, qual falce miete
De la ridente messe
Le si dolci promesse?
O guai d'atroce grandine furori
Ne sfregiano il bel vérde e i primi fiori?
Fra le tenere membra orribil siede
Tacito seme; e d'improvviso il desta
Una furia funesta,
De la stirpe degli uomini flagello.
Urta al di dentro e fiede
Con lievito mortale;
E la macchina frale
O al tutto abbatte o le rapisce il bello.
Quasi a statua d'eroe rivai scarpello.
l'innesto del yaiuolo. 23
Tutti la furia indomita vorace,
Tutti una volta assale a i più verd'anni;
E le strida e gli affanni
Da i tugurj conduce a' regj tetti;
E con la. man rapace
Ne le tombe condensa
Prole d'uomini immensa.
Sfugge taluno, é vero, a i guardi infetti;
Ma palpitando peggior fato aspetti.
Oh miseri! che vai di medic'arte
Né studj oprar né farmachi né mani ?
Tutti i sudor son vani
Quando il morbo nemico é su la porta;
E vigor gli comparte
De la sorpresa salma
La non perfetta calma.
Oh debil arte, oh mal secura scorta,
Che il male attendi, e no '1 previeni accorta I
Già non l'attende in Oriente il folto
Popol che noi chiamiam barbaro e rude;
Ma sagace delude
Il fiero inevitabile demòne.
Poi che il buon punto ha colto
Onde il mostro conquida,
Coraggioso lo sfida;
E lo astrigne ad usar ne la tenzone
L'armi che ottuse tra le man gli pone.
Del regnante velen spontaneo elegge
Quel ch'é men tristo; e macolar ne suole
La ben amata prole,
Che non più recidiva in salvo torna.
Però d'umano gregge
Va Pechino coperto;
E di femmineo merto
Tesoreggia il Circasso, e i chiostri adorna
Ove la dea di Cipri orba soggiorna.
O Montegù, qual peregrina nave,
Barbare terre misurando e mari,
E di popoli varj
Diseppellendo antiqui regni e vasti,
24 ODI.
E a noi tornando grave
Di strana gemma e d'auro,
Portò si gran tesa uro,
Che a pareggiare non che a vincer basti
Quel che tu da l'Eussino a noi recasti ?
Rise TAnglia, la Francia, Italia rise
Al rammentar del favoloso Innesto;
E il giudizio molesto
De la falsa ragione incontro alzosse.
In van Tefifetto arrise
A le imprese tentate;
Che la falsa pietate
Contro al suo bene e contro al ver si mosse,
É di lamento femminile armosse.
Ben fur preste a raccór gl'infausti doni
Che, attraversando Toccano aprico,
Lor condusse Americo;
E ad ambe man li trangugiaron pronte.
De' lacerati troni
Gli avanzi sanguinosi,
E i frutti velenosi
Strinser giojendo; e da lo stesso fonte
De la vita succhiar spasimi ed onte.
Tal del folle mortai, tale è la sorte:
Centra ragione or di natura abusa;
Or di ragion mal usa
Centra natura che i suoi don gli porge.
Questa a schifar la morte
Insegnò madre amante
A un popolo ignorante;
E il popol cólto, che tropp'alto scorge.
Contro a i consigli di tal madre insorge.
Sempre il novo ch'è grande appar menzogna,
Mio Bicetti, al volgar debile ingegno;
Ma imperturbato il regno
De' saggi dietro a l'utile s'ostina.
Minaccia né vergogna
No '1 frena, no '1 rimove;
Prove accumula a prove;
Del popolare error l'idol rovina,
E la salute a i posteri destina.
l'innesto del VAIUOLO. 25
Cosi l'Anglia, la Francia, Italia vide
Drappel di saggi contro al vulgo armarse.
Lor zelo indomit'arse,
E di popolo in popolo s'accese.
Contro a Tarmi omicide
Non più debole e nudo,
Ma sotto a certo scudo
Il tenero garzon cauto discese;
E il fato inesorabile sorprese.
Tu su Torme di quelli ardito corri,
Tu pur, Bicetti; e di combatter tenta
La pietà violenta
Che a le insubriche madri il core implica.
L'umanità soccorri;
Spregia l'ingiusto soglio
Ove s'arman d'orgoglio
La superstizion, del ver nemica^
E Tostinata folle scola antica.
Quanta parte maggior d'almi nipoti
Coltiverà nostri felici campi!
E quanta fìa che avvampi
D'industria in pace o di coraggio in guerra!
Quanta i soavi moti
Propagherà d'amore,
E desterà il languore
Del pigro Imene, che infecondo or erra
Contro a Tutil comun di terrà in terra!
Le giovinette con le man di rosa
Idalio mirto coglieranno un giorno:
A l'alta quercia intorno
I giovinetti fronde coglieranno;
E a la tua chioma annosa,
Cui per doppio decoro
Già circonda Talloro,
Intrecceran ghirlande, e canteranno:
Questi a morte ne tolse o a lungo danno.
Tale il nobile plettro in fra le dita
Mi profeteggid armonioso e dolce,
Nobil plettro che molce
II duro sasso de Tumana mente;
26 ODI.
E da lurige lo invita
Con lusinghevol suono
Verso il ver, verso il buono;
Né mai con laude bestemmiò nocente
O il falso in trono o la viltà potente.
Fu scritta nel 1765, e pubblicata nello stesso anno innanzi al vo-
lume Osservazioni sopra alcuni innesti di vainolo di Gioyammaria. Bi-
getti de' ButtinOni da Trevi in Ghiaradadda...., in Milano 1765, con
l'intestazione: • Al signor dottore Giovammaria liicetU de* Butti-
noni che con felice successo eseguisce e promulga l'innesto del
vaiuolo, canzone di Giuseppe Parini ,.
Il Ricetti, nato a Treviglio nel dicembre 1708, fu, col cognato
Giuseppe Imbonati, dei principali ricostitutori dell'Accademia dei
Trasformati; e, oltre che di medicina, s'occupò pure di grammatica
italiana e dì poesia (perciò l'alloro circondava la sua fronte ■per
doppio decoro „ ). In dodici lettere a medici illustri descrisse alcuni
casi di vaiuolo da lui felicemente curati coU' inoculazione; e queste,
che videro prima parzialmente la luce nelle effemeridi, ei raccolse
nel volume su indicato, scrivendo nell' /n/roduzzone: " Ignoro la
cagione per la quale, essendosi ormai reso universale tal metodo
in Europa, anzi in parte della nostra Penisola, quasi la sola Lom-
bardia vada con pie' si cauto e guardingo, poco credula alle altrui
affermazioni, o troppo paurosa di non egual riescita ,. Per codesto
suo zelo umanitario meritò un premio dal Governo. (Cfr. D.' An-
drea Verga, Della vita e degli scritti di G. M. Bicetti De-Buttinoni,
Treviglio, 1887).
Nell'ultimo numero del Caffé (1764), Pietro Verri cosi riassumeva
la storia dell'innesto del vaiuolo: â– Antico assai debb'essere il va-
iuolo nel vasto Impero della China .. , e antico pure l'uso di co-
municarlo per innesto In Europa U metodo d'innestare venuto
dai Circassi, quindi chiamato pur Modus Circassicus, fu da una
donna circassa portato a Costantinopoli circa l'anno 1670. Da Co-
stantinopoli qualche notizia ne trapelò in Europa prima del 1713.
Finalmente nell'anno 1713 due medici greci pubblicarono all'Eu-
ropa l'innesto che avevan veduto praticato generalmente a Costan-
tinopoli.... Poco o nessun effetto produssero i libri di que' due me-
dici.... Un solo esperimento d'innesto si fece a Parigi dal celebre
medico Eller „. Quel che meglio valse fu il coraggioso esempio di
Maria Wortley Montagu, moglie dell'ambasciatore inglese a Co-
stantinopoli. La quale nel 1717 scriveva a una sua amica da Adria-
nopoli (riferisco anch'io, dal Salveraglio, la traduzione francese):
* La petite vérole, si generale et si crucile parmi nous, n'est qu'une
bagattelle dans ce pays par le moyen de l'inoculation qu'on a dé-
couverte (c'est le terme dont on se sert): il y a una troupe de
vieillcs femmes dont l'unique niéUcr est de faire cette opération ,.
l'innesto del vaiuolo. 27
E dopo d'averla minutamente descritta, soggiungeva : • On n'a vue
lei mourir personne de l'inoculation ; et je suis si convaincue de
la bonté de cette opération, que j'ai resolu de la faire à mon cher
petit enfant. J'aime assez ma patrie pour tacher d'y ihtroduire
cet usage, et je ne manquerois pas d'écrire exprès à nos méde-
cins, si je les croyois assez zélés pour sacrifier leur interét parti-
culier au bien du genre humain, et pour perdre une partie si
considerable de leur revenue; mai je craindrois, au contraire, de
m'exposer à tout leur ressentiment, qui est dangereux, si j'entre-
prenais de leur fail-e un tort si considerable. Peut-élre qu'à mon
retour en Angleterre j'aurai assez de courage pour leur déclarer
la guerre ,. E nel 1718 fece difatto innestare a Costantinopoli il
suo unico figliuolo. Essa mori nel 1762.
â– Il vanto di avere introdotta questa salutare pratica in Lom-
bardia, come anche nel Veneto, è tutto del dottor Giammaria Bi-
cetti „ dice il Verga (pag. 26). * È vero che il dott. F. Berzi fin dal
1758 l'aveva adoperata in Padova sopra una sua bambina, e ne
aveva anche stesa pubblica relazione, ma fu un caso solo e nes«
suno vi badò, tranne Barelli, che rimproverò a quel dottore d'a-
verla narrata con si prolisse ciance, che era una seccaggine. Anche
il cremasco Taddini, quattro anni prima del Bicetti, l'aveva felice-
mente tentata in due suoi figli, ma non era andato più in là , e il
nobile esempio era rimasto senza sèguito. Al dott. Bicetti era ri-
servato di trionfare di tutti gli ostacoli e di segnare un'era impor-
tante nella storia della medicina ,.
Egli mori a Treviglio il 6 febbraio del 1778. A don Francesco
Carcano che gliene dava notizia, il Barelli, ch'era stato intimo dei
Bicetti, cosi rispondeva da Londra il 12 agosto (Scritti scelti ined.
o rari, Milano, 1823, v. II, p. 293-4): " Dunque la morte m'ha privo
del dottor Bicetti e del Segretario Fuentes? Oh dura cosa anche
l'amicizia, che o tosto o tardi t'ha a cagionare di queste amaritudini!
Quante belle ore non ho io passate nella compagnia di que' due
degni uomini quando eravamo tutti e tre giovani, tutti e tre pieni
di poesia e d'amore verso le buone lettere! E quando il mio Tanzi
era vivo anch'esso, il bel quarto che faceva nella nostra congrega !
E il Soresi anch'esso, e quel re de' galantuomini Conte Imbonati!
Dio ^11 abbia tutti nella sua santa gloria, e me con essi a suo
tempo I Mi duole altresì della signora Cecca e de' suoi figliuoli,
che, se il Songa mi dice vero, sono stati lasciati dal dottore in
troppo piccole circostanze. Oh mondacelo pieno di guai! ,.
E del Barelli è anche notevole, a proposito di quest'ode pariniana,
un'altra lettera al Carcano, da Genova il 26 settembre 1770 (II, 176-7).
L'amico milanese gli aveva il 22 settembre 1768 diretta " una lun-
ghissima lettera „ nella quale gli dava " la brutta nuova della
morte del Conte Imbonati „ gli parlava ' della Raccolta da farsi in
tale occasione ,, gli menzionava " matrimoni, amici, versi, acca-
demia, vajuolo. Bulla in Coena Domini, autori del Caffè fatti mi-
nistri, e mill' altre cose ,; e alla lettera accompagnava * un regalo
delle opere del Passeroni, del Parini, e di diversi altri „. Pare pro-
babile che tra codeste ' opere , fosse pur l'ode al Bicetti ; ad ogni
28 ODI.
modo il Baretti, ringraziando di tutto, soggiunge : " E rispondendo
a quella parte della lettera iu cui fate certe obbiezioni all'innesto
del vajuolo, vi dirò in due parole che di quaranta o cinquantì^
mila bambini innestati in Inghilterra ogn'anno, è fatto verificato
cento volte che non ne muore quasi uno ; né è punto vera l'asser-
zione che il vajuolo venga due volte, vuoi innestato o vuoi naturale,
parlando universalmente, comechè il caso abbia fatto che una
o due persone in un milione l'abbiano avuto due volte ed anche
tre. Avrete qualche volta veduto uomini e bestie nascere con due
teste, ma questo non fa che gli uomini e le bestie non nascano
che con una testa sola. Questi sono scherzi di natura che appena
fanno eccezione alla regola. Il fatto sta, che dando il vajuolo arti-
ficialmente alle creature, dopo d'aver preparato loro il corpo a
dovere onde venga fuori benigno, si salva loro sovente la vita e la
bellezza altresì, che io valuto poco meno della vita stessa; onde
sempre considererò come deboli i genitori che non faranno fare
questa operazione ai loro figliuoli, e come savj que' che. la fa-
ranno lor fare. Ecco quello che ora posso dirvi in tal proposito ,.
Per comprender bene i versi: Sfugge taluno, è vero, a i guardi
infetti; Ma palpitando peggior fato aspetti, si tenga presente questo
luogo dei Promessi Sposi (e. XXXIII): " I pochi guariti dalla peste
erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una
classe privilegiata. Una gran parte dell'altra gente languiva o mo-
riva; e quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano
in continuo timore [palpitando] ; andavan riservati, guardinghi, con
passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme :
che tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Quegli
altri all'opposto, sicuri a un di presso del fatto loro (giacché aver
due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano
per mezzo al contagio franchi e risoluti ,.
IL BISOGNO
(AI signor Wirtz, Pretore per la Repubblica Elvetica).
Oh tiranno signore
De' miseri mortali;
Oh male, oh persuasore
Orribile di mali,
Bisogno^ e che non spezza
Tua indomita fierezza!
Di valli adamantini
Cinge i cor la virtude ;
Ma tu gli urti e rovini;
E tutto a te si schiude:
Entri, e i nobili affetti
O strozzi od assoggetti.
Oltre corri, e fremente
Strappi Ragion dal soglio;
E il regno de la mente
Occupi pien d'orgoglio,
E ti poni a sedere
Tiranno del pensiere.
Con le folgori in mano
La Legge alto minaccia ;
Ma il periglio lontano
Non scolora la faccia
Di chi senza soccorso
Ha il tuo peso sul dorso.
30 ' ODI.
Al misero mortale
Ogni lume s'ammorza ;
Vèr la scesa del male
Tu lo strascini a forza:
Ei di sé stesso in bando
Va giù precipitando.
Ahi ! rinfelice allora
I comun patti rompe;
Ogni confine ignora;
Ne' beni altrui prorompe;
Mangia i rapiti pani
Con sanguinose mani.
Ma quali odo lamenti
E stridor di catene;
E ingegnosi stromenti
Veggo d'atroci pene
LÃ per quegli antri oscuri
Cinti d'orridi muri?
Colà Tèmide armata
Tien giudizj funesti
Su la turba affannata
Che tu persuadesti
A romper gli altrui dritti,
O padre di delitti.
Meco vieni al cospetto
Del nurtie che vi siede :
No, non avrà dispetto
Che tu v'innoltri il piede.
Da lui con lieto vòlto
Anco il Bisogno è accolto.
O ministri di Temi,
Le spade sospendete;
Da i pulpiti supremi
Qua l'orecchio volgete.
Chi è che pietà niega '
Al Bisogno che prega ?
Perdòn, die' ei, perdóno •
A i iniseri cruciati.
Io son l'autore, io sono
De' lor primi peccati.
IL BISOGNO. 31
Sia contro a me dii*etta
La pubblica vendetta.
Ma quale a tai parole
Giudice si commove?
Qual de Fumana prole
A pietade si move ?
Tu, Wirtz, uom saggio e giusto,
Ne dai Tesempio augusto :
Tu cui si spesso vinse
Dolor de gl'infelici
Che il Bisogno sospinse
A por le rapitrici
Mani ne V altrui parte
O per forza o per arte ;
E il carcere temuto
Lor lieto spalancasti ;
E dando oro ed ajuto,
Generoso insegnasti
Come senza le pene
Il fallo si previene.
Fu stampata la prima volta in Milano nel 1765. Il pretore Wirtz,
cui è diretta, ' s'acquistò ,, annota il Gambarelli, * una lode straor-
dinaria nell'amministrazione specialmente del Criminale, ma so-
prattutto per lo zelo ed attività sua in somministrare mezzi effi-
caci alla emendazione de' malviventi ,.
L'anno innanzi era apparso il famoso opuscolo del Beccaria, Dei
delitti e delle pene^ dove son propugnate largamente e caldamente
le medesime dottrine umanitarie che qui il poeta tocca appena.
Cfr. p. es. il § XVI: * Ecco presso a poco il ragionamento che fa
un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per
non violare le leggi che la forca o la ruota....: Quali sono queste
leggi che io devo rispettare, clic lasciano un cosi grande intervallo
fra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che gli cerco, e si scusa
col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatto queste
leggi? uomini ricchi e potenU, che non si sono mai degnati visi-
tare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso
un ammuffato pane fra le innocenti grida degli affamaU figliuoli
e le lagrime deUa mogUe. Rompiamo questi legami, fatali alla
maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni; at-
tacchiamo l'ingiustizia neUa sua sorgente.... Re d'un picciol nu-
mero, correggerò gU errori della fortuna, e vedrò questi tiranni
32 ODI.
impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insul-
tante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani ..
E § XII: " Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte
delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o
per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni
nelle quali incorre, o per la scoperta de* complici, o per non so
quale metafisica ed incomprensibile purgazione d' infamia, o final-
mente per altri delitti di cui potrebbe esser reo ma dei quali non
è accusato.... ,.
E finalmente § XX.I: * È meglio prevenire i delitti che punirli.
Questo è il fine principale di ogni buona legislazione, che è l'arte
di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d'infe-
licità possibile.... Ma i mezzi impiegati finora sono per lo più falsi,
ed opposti al fine proposto.... La maggior parte delle leggi non sono
che privilegi, cioè un tributo di tulli al comodo di alcuni pochi....
Il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di
perfezionare l'educazione ,. (Cito dall'ediz. procuratane dal Cantù,
in appendice al voi. Beccaria e il diritto penale^ Firenze, Barbèra,
1S62, perchè oramai la più comune, non perchè essa possa parermi
preferibile, specialmente nel nostro caso, alle più antiche).
Codeste nuove idee non eran già proprie del Beccaria ; che anzi,
come si sa, quella medesima opera, che gli fruttò tanti onori, nac-
que e fu distesa e discussa nelle conversazioni amichevoli in casa
di Pietro Verri. (Cfr. G. A. Venturi, C. Beccaria e le leti, di P. e A.
Verri; Ancona, 1882, p. 7 e seg. — Novati, Otto lettere di Tito Pom-
ponio Attico a Publio Cornelio Scipione, cioè del Beccaria al conte
Giambattista Biffi; Ancona, 1887, p. 15 e seg. — Bouvy, Le e, P. Verri;
Paris, 1889, p. 91 e seg.).
LA MUSICA
(La evirazione).
Aborro in su la scena
Un canoro elefante,
Che si strascina a pena
Su le adipose piante,
E manda per gran foce
Di bocca un fìl di voce.
Ahi péra lo spietato
Genitor che primiero
Tentò di ferro armato
L'esecrabile e fiero
Misfatto onde si duole
La mutilata prole!
Tanto dunque de' grandi
Può r ozioso udito,
Che a' rei colpi nefandi
Sen corra il padre ardito.
Peggio che fera od angue
Grudel contro al suo sangue ?
O misero mortale,
Ove cerchi il diletto ?
Ei tra le placid'ale
Di natura ha ricetto :
LÃ con avida brama
Susurrando li chiama.
34 ODI.
Ella femminea gola
Ti diede, onde soave
L'aere se ne vola
Or acuto ora grave;
E donò forza ad esso
Di rapirti a te stesso.
Tu non però contento
De' suoi doni, prorompi
Contro a lei violento,
E le sue leggi rompi;
Cangi gli uomini in mostri,
E lor dignità prostri.
Barbara gelosia
Nel superbo Oriente
So che pietade oblia
Vèr la misera gente
Che da lascivo inganno
Assecura il tiranno :
E folle rito al nudo
Ultimo Caffro impone
Il taglio atroce e crudo.
Onde al molle garzone
11 decimo funesto
Anno sorge si presto.
Ma a te in mano lo stile,
Italo genitore,
Pose cura più vile
Del geloso furore:
Te non error, ma vizio
Spinge a Torrido ufizio.
Arresta, empio! Che fai?
Se tesoro ti preme,
Nel tuo figlio non Thai?
Con le sue membra insieme.
Empio I il viver tu furi
A i nipoti venturi.
Oh Cielo 1 e tu consenti
D' oro si cruda fame ?
Né più il foco rammenti
Di Pentapoli infame,
LA MUSICA. 35
Le cui orribiFopre
11 nero asfalto copre?
No. Del tesor che aperto
Già ne la mente pingi
Tu non andrai per certo
Lieto come ti fingi.
Padre crudeli Suo dritto
De* avere il tuo delitto.
L'oltraggio, ch'or gli è occulto,
11 tuo tradito figlio
Ricorderassi adulto,
Con dispettoso ciglio
Da la vista fuggendo
Del carnefice orrendo.
In vano, in van pietade
Tu cercherai; che Talma
In lui depressa cade
Con la troncata salma.
Ed impeto non trova
Che a virtude la mova.
Misero ! A lato a i regi
Ei sederà cantando
Fastoso d'aurei fregi;
Mentre tu mendicando
Andrai canuto e solo
Per l'italico suolo:
Per quel suolo che vanta
Gran riti e leggi e studi,
E nutre infamia tanta
Che a gli Affricani ignudi,
Ben che tant'alto saglia,
E a i barbari lo agguaglia.
11 Salveraglio la suppone scritta circa il 1770.
Il 19 maggio dell'anno precedente era stato eletto papa il Ganga-
nelli, Clemente XIV, U quale lasciava sperare molte riforme. Ma
appunto perchè egli davvero vi pensava e intendeva riuscire, non
faceva trasparir nulla dei suoi disegni; e i curiosi e i novellisti,
com' allora si chiamavano i corrispondenti dei giornali, si perde-
vano in congetture.
36 ODI.
Il Parini era stato chiamato in quei giorni dal Firmian a com-
pilare l'ufficiosa Gazzetta di Milano. " Ne' giorni di posta Sua Ec-
cellenza gì' inviava, coU'accordo di mandarli a riprendere la sera
tardi, i giornali e le lettere, dì che era ben provveduto; e il Pa-
rini, fatto lo spoglio, prima di dormire poneva sopra una rin-
ghiera interna della casa Risi, dove abitava, l'originale della gaz-
zetta, il quale era tolto alla mattina di buonissima ora dallo
stampatore „. (Cfr. Salveraglio, p. 216).
Ora una volta accadde (lo racconta in una lettera l'abate Alfonso
Longo, amicissimo del poeta) " che, per un temporale con gran
pioggia soi^ravvenuto la notte, il vento si portò via l'originale, pro-
babilmente guastato dall'acqua. Lo stampatore cercò indarno que-
st'originale la mattina, e fatto svegliare il Parini instò per potere
stampare la Gazzetta. Parini compose in fretta una gazzetta di quel
poco che si poteva ricordare; ma non arrivava a compiere il fo-
glio quanto doveva esserlo per occupare la Gazzetta. Non sapendo
più come supplire al bisogno di tante righe, pensò di supplirvi
non colie nuove di ciò clie si fosse fatto, ma di ciò che si doveva
fare „. Così, aiutato dalle reminiscenze delle letture già fatte e for-
s'anclie di qualche smarrita corrispondenza autentica, mise in-
sieme una lettera da Roma, con la data del 2 agosto, clie comparve
nella Gazzetta del 16, in cui era detto: " Un silenzio che credesi
tanto più attivo quanto è più esatto copre per anco in un alto se-
greto la trattazione degli affari tra il Pontefice e le Corti... Tutto
il mondo gioca a indovinare, e noi stiamo a vedere chi ci coglie.
Tre cose sono ottime fra le altre per ben governare uno Stato, e
il Papa a buon conto le fa tutl'e tre per la felicità de' suoi sud-
diti. Queste tre cose sono: assicurare il pane al pubblico, impe-
dire lo sciuijamento delle sostanze nei privati, allontanare il po-
polo dalle macchinazioni e dai vizi.... Adunque il Papa ha permesso
che si aprano i teatri anche in altre stagioni che le solite. A questo
proposito si vuole che il i^rudentissimo Pontefice permetterà che
recitino nei teatri di Roma anche le donne, i^revenendo con savie
leggi l'abuso che ne può nascere. Si vuole ancora che sia per esclu-
dere dalle sacre funzioni i musici castrati, impedendo così dal
canto suo la maggiore e la più esecrabile depravazione che far si
possa dell'umana natura, contraria alle leggi divine ed ecclesia-
stiche. Quando si pretende d'indurre gli uomini a lasciare una
co.sa malfatta, a cui sono chiamati dal loro interesse, non basta
proibirla colle leggi sotto pene temporali o spirituali,bisogna fare
in modo che non abbiano più interesse di farla. Crediamo che
queste nuove, benché scarse, sieno qualche cosa più importanti
di quelle che con lungo dettaglio s'inseriranno negli altri Avvisi
di questo ordinario „.
Quantunque con un editto del 24 gennaio 1770 si bandisse ancora
un concorso per " quattro voci soprannumere nella Cappella ponti-
ficia, cioè di un contralto naturale e di due soprani e di un te-
nore „, pare che davvero il Papa riformatore mulinasse d'abolire
quell'infamia; anzi, s'è da credere al suo primo biografo, egli avea
pur dato " gli ordini opportuni per estirpar questa barbara costu-
LA MUSICA. 37
manza, che l'eccesso d'un lusso asiatico aveva introdotta ». (Cah.vc-
ciOLi, Vita di Clemente XIV; Firenze, 1777).
Il Reina (I, xvii-xviii), che racconta un po' diversamente l'aned-
doto della dispersione del manoscritto, asserisce esser la notizia
dell'abolizione una mera bizzarria del Parini, e soggiunge che essa,
" riferita tosto dalla Gazzetta di Leida e da tutti gli altri giornali,
si diffuse romorosamente in Europa: grandi elogi ne diedero al
Pontefice i protestanti „, e Carlo Bordes di Lione " gl'indirizzo la
bella pistola Sur ce qii'il ne veut plus de castrats. „ (Cfr. anche No-
VATi, nel Giornale Storico d. lett. Hai., I, p. 121-3).
Quale fosse per l'appunto il " canoro elefante „ che allora beava
" la città , lasciva d'evirati cantori allettatrice „, e cui il poeta so-
prattutto mirasse, non è facile indovinare. Sembra però certo che
in colui, che " fastoso d'aurei fregi „ sedeva allora " cantando a
lato a i regi „, egli volesse indicare il napoletano Carlo Broschi,
soprannominato, per riguardo ai suoi primi mecenati Farina, il
Farinelli, grande amico del Metastasio (che lo chiamava " gemello
adorabile „ !) e lungamente favorito, consigliere segreto e ministro
di Filippo V e di Ferdinando VI di Spagna. Nato in Andria nel
1705, da un mugnaio, egli mori nel 1782 a Bologna, dove s'era ri-
tratto fin dal 1762, dopo cioè la morte della regina di Spagna. (Cfr.
FLomMO, fjtt scuola musicale di Napoli; Napoli, 1883, v. Ili, p. 455-62).
Nel sermone // teatro (Opere, III, 165 e seg.), il Parini aveva giÃ
scritto a proposito dei musici:
Qui sol. Musa, s'aspetta
Un fracido castron che a* suoi belati
11 folto stuol de' baccelloni alletta....
Che iraportan leggi al poeta meschino,
Pur che quel poco al fin vada buscando
Che avanza a Farinello e a Carestino ?...
Piace a Cornelia vecchia il sucidume
Del sopran floscio, e lodalo a la figlia
Con quanta ella può mai forza ed acume;
Ma la figlia vuol altro!
Del Poeta ridiam
Hi leva ambe le mani e '1 viso smunto
Al ciel pietosamente, e cosi chiama:
Odi, Apollo, il tuo servo ornai consunto.
Dunque tu crei, per adempir la brama
Sol de' canori sozzi avidi lupi.
La tua possente ognor fulgida lama ?
Per lor ne le montagne a gli antri cupi
Fai forza col tuo caldo, e sol per loro
V'indori co' tuoi raggi e massi e rupi?
Sproposito ! gittar tanto tesoro
In grembo a certa gente, Apollo mio,
Ch'ogni sua gran virtù posta ha nel foro
De la gola!
38 ODI.
Carestino sarà forse da identificare con Giovanni Caresini, che
cantava sui teatri di Napoli tra il 1728 e il '36. (Cfr. Florimo, v. IV,
p. 23-25).
S'intende del resto facilmente come il Ganganelli dovesse pel
Parini esser il Papa del cuore. Corse come suo un sonetto {Opere,
II, 24) Sull'abolizione dei Gesuiti, che si chiude cosi:
Bello il veder con pronte acceie brame
L'alme Virtudi e il gran Pastor Romano
I lor colpi alternar sul tronco infame.
Il Reina annota: " Alcuno dubita se questo sonetto sia di Parini :
la voce comune lo vuole suo ; uomini autorevoli amarono che si
pubblicasse fra le cose di lui „. E difatto il Padre Pompilio Poz-
zetti, cli'ebbe la ventura di conoscer da vicino il poeta, scriveva
il 4 ottobre 1802 al Bramieri : " Cosi mi fosse dato regalarvi ora il
sonetto da Parini composto per la soppressione dei Gesuiti, sotto
l'allegoria d'una gran pianta, un de' più belli che abbiagli mal det-
tato la Musa. Consolatevi colla sicura si^eranza di vederlo fregiare,
insieme ad altri parecchi, la scelta raccolta che delle Opere Pari-
niane ha preparato in Milano il valente ed accuratissimo avvocato
Reina ,. (Cfr. Lettere di due amici, Milano, 1802, p. 215-6).
LA LAUREA
(Per la laurea di Maria Pellegrina Amoretti).
Queirospite é gentil che tiene ascoso
A i molti bevitori
Entro a i dogli paterni il vino annoso,
Frutto de' suoi sudori;
E liberale allora
Sul desco il reca di bei fiori adorno,
Quando i Lari di lui ridenti intorno
Degno straniere onora;
E versata in cristalli empie la stanza
Insolita di Bacco alma fragranza.
Tal io la copia che de i versi accolgo
Entro a la mente, sordo
Niego a le brame dispensar del volgo
Che vien di fama ingordo.
In van Tuomo che splende
Di beata ricchezza, in van mi tenta
Si che il bel suono de le lodi ei senta,
Che dolce al cor discende;
E in van de' grandi la potenza e l'ombra
Di facili speranze il sen m'ingombra.
40 ODI.
Ma quando poi sopra il cammin de i buoni
Mi comparisce innanti
Alma che ornata di suoi proprj doni
Merta Tonor de i canti,
Allor da le segrete
Sedi del mio pensiero escono i versi,
Atti a volar di viva gloria aspersi
Del tempo oltra le mete;
E donator di lode accorto e saggio
Io ne rendo al valor debito omaggio.
Ed or che la risorta insubre Atene,
Con strana meraviglia,
Le lunghe trecce a coronar ti viene,
O di Pallade figlia,
10 rapito al tuo merto
Fra i portici solenni e l'alte menti
M'innoltro e spargo di perenni unguenti
11 nobile tuo serto:
Né mi curo se a i plausi onde vai nota
Finge ingenuo rossor tua casta gota.
Ben so che donne valorose e belle
A tutte l'altre esempio
Veggon splender lor nomi a par di stelle
D'eternità nel tempio:
E so ben che il tuo sesso
Tra gli ufizj a noi cari e l'umil arte
Puote innalzarsi, e ne le dotte carte
Immortalar sé stesso.
Ma tu gisti colà , Vergin preclara,
Ove di molle pie l'orma é più rara.
Sovra salde colonne antica mole
Sorge augusta e superba,
Sacra a colei che de l'umana prole,
Frenando, i dritti serba.
Ivi la Dea si asside
Custodendo del vero il puro foco;
Ivi breve sul marmo in alto loco
Il suo volere incide:
E già da quello stile aureo, sincero
Apprendea la giustizia il mondo intero.
LA LAUREA. 41
Ma d'ignari cultor turbe nemiche
Con temerario piede
Osaro entrar ne le campagne apriche
Ove il gran tempio siede;
E la serena piaggia
Occuparon cosi di spini e bronchi,
Che fra i rami intricati e i folti tronchi
A pena il sol vi raggia;
E Taere inerte per le fronde crebre
V'alza dense a l'intorno atre tenèbre.
Ben tu, di Saffo e di Corinna al pari
donne altre famose,
Per li colli di Pindo ameni e vari
Potevi coglier rose;
Ma tua virtù s'irrita
Ove sforzo virile a pena basta;
E ne l'aspro sentier che al pie contrasta
Ti cimentasti ardita,
Qual già vide a i perigli espor la fronte
Fiere vergini armate il Termodonte.
Or poi, tornando da l'eccelsa impresa,
Qui sul dotto Tesino
Scoti la face al sacro foco accesa
Del bel tempio divino;
E da l'arguta voce
Tal di raro saper versi torrente,
Che il corso a seguitar de la tua mente
Vien l'applauso veloce,
Abbagliando al fulgor de' raggi tui
La invidia che suol sempre andar con lui.
Chi può narrar qual dal soave aspetto
E da' verginei labri
Piove ignoto finora almo diletto
Su i temi ingrati e scabri?
Ecco la folta schiera
De' giovani vivaci a te rivolta
Vede sparger di fior, mentre t'ascolta.
Sua nobile carriera;
E al novo esempio de la tua tenzone
Sente aggiugnersi al fianco acuto sprone.
42 ODI.
A i detti, al volto, a la grand'alma espressa
Ne' fulgid'occhi tuoi,
Ognun ti crederia Tèmide stessa
Che rieda oggi fra noi:
Se non che Oneglia, altrice
Nel fertil suolo di palladj ulivi,
Alza a i trionfi tuoi gridi giulivi;
E fortunata dice:
Dopo il gran Boria, a cui died'io la culla,
È il mio secondo sol questa fanciulla.
E il buon parente, che su l'alte cime
Di gloria oggi ti mira,
A forza i moti del suo cor comprime,
E pur con sé s'adira.
Ma poi cotanto è grande
La piena del piacer che in sen gli abbonda.
Che Targin di modestia alfine innonda,
E fuor trabocca e spande;
E anch'ei col pianto che celar desia
Grida tacendo: Questa figlia è mia.
Ma dal cimento glorioso e bello
Tanto stupore é nato,
Che già reca per te premio novello
L'erudito senato.
Già vien su le tue chiome
Di lauro a serpeggiar fronda immortale,
E fra lieto tumulto in alto sale
Strepitoso il tuo nome;
E il tuo sesso leggiadro a te dà lode
De' novi onori, onde superbo ei gode.
Oh amabil sesso che su l'alme regni
Con si possente incanto,
Qual alma generosa è che si sdegni
Del novello tuo vanto?
La tirannia virile
Frema, e ti miri a gli onorati seggi
Salir togato, e de le sacre leggi
Interprete gentile,
Or che d'Europa a i popoli soggetti
Fin da l'alto de i troni anco le détti.
LA LAUREA. 43
Tu sei che di ragione il dolce freno
Sul forte Russo estendi;
Tu che del chiaro Lusitan nel seno
L'antico spirto accendi;
Per te Insubria beata,
Per te Germania é gloriosa e forte:
Tal che al favor de le tue leggi accorte
Spero veder tornata
L'età de Toro e il viver suo giocondo,
Se tu governi ed ammaestri il mondo.
E l'albero medesmo, onde fu colto
Il ramoscel che ombreggia
A la dotta Donzella il nobil volto,
Convien che a te si deggia.
In esso alta Regina
Tien conversi dal trono i suoi bei rai;
Tal che lieto rinverde e più che mai
Al cielo s'avvicina.
Quanto è bello a veder che il grato alloro
Doni al sesso di lei pompa e decoro!
Ma già la Fama a l'impaziente Oneglia
Le rapid'ali affretta;
E gridando le dice: Olà , ti sveglia
E la tua luce aspetta.
Insubria, onde romore
Va per mense ospitali ed atti amici,
Sa gli stranieri ancor render felici
Nel calle de l'onore.
Or quai. Vergine illustre, allegri giorni
Ti prepara la patria allor che torni?
Pari a la gloria tua per certo a pena
Fu quella onde si cinse
Colà d'Olimpia ne l'ardente arena
11 lottator che vinse;
Quando tra i lieti gridi
Il guadagnato serto al crin ponea,
E col premio d'onor che l'uomo bea
Tornava a i patrj lidi;
E scotendo le corde amiche a i vati,
Pindaro lo seguia con gl'inni alati.
44 ODI.
Fu scritta nel giugno del 1777, e subito stampata e ristampata a
Pavia in due raccolte d'occasione.
L'Amoretti era nata a Oneglia il primo gennaio del 1756 da un
luogotenente d'artiglieria, e a soli quindici anni aveva già dato
in patria saggio dei suoi studi virili, sostenendo pubblicamente
molte tesi di filosofìa. Nei primi mesi di quell'anno 1777 chiese
ed ottenne dal Firmian la dispensa dall' obbligo d'aver frequen-
tati i corsi legali nell'università di Pavia (1'" insubre Atene „, sol
da poco " risorta „ per le opportune riforme di Maria Teresa,
r " alta regina „) e il permesso di presentarvisi agli esami di
laurea. Interrogata prima da qualche singolo professore e poi
da tutta la Facoltà , rispose così bene che, come riferi quel giorno
stesso il rettore G. B. Borsieri al Governatore, i suoi esaminatori
" concordemente stimarono di a^iprovarla per acclamazione „. Nelle
tesi scritte fu anche più sorprendente. " Posso assicurar V. E. »,
soggiungeva il 13 giugno il Borsieri, " che questa savia giovine ha
superata l'aspettazione di tutti e confusa e vinta l'invidia. Io ho
provato un estremo piacere in vedere sul volto di tutti la compia-
cenza e la non affettata soddisfazione. Vi è stato tra i professori
chi pubblicamente pianse per tenerezza, e ne fece mostra con pa-
role o.iorificentissime „. 11 gran giorno della prova solenne e su-
prema fu il 25 giugno. La candidata venne in carrozza all'univer-
sità , insieme con una dama amica; e di là , " accompagnata da
tutti i signori professori e dottori di Collegio, avviossi alla vicina
chiesa del Gesù, a ciò prescelta affìnchè nella sua ampiezza desse
luogo al concorso numerosissimo degli .siiettatori „. L'Amoretti
esordi parlando brevemente, in forbito latino; indi svolse le tesi
propostole, fra applausi unanimi e frenetici. 11 prof. Cremani le
rispose con un fervorino, anch'esso in latino, tributandole infinite
lodi; poi, le porse l'anello d'oro che si soleva conferire ai lau-
reandi in giure, e di più, " i^remio novello „ dell'" erudito senato „,
una corona d'alloro e una sciarpa di raso cremisino, su cui era
ricamato in oro e colori lo stemma dello Studio pavese e la de-
dica: Ob jiiris scientiam Ticinensis Acadeiuia dal lubens merito. La
" terra dei carmi „ fremette all'inusitata maraviglia, e ben seltan-
taquatlro fra odi, canzoni, sonetti, madrigali, epigrammi, in ita-
liano, in latino, in francese, germogliarono in quell'occasione; e
tutti furon poi raccolti in un unico volume, insieme con le tesi
sostenute dalla candidata, col discorso del Cremani e col racconto
della funzione, dal carmelitano Giuseppanlonio Menagliolti, nel
settembre di quel medesimo anno. La metropoli lombarda, fa-
mosa " per mense ospitali ed atti amici „, volle onorare anch'essa
l'insigne " straniera „ (!); e l'arciduchessa Beatrice le donò una sca-
tola d'oro smaltata, il Firmian le offerse un ricco banchetto. Tornò
di lì a poco ad Oneglia, consacrandosi tutta agli studi diletti (fu
pubblicato- postumo un suo trattato De iure dotiiim apad lioiiianos.
Milano, 1788) e alle cure domestiche (" gli ufizi a noi cari e
rumilarte „); ed ivi, giovane ancora sui trentun anno, sì spense il
15 ottobre del 1787.
LA RECITA DEI VERSI
(Sopra l'uso di recitare i versi alle mense).
Qual fra le mense loco
Versi otterranno che da nobil vena
Scendano, e a Tacre foco
De Tarte imponga la sottil Gamena,
Meditante lavoro
Che sia di nostra età pregio e decoro?
Non odi alto di voci
I convitati sollevar tumulto,
Che i Centauri feroci
Fa rammentar, quando con empio insulto
A Tospite di liti
Sparsero e guerra i nuziali riti?
V'ha chi al negato Scaldi
Con gli abeti di Cesare veleggia;
E, la vast'onda e i saldi
Muri sprezzati, già nel cor saccheggia
De' BÃ tavi mercanti
Le molto di tesoro arche pesanti.
A Giove altri Tarmata
Destra di fulmin spoglia; ed altri a volo
Sopra l'aria domata
Osa portar novelle genti al polo.
Tal sedendo confida
Ciascuno; e sua ragion fa de le grida.
46 ODI.
Vincere il suon discorde
Speri colui che di clamor le folli
Mènadi, allor che lorde
Di mosto il viso balzan per li colli,
Vince; e, con alta fronte.
Gonfia d'audace verso inezie conte.
O gran silenzio intorno
A sé vanti compor Fauno procace,
Se del pudore a scorno
Annunzia carme onde a i profani piace;
Da la cui lubric'arte
Saggia matrona vergognando parte.
Orecchio ama placato
La Musa e mente arguta e cor gentile.
Ed io, se a me fia dato
Ordir mai su la cetra opra non vile.
Non toccherò già corda
Ove la turba di sue ciance assorda.
Ben de' numeri miei
Giudice chiedo il buon cantor, che destro
Volse a pungere i rei
Di Tullio i casi, ed or, novo maestro,
A far migliori i tempi,
Gli scherzi usa del Frigio e i proprj esempi;
O te, Paola, che il retto
E il bello atta a sentir formaro i numi:
Te che il piacer concetto
Mostri, dolce intendendo i duo bei lumi,
Onde spira calore
Soavemente periglioso al core.
Fu scritta suUa fìne del 1783, e stampata nel fascicolo di luglio
1786 delle Memorie per le belle arti, che uscivano in Roma. DaH'ul-
tima strofa l'ode appar diretta alla marchesa Paola Castiglioni, fi-
gliuola di Giulio Pompeo Litta Arese e di Elisabetta Borromeo
Visconti, dal '69 (era nata nel '51) sposa al marchese Giuseppe Ca-
stiglioni. Era sorella alla Maria Castelbarco, Vinclita Nice. A lei il
Cerretti scriveva in una lettera: * L'unico Parini, quest'uomo im-
mortale, avea per vezzo di ripetermi voi essere in Milano il solo
giudice de' suoi versi ,.
LA RECITA DEI VERSI. 47
Il Fauno procace è Tabate Casti ; il • satiro procace e disonesto „,
come lo disse nel famoso e terribile sonetto Un prete brutto vec-
chio e puzzolente (Op., Ili, 57),
Che scrive de racconti in cui si sente
De l'infame Aretin tutto l'impasto,
Ed un poema sporco e impertinente
Contro la donna de l'impero vasto;
Che se bene senz'ugola è rimaso
Attorno va recitator molesto
Oscenamente parlando col naso;
Che da gli occhi, dal volto, e fin dal gesto
Spira l'empia lussuria ond'egli è invaso.
II buon cantor di Tullio è il Passerotti, che dal 79 aU"87 pubblicò
pur sette volumi di favole esopiane. Dell'opera propria e di quella
dell'amico brianzuolo così giudicava codesto candido e venerando
valentuomo, scrivendogli:
È debole il mio stil, volgare e piano;
Il vostro è forte e pieno e nerboruto:
S'io sono alfier, voi siete il capitano.
È spuntato il mio stile, il vostro e acuto:
Voi vi esprimete in modo spicciativo.
Io la metto sovente in sul liuto.
I vostri versi toccano sul vivo :
Contro il vizio non fanno i miei gran colpo,
£ curo i mali altrui col lenitivo.
Nella III e nella IV strofa s'accenna alla guerra (1783-85) dell'im-
peratore Giuseppe II contro gli Olandesi (i Baiavi)^ che volevano
impedirgli la libera navigazione della Schelda (lat. Scaldis); all'in-
venzione recente (1753) del parafulmine; e all'altra, che era sog-
getto di tutti i discorsi del giorno, del pallone aerostatico.
Il 10 dicembre del 1783 i signori Charles e Robert avevan com-
piuta la prima ascensione con pallone gonfiato a idrogeno: e lo
stupore aveva subito trovato espressioni poetiche più o meno effi-
caci. * Chiunque s'avvisasse oggi di parlare nelle migliori societÃ
d'altre cose che di volanti palloni e di globi areostatici „, diceva
in quel torno il Giornale Enciclopedico (t. V, p. 73), " sarebbe certa-
mente trattato in uomo di provincia „. E dopo che il Parini ebbe
scritta l'ode, il fanatismo per gli esperimenti aerostatici crebbe.
(Cfr. E. Bertana, Intorno al sonetto del Parini per la macchina
aerostatica, nel Giornale Storico d. leti, il., XXX, 414 ss.) Nel gennaio
del 1794 lo studente di Pavia marchese Luigi Cagnola lanciò in
aria una mongolfiera, a cui aveva legata una pecora; meglio an-
cora, il 24 febbraio Paolo Andreani, primo aeronauta italiano,
osava farsi elevar lui. Ci fu bisogno che intervenisse il Governo,
48 ODI.
con una grida, per porre un freno a tanta temerità . Intanto le
canzoni, le odi, i sonetti fioccavano: quelle deliranti di entusia-
smo, questi consigliando prudenza; le une plaudenti, gli altri
molleggianti. Al coro il Parini, pensoso, non disdegnò d'unir la sua
voce; e scrisse un sonetto, che non suona sfiducia, ma ha uno
spunto quasi leopardiano (Op., II, 29). Parla il pallone:
tcco, del mondo e meraviglia e gioco.
Farmi grande in un punto e lieve io sento;
E col fumo nel grembo e al piede il foco
Salgo per l'aria e mi confido al vento.
E mentre aprir novo cammino io tento
A l'uom cui l'onda e cui la terra è poco,
Fra i ciechi moti e l'ancor dubbio evento
Alto gridando la Natura invoco:
O madre de le cose! Arbitrio prenda
L'uomo per me di questo aereo regno,
Se ciò fia mai che più beato il renda;
Ma se nocer poi dee, l'audace ingegno
Perda l'opra e i consigli; e fa ch'io splenda
Sol di stolta impotenza eterno segno.
IL PERICOLO
(Per Cecilia Tron).
In vano in van la chioma
Deforme di canizie,
E l'anima già doma
Da i casi, e fatto rigido
Il senno da Tetà ,
Si crederà che scudo
Sien contro ad occhi fulgidi,
A mobil seno, a nudo
Braccio e a Taltre terribili
Arme de la beltà .
Gode assalir nel porto
La contumace Venere;
E, rotto il fune e il torto
Ferro, rapir nel pelago
Invecchiato nocchier;
E per novo peiiglio
Di tempeste, a Tarbitrio
Darlo del cieco figlio.
Esultando con perfido
Riso del suo poter.
Ecco me di repente,
Me stesso, per Tundecimo
Lustro di già scendente,
Sentii vicino a porgere
Il pie servo ad Amor;
50 ODI.
Ben che gran tempo al saldo
Animo in van tentassero
Novello eccitar caldo
Le lusinghiere giovani
Di mia patria splendor.
Tu da i lidi sonanti
Mandasti, o torbid'Adria,
Chi sola de gli amanti
Potea tornarmi a i gemiti
E al duro sospirar;
Donna d'incliti pregi
LÃ fra i togati principi
Che di consigli egregi
Fanno Talta Venezia
Star libera sul mar.
Parve a mirar nel volto
E ne le membra Pallade,
Quando, Telmo a sé tolto,
Fin sopra il fianco scorrere
Si lascia il lungo crin:
Se non che a lei dintorno
Le volubili Grazie
Dannosamente adorno
Rendeano a i guardi cupidi
L'almo aspetto divin.
Qual se, parlando, eguale
A gigli e rose il cubito
Molle posava? Quale
Se improvviso la candida
Mano porgea nel dir?
E a le nevi del petto,
Chinandosi, da i morbidi
Veli non ben costretto,
Fiero de l'alme incendio I,
Permetteva fuggir?
In tanto il vago labro,
E di rara facondia
E d'altre insidie fabro,
Già modulando i lepidi
Delti nel patrio suon.
IL PERICOLO. 51
Che più? Da la vivace
Mente lampi scoppiavano
Di poetica face,
Che tali mai non arsero
L'amica di Faon:
Né quando al coro intento
De le fanciulle Lesbie
L'errante violento
Per le midolle fervide
Amoroso velen;
Né quando lo interrotto
Dal fuggitivo giovane
Piacer cantava, sotto
A la percossa cetera
Palpitandole il sen.
Ahimè, quale infelice
Giogo era pronto a scendere
Su la incauta cervice,
S'io nel dolce pericolo
Tornava il quarto di!
Ma con veloci rote
Me, quantunque mal docile,
Ratto per le remote
Campagne il mio buon Genio
Opportuno rapi;
Tal che in tristi catene
A i garzoni ed al popolo
Di giovanili pene
Io canuto spettacolo
Mostrato non sarò.
Densi, nudrendo il mio
Pensier di care immagini.
Con soave desio
Intorno a l'onde Adriache
Frequente volerò.
Fu composta, nota il Salveraglio e con luì tutti gli altri editori,
neU'autunno del 1787; giacché il Gambarelli e il Reina Tattestano
indirizzata a " Cecilia Tron veneziana, che, trovandosi in Milano
nel 1787, voUe conoscere ed onorare l'autore con tratti di nobile
52 ODI,
cortesia „. Ma a me pare che questa data sia errata. Il poeta me-
desimo ci dice d'aver vista la bella donna quando già egli scen-
deva " per l'undecimo lustro „, un tre o quattro anni dopo il 1779
cioè, ma prima che si compisse il 1784. (Anche il frammento Per
nozze comincia; " Chi noi già per l'undecimo Lustro scendente con
l'età fugace Chiama fra i lieti giovani A cantar d'Imeneo l'accesa
face....? „).
La Cecilia, figliuola di Renier Zen e sposa di Francesco Tron,
era cognata della Caterina Dolfin, moglie in seconde nozze di
Andrea Tron, che fu Procuratore di San Marco e cosi potente e
benvoluto da esser comunemente chiamato el paron. Questa, che i
contemporanei dicevano la veneta principessa, aveva molto più in-
gegno e cultura della Cecilia; la quale però la vinceva e quasi la
oscurava per la fiorente gioventù, la bellezza procace e l'audace fa-
cilità di costumi.
Il Parini era già in corrispondenza epistolare con la Caterina, e
aveva contribuito, con Gaspare Gozzi e Melchiorre Cesarotti, alla
raccolta poetica che essa aveva messa insieme in memoria del
padre. Or nell'estate del 1783 appunto noi troviamo costei ospite
gradita in casa Scrbelloni; e con lei sarà stata anche la Cecilia, s'è
vero quel che il Salveraglio asserisce, esser le due cognate venute
a Milano insieme. Supporre un nuovo viaggio della Caterina in
Lombardia nel 1787 non par neanche verosìmile, chi consideri che
il 25 giugno del 1785 essa, oramai sui cinquantanni, rimaneva ve-
dova del Tron, che tanto fulgore di potenza avea riverberato su lei.
Dopo r'85 perfino il pettegolezzo la risparmiò! E che la Cecilia vi
tornasse da sola, non abbiamo nessun indizio per sospettarlo : chi
l'ha ammesso, non s'è fondato che sulla presunta data dell'ode
parìniana.
Mette conto di riferir qui un brano d'una lettera che la Caterina
scriveva il 2 luglio 1783, da Gorla, al marito:
« Sono partita col mio Carli [reconomista], il duca Serbelloni e Gaetano,
martedì mattina per Aprio [Vaprio], la di cui vista e situazione m'incantò.
Trovai la signora Duchessa che m'attendeva: ell'c una vecchia piena di fuoco,
che vive separata dai figli, ma strettamente legata d'animo col Duca suo pri-
mogenito. Non posso dirvi quanto fui bene accolta: mi chiesero di voi; ri-
sposi qual suggerimmi il mio grato cuore e la verità Si parlò della nostra
Repubblica; risposi da repubblicana prudente, e cambiai discorso. Si entrò in
letteratura, e, formandomi su quelle cose ch'io sapea e potei farmi onore, tra-
scorsi con arte le altre, senza mostrar però d'ignorarle. Oh io sono una gran
donna! Il Duci e la Du:hessina sua moglie vollero ad ogni patto persua-
dermi ad andare a Gorgonzola, ch'c poche miglia di là distante; sicché il
giovedì mattina salimmo il Bucintoro di Serbelloni, e sopra il Navilio pas-
sammo lietamente a quella sua deliziosa villeggiatura, dove la ricchezza serve
al profitto dei poveri, delle arti, delle scienze, ed alla maggior gloria di S. M. I.
Il padrone di codesta casa è uno di quei pochi esseri che la natura produsse
per mostrare di quanta virtù e capace di animare le opere sue: se voi aveste
avuto figliuoli, quel solo meritava di esserlo! Il venerdì siamo andati a Cer-
nusco, alla magnifica casa della contessa Maria [Castelbarco], ch'c tre miglia
IL PERICOLO. 53
vicino a Milano. Pensate pure che tutti mi tormentavano in mille n:odi perchè
passassi a Milano; ma seppi esimermi senza urtare nessuno.... Il Vescovo si
umilia ; e io mi esalto più ch'é possibile promenando la vostra grandezza per
questi contorni ». (Cfr. E. Castelnl'ovo, Una dama veneziana dei secolo XVIII,
nella Nuova Antologia del 15 giugno 1882).
Quando nell'autunno del 1788 la Silvia Curtoni Verza venne a
Milano, e in compagnia del Bertela si recò a visitare il Parini,
questi, pregalo perchè leggesse qualcuno dei suoi ultimi componi-
menti, recitò appunto codesta ode per la Tron e l'altra in morte
del Sacchini. (Cfr. G. Biadego, Da libri e manoscritti; Verona, 1883,
p. 109). .
Per Cecilia Tron veneziana il Parini scrisse anche un sonetto
(II, 35), in cui accenna a una visita da lei fattagli, e a una pro-
messa forse di ritornare:
Grato scarpel, su questo marmo incidi
Il fausto di quando a' miei Lari apparse
Colei che, diva de gli Adriaci lidi,
Chiara fama di sé nel mondo sparse.
Scrivi qual di virtù, di grazie io vidi,
D'ingegno, di saper luce spiegarse;
£ quanta in me di puri sensi e fidi
Subita fiamma inestinguibil arse.
Scrivi che se da gli occhi miei fu pronta
Gli alti pregi a rapir, pur mi consola
Dolce speranza che al partir mi diede.
Ma se poi le promesse il vento invola
D'Adria pel mar, taci i miei danni; e l'onta
Non eternar de la mancata fede.
E non so se proprio in questa occasione, ma certo in una molto
simile (il Salveraglio, p. 232, asserisce che fosse per l'amoruccio
con la figlia del coreografo Gasparo Angiolini), il poeta scrisse
l'altro sonetto, Di sé stesso (Op., II, 28), che ha qualche affinità con
la presente mirabile ode :
duell'io che già con lungo amaro carme
Amor derisi e il suo regno potente,
E tutta osai chiamar l'Itala gente
Col mio riso maligno ad ascoltarme,
Or sento anch'io sotto a le indorait'arnie
Tra la folla del popolo imminente
Dietro a le rote del gran carro lente
Da l'offeso tiranno strascinarme.
Ognun per osservar l'infame multa
Preme, urta, e grida al suo propinquo: È quei!
E il beffator comun beffa ed insulta.
Io scornato abbassando gli occhi rei
Seguo il mio fato; e il fier nemico esulta.
Imparate a deridere gli Dei !
LA CADUTA
(Nell'inverno del 1785).
Quando Orion dal cielo
Declinando imperversa,
E pioggia e nevi e gelo
Sopra la terra ottenebrala versa,
Me spinto ne la iniqua
Stagione, infermo il piede,
Tra il fango e tra l'obliqua
Furia de' carri la città gir vede;
E per avverso sasso
Mal fra gli altri sorgente,
O per lubrico passo,
Lungo il cammino stramazzar sovente.
Ride il fanciullo; e gli occhi
Tosto gonfia commosso.
Che il cubito o i ginocchi
Me scorge o il mento dal cader percosso.
Altri accorre; e: Oh infelice
E di men crudo fato
Degno vate! mi dice;
E seguendo il parlar, cinge il mio lato
Con la pietosa mano,
E di terra mi toglie,
E il cappel lordo e il vano
Baston dispersi ne la via raccoglie:
LA. CADUTA. 55
Te ricca di comune
Censo la patria loda;
Te sublime, te immune
Cigno da tempo che il tuo nome roda
Chiama gridando intorno;
E te molesta incita
Di poner fine al Giorno^
Per cui cercato a lo stranier ti addita.
Ed ecco il debil fianco
Per anni e per natura
Vai nel suolo pur anco
Fra il danno strascinando e la paura;
Né il si lodato verso
Vile cocchio ti appresta,
Che te salvi a traverso
De' trivj dal furor de la tempesta.
Sdegnosa anima! prendi,
Prendi novo consiglio,
Se il già canuto intendi
Capo sottrarre a più fatai periglio.
Congiunti tu non hai,
Non amiche, non ville.
Che te far possan mai
Ne Turna del favor preporre a mille.
Dunque per Terte scale
Arrampica qual puoi;
E fa gli atrj e le sale
Ogni giorno ulular de* pianti tuoi.
O non cessar di pòrte
Fra lo stuol de' dienti.
Abbracciando le porte
De grimi che comandano ai potenti;
E lor mercè penetra
Ne' recessi de' grandi,
E sopra la lor tetra
Noia le facezie e le novelle spandi.
O, se tu sai, più astuto
I cupi sentier trova
Colà dove nel muto
Aere il destin de' popoli si cova ;
56 ODI.
E fingendo nova esca
Al pubblico guadaigno,
L'onda sommovi, e pesca
Insidioso nel turbato stagno.
Ma chi giammai potria
Guarir tua mente illusa.
trar per altra via
Te ostinato amator de la tua Musa ?
Lasciala: o, pari a vile
Mima, il pudore insulti,
Dilettando scurrile
1 bassi genj dietro al fasto occulti.
Mia bile al fin, costretta
Già troppo, dal profondo
Petto rompendo, getta
Impetuosa gli argini; e rispondo:
Chi sei tu, che sostenti
A me questo vetusto
Pondo, e Tanimo tenti
Prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto.
Buon cittadino, al segno
Dove natura e i primi
Gasi ordinar, lo ingegno
Guida cosi, che lui la patria estimi.
Quando poi d'età carco
Il bisogno lo stringe,
Chiede opportuno e parco
Con fronte liberal che Talma pinge;
E se i duri mortali
A lui voltano il tergo,
Ei si fa, contro a i mali,
De la costanza sua scudo ed usbergo.
Né si abbassa per duolo.
Né s'alza per orgoglio.
E ciò dicendo, solo
Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi loglio.
Cosi, grato a i soccorsi.
Ho il consiglio a dispetto;
E privo di rimorsi,
Gol dubitante pie torno al mio tetto.
LA CADUTA. 57
Stampata subito a parte in Milano, fu ristampata a Roma nel
fascicolo del gennaio 1786 delle Memorie per le belle arti, con una
avvertenza, in cui si dice l'ode " scritta nell'occasione delle dirotte
piogge che hanno più dell'usato reso incomodo il corrente in-
verno „. Vi si soggiunge: " Vn nostro associato dì Lombardia che
ce la manda non ne assegna l'autore; ma nel leggere l'ode mede-
sima, quando vediamo che da lui s'aspetta che ponga fine al Giorno,
riconosciamo il leggiadrissimo scrittore del Mattino ,. Non è indi-
screto, né forse difficile, argomentare chi codesto associato fosse.
Da una lettera del medico abate Martino Guidoni Bianconi, resi-
dente in Roma, al duca Gian Galeazzo Serbelloni, già discepolo
del Parini, scritta il 21 gennaio 1786, apprendiamo che codesto abate
era stato pregato dal Duca di presentar l'ode pariniana alla mar-
chesa Cioja, ammiratrice lontana, si capisce, del poeta lombardo.
Or non potrebbe lo stesso abate averne procurata la ristampa?
Nella lettera questi scriveva pure: l'ode " fa molto onore al suo
autore. Ma non ha egli bisogno di questo. Il suo nome si è reso
celebre per tutto il mondo culto per le belle produzioni del suo
spirito. S'egli come il Metastasio avesse abbandonata la sua patria
nell'età sua rìdente, non avrebbe avuto bisogno di vedersi negare
per fin le miche di Milano ,.
Il Reina, che per quindici anni usò " famigliarmente „ col poeta,
racconta {Opere, I, xxv) : " Succeduto nell'austriaca eredità e nel-
r imperio germanico Leopoldo II, recossi a Milano ; e si a^'\'enne
in Parini. L'Imperadore osservò fisso questo sciancato, che maesto-
samente zoppicava, e per maraviglia ne domandò ad uno del cor-
teggio, che dissegli quello essere Parini. Stupì l'Imperadore che un
uomo si celebre e venerando si strascinasse pedestre, e comandò
che gli si desse stipendio maggiore. Gli fu allora, per la sollecitu-
dine di Emanuele Kevenhùller, conferita la Prefettura degli studi
di Brera con migliori condizioni ; e se non era un potentissimo
nimico suo, lo stipendio gli si accresceva in guisa di ripararlo,
giusta la mente dell' Imperadore, dalle ingiurie degli anni e della
cagionevolezza ,. Non indaghiamo chi codesto zelante nemico sia
stato. Nenio propheta in patria ; e non poclii concittadini avran
forse trovata ridicola ed ambiziosa pretesa quella del povero vec-
chio, d'aver per sé un " vile cocchio „ nei giorni di pioggia, se ancora
nel 6 ottobre del 1792 un tal conte Pietro Secchi, consigliere al ri-
poso, scriveva con pomposa e pettoruta arroganza, pari alla maligna
abbiettezza, in una lettera : " Fra i nostri giacobini più arrabbiati
contasi l'abate Parini ; ed è nel suo carattere, non avendo egli mai
potuto perdonare all'attuale ordine di cose che vi siano delle car-
rozze, e che egli non abbia ad averne una „.
Il vero è che il Parini seppe maravigliosamente servirsi anche
dei loro sublimi cocchi per rintuzzare fieramente l'orgoglio e il so-
pruso dei nobili di sangue o dei nobilucci dai • compri onori „.
Dormi tranquillo benché il sole sia alto, o giovin signore, egli dice,
avendo tu protratta lungamente la notte tra le veglie, il teatro e il
gioco (Mattino, v. 65 ss.).
58 ODI.
e stanco alfine,
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote, e il calpestio
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno, e le tenèbre
Con fiaccole superbe intorno apristi;
Siccome allor che il Siculo terreno
Da l'uno a l'altro mar rimbombar feo
Pluto col carro, a cui splendeano innanzi
Le tede delle Furie anguicrinite.
Codesto coccliio, e il resto, bada intanto a fornirtelo l'umile con-
tadino laborioso, lieto di servirti (461 ss.):
Nel dolce campo
Pur in questo momento il buon cultore "
Suda e incallisce al vomere la mano,
Lieto che i suoi sudor ti frutiin poi
Dorati cocchi e peregrine mense.
Codesto mobile trono renderà poi più altere e sprezzanti * le ma-
trone , della vostra casta (571 ss.),
Che da' sublimi cocchi alto disdegnano
Vol;^ere il guardo a la pedestre turba.
E in esso tu, fortunato mortale, ti farai trascinare, volando, presso
la " pudica altrui sposa a te si cara , ; e guai al volgo pedestre che
s'attardi sul tuo cammino ! (929 ss).
Odi, o signore,
Sonar già intorno la ferrata zampa
De' superbi corsier che irrequieti
Ne' grand' atrj sospigne, arretra e volge
La disciplina dell'ardito auriga.
Sorgi, e t'appresta a render baldi e lieti
Del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ecco che umili in bipartita schiera
T'accolgono i tuoi servi : altri già pronto
Via se ne corre ad annunciare al mondo
Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
Timido ti sostien mentre il dorato
Cocchio tu sali, e tacito e severo
Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo,
E cedi il passo al trono ove s'asside
Il mio signore : ahi te meschin s'ei perde
Un sol per te de' preziosi istanti !
Temi '1 non mai da legge o verga o fune
Domabile cocchier, temi le rote
Che già più volte le tue membra in giro
Avvolser seco, e del tuo impuro sangue
Corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
Spettacol miserabile! segnaro.
LA CADUTA, 59
Per ottenere così magnifici effetti è davvero degno che fin " la co-
niun salute „ sì sagrifichl " al pasto D'ambiziose mute, Che poi
con crudo fasto Calchi» per Tarnpie strade II popolo che cade „ !
{La salubrità dell'aria).
Quanto alla infermità dei piedi, di cui spesso il poeta si lamenta
anche altrove (0/j., II, 43 : "Se non mentisce del cantor l'aspetto
E l'usurpata chioma e il debil piede , ; e cfr. La gratitudine, str. 8*,
e II messaggio, 1*), il Reina narra (p. VII) : " Una strana debolezza
di muscoli lo aveva renduto dalla nascita gracile e cagionevole
A ventun anno soffrì egli una violenta stiracchiatura di muscoli,
ed una maggiore debolezza; perlochè gambe, cosce e braccia co-
minciarongli a mancar d'alimento, ad estenuarsi e a perdere la
snellezza e la forza sì necessarie agli uffizi loro. Credevasi da prin-
cipio che il suo andare lento e grave fosse una filosofica carica-
tura; ma presto si conobbe proceder ciò da malattìa, la quale
crebbe in guisa da togliergli il libero uso delle sue membra. Egli
è però da avvertire, che tanta era in lui la dignità e maestria del
portamento, del porgere, e dello stampar l'orma, che ogni gentile
persona era obbligata alla maraviglia, veggendo il suo difetto „.
Che le strade di Milano fossero, allora, male acciottolate, ci attesta
anche il povero Passeroni, che lodava il suo Tullio (pt. II, XV, 76)
perchè da lui, egli conta,
furon così ben selciate
Le strade e così comode rendute,
Che a chi cadea faceansi le fischiate;
Ma molto rare erano le cadute.
Quest'uso dura ancor in questa etate,
Sebben le vie non son si ben tenute;
E cado anch'io talor sul seliciato,
Onde ne porto il mento ancor segnato.
Colui che, " dilettando scurrile i bassi genj „, insultava il i^ udore,
è, pare, sempre l'abate Casti. Cfr. La recita dei versi.
Al libraio Giuseppe Bernardoni che s'accingeva a ripubblicare
il volume delle Odi, il Parini scriveva da Vavero l'il novembre 1795
(Op , IV, 194-5) : " Quanto al resto dell'edizione, conoscendo io il ca-
rattere e l'abilità di Lei, veggo che non posso essere in migliori
mani. Solamente La priego che qualora Le paia di dovervi apporre
qualche note, queste siano modestissime e semplicissime, senza
rimprovero né diretto né indiretto di cosa o di persona veruna.
Circa il verso Noia le facezie ecc.. Ella potrà dire che nelle altre
edizioni dopo la prima di Milano vi si sono fatti de' cangiamenti
per non essersi dagli editori avvertito alla pronunciazione toscana
ed agli esempi de' buoni scrittori di versi nell'uso delle parole che
hanno dittongo o trittongo, come accade della parola noia ecc.
Ella potrà ciò dire e più brevemente e meglio che ora non ho
fatto io; del che Le lascio ogni libertà ,.
LA TEMPESTA
Odi, Alcone, il muggito
Ne rullo mar de la crudel tempesta,
E la folgor funesta
Glie con tuono infinito
Scoppia da lungi e rimbombar fa il lito.
Ahimè miseri legni
Che cupidigia e ambiz'ion sospinse,
E facil aura vinse
Per li mobili regni
Lor speme a sciorre oltre gli erculei segni !
Altro sperò giocondo
Tornar da ignote preziose cave;
E d'oro e gemme grave
Opprimer col suo pondo
De la spiaggia nativa il basso fondo.
Credeva altro d'immani
Mostri oleosi preda far ne Tallo;
Altro feroce assalto
Dare a gli abeti estrani,
E de Taltrui tesoro empier suoi vani.
Ma il tuono e il vento e Tonda
Terribilmente agita tutti e balte;
Né le vele contratte,
Né da la doppia sponda
Il forte remigar, Turto che abbonda
LA TEMPESTA. 61'
Vince né frena. E in tanto
Serpendo incendioso il fulmin fischia :
E fra Torribil mischia
De' venti e il bujo manto
Del cielo, ognun paventa essere infranto.
E già più Tun non puote
L'alto durar tormento: uno al destino
Fa contrario cammino;
Un contro a l'aspra cole
Di cieco scoglio il fianco urta e percote:
E quale il flutto avverso
Beve già rotto; e qual del multiforme
Monte de Tacque enorme
Sopra di lui riverso
Cede al gran peso ; e al fin piomba sommerso.
Alcon, non ti rammenti
Quel che superbo per ornata prora
Veleggiava finora,
Di purpurei lucenti
Segni ingombrando gli alberi potenti?
A quello d'ambo i lati
Ignivome s*aprian di bronzo bocche;
Onde pari a le ròcche
Forza sprezzava e agguati
D'abete o pin contro al suo corso armati.
E l'onde allettatrici
Stendeansi piane a lui davanti; e a i grembi
Fregiati d'aurei lembi
De' canapi felici
Spira van ostinati i venti amici:
Mentre Glauco e i Tritoni
Pur con le braccia lo spingean più forte ;
E da le conche torte
Lusingavano i buoni
Augurj intorno a lui con alti suoni.
E lungo i pinti banchi
Le dee del mar, sparse le chiome bionde,
Garolavan per fonde,
Che lucide su i bianchi
D.orsi fuggian strisciando e sopra i fianchi.
62 ODI,
Fra tanto, senza alcuno
Il bealo nocchier timor che il roda,
Da Tallo de la proda
Al mattin primo e al bruno
Vespro cosi cantava inni a Nettuno:
A le sia lode, o nume
Di cui son l'opre ognor potenti e grandi,
O se nel suol ti spandi
Con le fuggenti spume,
O di Cinzia t'innalzi al chiaro lume.
Tu col tridente altero
A tuo piacer la terra ampia dividi ;
Tu fra gli opposti lidi
Del duplice emispero
Scorrevole a i mortali apri sentiero.
Rota per te le nuove
Con subitaneo pie veci Fortuna ;
E quello che con una
Occhiata il tutto move
Non é di le maggior superno Giove.
Tale adulava. Or mira
Or mira, Alcon, come del porto in faccia
Lungi dal porto il caccia
Nettuno stesso; e a dira
Sorte con gli altri lo trasporta e aggira!
E la ricchezza imposta
Indi con la tornante onda ritoglie;
E le lacere spoglie
Ne gitta, e la scomposta
Mole a traverso de l'arida costa.
Ahi qual furore il mena
Pur contra noi d'ogni avarizia schivi,
Che sotto a i sacri ulivi
Radendo quest'arena
Peschiam canuti con duo remi a pena !
Alcon, che più s'aspetta ?
Ecco il turbine rio che ornai n'é sopra.
Lascia che il fluito copra
La sdrucita barchetta;
E noi nudi salviamo! al sasso in vetta.
LA TEMPESTA. 63
O giovanetti, piante
Ponete in terra; qui pomi inserite;
Qui gli armenti nodrite
Sotto a le leggi sante
De la natura in suo voler costante.
Qui semplici a regnare,
Qui gli utili prendete a ordir consigli;
Né fidate de' figli
La sorte o de le care
Spose a l'arbitrio del volubil mare.
E, nflerma il Reina, un' ' allegoria risguardante i cangiamenti
poliUci avvenuti in Lombardia sotto Giuseppe II „; • modeUata „,
aveva già osservato l'abate Guidoni Bianconi in una lettera da
Roma al duca G. G. Serbelloni del 10 marzo 1787, " sul gusto di
Orazio, la di cui celebre ode O nauis referent in mare etc. ha de-
stata la prima idea nel di lui emulatore Parini „. Pur di questo
componimento oraziano il poeta tentò la traduzione della prima
strofa {Op., Ili, 192 ; e cfr. VI, in fine) che suona cosi :
Tu da novelle, o nave, onde frementi
Risospinta nel mare ancor n'andrai.
Oh misera! che fai ?
Quanto puoi fortemente al porto attienti.
L'ode fu scritta nell'autunno del 1786, quando più infieriva il
turbine delle improvvise e spesso improvvisate riforme del gene-
roso ma imprudente figliuolo di Maria Teresa. Questi sembra sia
qui indicato col nome di superno Giove; e il fratello, Tarcìduca
Ferdinando governatore della Lombardia, con l'altro di Nettuno.
' Un torto gravissimo, che non si potè più riparare, ebbe Giu-
seppe li a, osserva Emanuele Greppi {La dominazione austriaca,
nel voi. Conferenze di storia milanese; Milano, Bocca, 1897, p. 492-3ì,
â– e basta anche da solo a cancellar la memoria dei suoi beneficii.
Egli aveva ereditato dalla madre il più perfetto organismo ammi-
nistrativo che forse mai ci sia stato in Europa, e questo organismo,
di un colpo, a data fissa, egli stoltamente lo uccise. La data è pro-
prio una data rivoluzionaria, un primo maggio, quello del 1786.
Vi si fece, come Verri dice, tutta la rivoluzione del paese. Scom-
parvero il Senato, il Magistrato Camerale, la Congregazione dello
Stato, i Corpi Municipali, la stessa Provincia del Ducato colle altre
dipendenti, sminuzzate in Circoli, senza alcun riguardo, e foggiali
colle norme della Galizia e del Tirolo „. Un Segretario di Governo,
il Bellati, scriveva in una lettera del 6 maggio (presso Greppi, p. 493
e 496): • Siamo in un vero mondo nuovo Sembrami tornato il
64 ODI.
tempo in cui Maometto colla sciabola in mano era il più eloquente
dottore del mondo. La più graziosa parola che sentesi è; giubila-
zione ; e qualche volta si nomina anche Pizzighettone ! „ (Cfr. anche
la Storia di Milano del conte P. Verri colla continuazione del ba-
rone Custodi; Milano, 1850, v. Ili, p. 273 ss).
Alcone par certo il Passeroni ; al quale una delle prime riforme
giuseppine, quella che aboliva tutte le pensioni, toglieva ora le
cinquecento lire milanesi annue che il conte di Firinian gli aveva
fatto assegnare sulla Regia Camera, cui erano ricadute le sostanze
dei marchesi Luci ni, antichi mecenati del povero abate. Ridotto
sul lastrico, senz'altro provento che l'elemosina della messa, questo
degno amico del Parini s'era ricoverato in una cameretta di legno
" che par bene Di Diogene la botte „, dove veniva " sempre notte
innanzi sera „ e dove, tremante dal freddo, al vecchio poeta toccava
" e dir l'uffizio e apparecchiar da cena „. Unico camerata gli era un
gallo, col quale egli si sfogava a parlar male del suo secolo; e
spesso a tali colloqui prendeva parte anche il Parini :
E il Parini, cui son note
Del mio gallo le preclare
Doti, s' io li fo stampare
Vuole aggiungervi le note.
{Favole, VI, 201 ; e cfr. Carducci, L'Accademia dei Trasformati e
G. Parini, nella Nuova Antologia del !<> febbraio 1891, p. 618-50)
Nel superbo adulatore, che ora Nettuno condanna a dira sorte in-
sieme con gli altri, qualcuno volle ravvisare Gian Rinaldo Carli di
Capodistria, che, già molto ascoltato a Vienna, aveva suggerito di
stituire il Supremo Consiglio di Pubblica Economia, ed era poi
stato eletto presidente del Magistrato Camerale. Fu travolto anche
lui nella riforma economica, e licenziato con tenue pensione. Altri
ha pensato a Pietro Verri : che aveva promossa ed ottenuta l'abo-
lizione della Ferma generale con grande vantaggio del pubblico e
dell'erario, e quindi tra lesecrazione degli appaltatori; che, pel
suo carattere altezzoso, era malvisto e malgiudicato dal Baretti
(cfr. Scritti scelti ined. o rari di G. B., v I, p. 110-13; v II, p. 59,208,
293, 320...) e, in quegli anni, anche dal Parini (cfr. Gnoli, Studi let-
terari, Bologna, 1883, p 285 ss.; e (i. A. Venturi, C. Beccaria e le
lett. di P. e A. Verri, Ancona, 1882, p. 25 ss.); e che ora dal nuovo
monarca era costretto ad abbandonare il posto di direttore del-
l'amministrazione economica, quando mancavano solo pochi mesi
a che si compisse quel numero d'anni di servizio occorrenti per
ottenere la pensione intera.
Narra l^ugenio Bouvy (Le comte Pietro Verri, ses idées et son temps;
Paris, Ilachette, 1889, p. 157-8) : " Les intrigues, l'envie qui le pour-
suivaient toujours, plus discrètement mais avec d'autant plus de
perfidie, les accusations d'indépendance qu'on semait en cxploitant
contro lui sa popularité, l'insinuation odicuse entre loutes que
laliolilion de la Ferme obtenue par lui, on sait au prix de quelles
tribulations, avait été accomplie d'une manière Irop peu avanta-
LA TEMPESTA. 65
geuse pour le Trésor, les bouleversements que Joseph II opcrait
dans les institutions du pays, enfm la fatigue de vingt-cinq années
d'activité fiévreuse, tonte consacrée au bien public, inspiraient
depuis quelque temps i\ Verri le dégoùt de ses fonctions. Le Ma-
gistrat camcral, dont il était prcsident, vint à partager le sort com-
mun, et fut supprimé en 1786. Verri, redoutant une révocation,
rósolut de la devancer. Il demanda et obtint sa mise à la retraìte.
Il lui manquait quelques mois de service pour avoir droit à la
pension règie men laire : la Conférence de gouvernement, qui avait
cependant fait grà ce de deux ans au conseiller Sclireck, ne crut
pas devolr lui ctendre cette faveur. Elle lui alloua simplement
une indeninité annuelle du tiers de son traitement, soit 6666 li-
vres 66. Et Verri rentra dans la vie privée „. E il prof. Adeodato
Ressi, commemorando, nell'orazione inaugurale tenuta nell'i r. Uni-
versità di Pavia TU novembre 1818, il grande economista lombardo,
usciva a dire : " e il Verri che illuslrò la patria con liberali studj,
che salvò il popolo da' Fermieri, che affrontò gli abusi del pri-
vato potere, che sanò le antiche piaghe dello Stato; il Verri cadde
vittima dell'ingratitudine de' suoi, e colla nobile fermezza del suo
animo chiese egli stesso di ritirarsi da ogni pubblico maneggio „.
Pare che in quella stessa occasione il Parini componesse, con
la medesima allegoria, questo sonetto (Op., III, 241) :
Carca di merci preziose e rare,
Coll'aure amiche intorno agile e presta
Girsen vid'io senza curar tempesta
Una nave superba in mezzo al mare.
E per l'onde vicino al lito chiare,
Col remo il qual di faticar non resta,
Di due tavole a pena insiem contesta
Un'umile barchetta i' vidi andare.
Sorse vento improvviso, e l'una tosto
A la ripa vicina in braccio corse,
E '1 legno altier cadde tra l'onde assorto.
Cosi '1 miser, diss'io, ch'ai basso è posto
Presto si salva ; e chi più in alto sorse
Miracol ò se può ritrarsi al porto.
IN MORTE DI ANTONIO SACCfflNI
Te con le rose ancora
De la felice gioventù nel volto
Vidi e conobbi, ahi tolto
Si presto a noi da la fatai tua ora,
O di suoni divini
Pur dianzi egregio trovator Sacchini !
Maschia beltà fìoria
Ne l'alte membra: da i vivaci lumi
Splendido di costumi
E di soavi affetti indizio uscia:
Il labbro era potente
De l'animo lusinga e de la mente.
A l'armonico ingegno
Quante volte fé' plauso, e, vinta poi
Da gli altri pregi tuoi,
Male al tenero cor pose ritegno
Damigella immatura
O matrona di sé troppo secura !
Ma perfido o fastoso
Te giammai non chiamò tardi pentita:
Né d'improvviso uscita
Madre sgridò né furibondo sposo
Te ingenuo e del procace
Rito de' tuoi non facile seguace.
Amò de' bei concenti
Empier la tromba sua poscia la Fama;
IN MORTE DI ANTONIO SACCHINI. 67
Tal che d'emula brama
Arser per le le più lodate genti
Che Italia chiuda, o l'Alpe
Da noi rimova, o pur l'Erculea Galpe.
E spesso a breve oblio
La da lui declinante in novo impero
Il Britanno severo
America lasciò; tanto il rapio,
Non avveduto ai tristi
Gasi, l'arguzia onde i tuoi modi ordisti.
O, se la tua dal mare
Arte poi venne a popol più faceto,
Nel teatro inquieto
Tacquer le ardenti musicali gare;
E in te sol uno immoti
Stetter de i cori e de l'orecchio i voti:
Poi che da' tuoi pensieri
Mirabile di suoni ordin si schiuse,
Che per l'aria diffuse
Non per anco al mortai noti piaceri;
se tu amasti vanto
Dare a i mobili plettri o pure al canto.
Fra la scenica luce
Ben più superbi strascinaron gli ostri
1 preziosi mostri
Che l'Italo crudele ancor produce; â–
E le avare sirene
Gravi a l'alme sperà ro impor catene;
Quando su le sonore
Labbra di lor tuo nobil estro scese,
E novi accenti apprese
De le regali vergini al dolore,
O ne' tragici affanni
Turbò di modulate ire i tiranni.
Ma tu, del non virile
Gregge sprezzando i folli orgogli e l'oro.
Innalzasti il decoro
De la bell'arte tua, spirto gentile,
Di liberi diletti
Sol avido bear gli umani petti.
68 ODI.
Né, se talor converse
La non cieca fortuna a te il suo viso
E con lieto sorriso
Fulgido di tesoro il lembo aperse,
Indivisi a gli amici
I doni a te di lei parver felici.
Ahi sperava a le belle
Sue spiagge Italia rivederti al fine.
Coronandoti il crine
Le già cresciute a lei fresche donzelle,
Use di te le lodi
Ascoltar da le madri e i dolci modi !
Ed ecco l'atra mano
Alzò colei cui nessun pregio move ;
E te, cercante nuove
Grazie lungo il sonoro ebano in vano,
Percosse; e di famose
Lagrime oggetto in su la Senna pose.
Né gioconde pupille
Di cara donna, né d'amici affetto,
Che tante a te nel petto
Valcan di senso ad eccitar faville,
Più desteranno arguto
Suono dal cener tuo per sempre muto.
Fu composta ncU'ottohre 1786.
Antonio Sacchini nacque in PozzuoU il 23 luglio 1734, due anni
prima che vi morisse il Pcrgolesi, da poveri pescatori. Fu educato
alla musica nel Conservatorio della Madonna di Loreto in Napoli.
Tra il 1756 e il '62 compose pei teatri di questa città parecchie
commedie musicali ; clie valsero a divulgare il nome del giovane
maestro, così da farlo invitare, nel 1762, a scrivere pel teatro Ar-
gentina di Roma un'opera seria, che fu la Semiramide. Si stabili a
Ilo ma, donde tornò per poco a Napoli a mettere in iscena al San
Carlo il Lucio Vero (1764) e il Creso (1765), andò a Firenze per
VAmlromaca, venne a Padova (1763) e a Milano (1767) per YOlim-
piade. Avendo fatto rappresentare a Venezia il suo Alessandro nelle
Indie, fu nominato direttore del Conservatorio dell' Ospedaletto in
quella città ; e nel 1770 diede nel teatro di Padova, su poesia del
Metastasìo, Scipione in Cariagena, ch'è reputato uno dei suoi capi-
lavori. Verso la line del 1771 passò le Alpi, e pel teatro di Witten-
bcrg scrisse l'opera Calliroe, e altre poco note per queUi di Stutt-
gart e di Monaco ; traversò poi l'Olanda, e nell'aprile del 1772
giunse a Londra. Quivi ridiede, con opportuni ritocchi, alcune delle
IN MORTE DI ANTONIO SACCHINI. tfi)
sue opere già prima composte, e ne compose parecchie di nuove.
Nel 1782, i>er reiterati inviti dell'amico Framery, clie ve lo aveva
fatto favorevolmente conoscere traducendo in francese la sua
Isola d'amore (1775), si recò a Parigi. Quel pubblico era diviso tra
i seguaci della maniera novatrice di Gluck e gli altri della tradi-
zione italiana rappresentata dal Piccinni; e stentò a comprendere
e gustare la musica del Sacchini. 11 quale però lo conquise con
ì Edipo a Colono, rappresentato a Versailles il 4 gennaio 1786, che
sembrò pareggiare l'insigne tragedia greca. Il 7 ottobre dello stesso
anno, all'apice della gloria, l'ormai celebre maestro cessava di
vivere. Sotto un busto, che fu collocato in suo onore nel Pan-
theon di Parigi, l'abate Lanzi scrisse : Italia Germania Anglia Gallia
praesentem admiratae sunt, niortuum lugent. (Cfr. Florimo, La scuola
musicale di Napoli e i suoi conservatorii, II, pag. 358 ss.). Il Sacchini
" appartiene alla scuola di Piccinni, ma le sue idee sono più gran-
diose, e si osserva nelle sue composizioni un sentimento più con-
forme alle tradizioni della tragedia greca. La melodia di Sacchini
è nobile, spontanea, e toccante nelle scene patetiche, i suoi cori
sono potentemente caratteristici, l'armonia purissima, e l'orchestra,
trattata colla massima chiarezza, abbonda di effetti bellissimi e
svariati, ottenuti coi mezzi più semplici. Egli senza scostarsi dalla
severità della musica sacra, e non confondendola colla teatrale,
seppe introdurre nelle sue composizioni da chiesa la spontaneitÃ
del canto, la naturalezza e la grazia dello stile. Le melodie religiose
di Sacchini possiedono in sommo grado quel carattere sublime
che dispone l'anima ad una dolce estasi, favorevole alla medita-
zione ed alla preghiera. Niun compositore ha scritto più soave-
mente di lui. Solo si può osservare che la condotta troppo uni-
forme e regolare dei suoi pezzi dà alla sua musica una tinta un
po' monotona „. (CmLESOTTi, / nostri maestri del passato; Milano,
1882, p. 186).
A ben intendere la strofa 6*, si ricordi che, quando il Parini
scriveva quest'ode, gli Slati Uniti avevan già proclamata la loro
indipendenza (4 luglio 1776), e col trattato di Versailles del 178,3 si
era chiusa la prima loro guerra con la madre-patria. Riesce molto
interessante leggere ciò che di quell'epica lotta pensava e scriveva
il Baretti; e non solo perchè amico del Parini, ma anche perchè
egli fu, tra gl'Italiani del suo tempo, dei più illuminali e indi-
pendenti e dei meglio informati di quanto avveniva oltr'Alpi ed
oltre mare. Cfr. Scritti scelti ecc., v. I, p. 363 ss., v. II, p. 280 ss.
A proposito poi delle " sirene , che meglio, cantando le melodie
del Saccliini, sperarono d'incatenare gli animi dei loro ammira-
tori, mi par bene di riferire qui i due sonetti che il Parini dettò,
nel 1759, " per Caterina Gabrielli cantatrice „ 11 primo è un " dia-
logo fra il Poeta ed Amore „ (0/>., II, 7) :
— Quando Costei su la volubil scena
Di celeste bellezza apre i portenti,
E il notturno spettacolo serena
Co' raggi del bel volto, Amor, che tenti?
70 ODI.
— Entro per gli occhi a quel prodigio intenti,
Scendo ne' cori e là calmo ogni pena,
Desto teneri sensi, empio a le genti
Di foco soavissimo ogni vena.
— E mentre, simulando i prischi lai,
Da i due coralli de la bella bocca
Scioglie il canto amoroso, Amor, che fai?
— Volo al bel labbro onde il piacer trabocca,
E grido: oh in terra fortunato assai
Chi si bel labbro ascolta o vede o tocca !
11 secondo è stato ripubblicato recentemente da A. G. Spinelli, in
Alcuni fogli sparsi del P., Milano, Civelli, 1884:
Allor che il cavo albergo è in sé ristretto,
Onde in un tempo ha l'uom vita e parola.
L'aere soavemente esce del petto,
E al doppio career suo ratto s'invola.
Per la tornita poi morbida gola
Passa al liscio palato; e, vario aspetto
Preso fra i denti e '1 labbro, alfin sen vola
Dolce a recare altrui gioja e diletto^
Ma pria Costei con la mirabil arte
E l'armonico genio il guida e frena
Sotto a le leggi de le industri carte;
E quindi avvien che da la flebil scena
Fa altrui beato, e tal piacer comparte
Che seco avvinti i cor tr.tggc in catena.
LA MAGISTRATURA
(Per Camillo Gritti podestà di Vicenza).
Se robustezza ed oro
Utili a far cammino il ciel mi desse,
Vedriansi Torme impresse
De le rote che lievi al par di Coro
Me porterrebbon, senza
Giammai posarsi, a la gentil Vicenza:
Onde arguta mi viene
E penetrante al cor voce di donna,
Che, vaga e bella in gonna,
De l'altro sesso anco le glorie ottiene,
Fra le Muse immortali
Con fortunato ardir spiegando l'ali.
E da gli occhi di lei
Oltre lo ingegno mio fatto possente,
Rapido da la mente
Accesa il desiato inno trarrei,
Colui ponendo sogno
Che de gli onori tuoi, Vicenza, è degno.
Che dissi? Abbian vigore
Di membra quei che morir denno ignoti;
E sordidi nipoti
Spargan d'avi lodati aureo splendore;
Noi delicati, e nudi
Di tesor, che nascemmo a i sacri studi.
Noi, quale in un momento
Da mosso speglio il suo chiaror traduce
LA MAGISTRATURA. 73
Ahi quale a me di bocca
Fugge parlar che te nel cor percote,
A cui già su le gote
Con le lagrime sparso il duol trabocca,
E par che solo un danno
Cotanti beni tuoi volga in affanno!
Lassa! davanti al tempio
Che sul tuo colle tanti gradi sale •
Supplicavi che uguale
A un secol fosse, con novello esempio,
Il quinquennio sperato
Quando l'inclito Gritti a te fu dato.
Ed ecco, a pena lieto
Sopra Taureo sentier battea le penne,
A fulminarlo venne,
Repentino cadendo, alto decreto,
Che, quasi al vento foglie.
Ogni speranza tua dissipa e toglie.
E qual da l'anelante
Suo sen divelto innanzi tempo vede
Lungi volgere il piede
Nova tenera sposa il caro amante,
Che tromba e gloria avita
Per la patria salute altronde invita:
Cosi l'eroe tu miri
Da te partirsi; e di te stessa in bando.
Vedova afflitta errando
E di querele empiendo e di sospiri
I fòri ed i teatri
E le vie già si belle e i ponti e gli atri
E i templi a le divine
Cure sagrati, che di te si degni,
De' tuoi famosi ingegni
Ahimé! l'arte non pose a questo fine.
Altro più ben non godi
Che tra gli affanni tuoi cantar sue lodi.
Non già per ch'ei non porse
Le mani a Toro o a le lusinghe il petto;
Né sopra l'equo e il retto
Con l'arbitro voler giammai non sorse;
74 ODI. •
Né le fidate a lui
Spada o lanci detorse in danno altrui.
Vile de l'uomo è pregio
Non esser reo. Costui da i chiari apprese
Àtavi donde scese,
D'alte glorie a infiammar l'animo egregio,
E a gir dovunque in forme
Più insigni de' miglior splendano l'orme.
Chi si benigno e forte
Di Tèmide impugnò l'util flagello?
O chi pudor si bello
Diede a l'augusta autorità consorte?
O con si lene ciglio
Fé' l'imperio di lei parer consiglio?
Davanti a più maturo
Giudizio le civili andar fortune,
O starsene il comune
Censo in maggior frugalità securo
Quando giammai si vide
Ovunque il giusto le sue norme incide?
Ei, se il dover lo impose,
Al veder linc(ì, al provveder fu pardo;
Ei del popolo al guardo
Gli arcani altrui, non sé medesmo ascose;
Né occulto orecchio sciolse.
Ma solenne tra i fasci il vero accolse.
Ei gli audaci repressi
Tenne con l'alma dignità del viso;
Ei con dolce sorriso,
Poi che del grado a sollevar gli oppressi
Tulio il poter consunse,
A la giustizia i beneficj aggiunse.
E tal suo zelo sparse,
Che grande a i grandi, al cittadino pari,
Uom comune a i volgari,
Rettor, giudice, padre a tutti apparse;
Destando in tutti, estreme
Cose, amicizia e riverenza insieme.
Ben chiamarsi beata
Può, fra povere balze e ghiacci e brume,
LA MAGISTRATURA. 75
Gente cui sia dal nume
Simil virtude a preseder mandata.
Or qual fu* tua ventura,
Città , cui tanto il ciel ride e naturai
Ma balsamo che tolto
Vien di sotterra, e s'apre al chiaro giorno»
Subitamente intorno
Con eterea fragranza erra disciolto;
Tal che il senso lo ammira,
E ognun di possederne arde e sospira.
Quale stupor, se brama
Del nobil figlio al gran Senato nacque;
E repente, fra Tacque
Onde lungi provvede, a sé il richiama?
Di tanto senno a i raggi
Voti non sorser mai altro che saggi.
Non vedi quanti aduna
Ferri e fochi su Tonda e su la terra
Vasto mostro di guerra,
Che tre Imperi commette a la Fortuna;
E con terribil faccia
Anco Taltrui securità minaccia?
Or convien che s'affretti,
Cotanto a le superbe ire vicina,
Del mar Talta regina
Il suo fianco a munir d'uomini eletti,
Ov'ardan le sublimi
Anime di color che opposer primi
Al rio furore esterno
Il valor, la modestia ed i consigli;
E da i miseri esigli
Fecer T Adria innalzarsi a soglio eterno,
E sonar con preclare
Opre del nome lor la terra e il mare.
Godi, Vicenza mia.
Che il Gritti a fin si glorioso or vola;
E il tuo dolor consola
Mirando qual segnò splendida via
Co' brevi esempj suoi
A la virtù di chi verrà da poi.
76 ODI.
Fu scritta nel 1788, per invito di Elisabetta Caminer, veneziana
(nata nel 1751), poetessa e giornalista, moglie del medico Antonio
Turra di Vicenza. La quale, in occasione che Camillo dritti abban-
donava la Rettoria della gentile città posta alle falde de' monti
Bcrici, lodevolissiinamente da lui tenuta per sedici mesi (dal 18
dicembre del 1786 al 17 aprile 1788), aveva invitali gli amici poeti
a concorrere con lei a metter su un omaggio di rime. Raccolse
venti componimenti, che fece subito stampare, insieme con due
suoi idillii, nella sua propria tipografia, e pubblicare col titolo di
Trionfo della verità . Oltre codesta del Parini, v'era un'ode frugo-
niana del Coriiiani, e poi sonetti non meno frugoniani del Cesarotti,
del Bertòla, del Lorenzi.
Non sembra che il nostro poeta conoscesse di persona il magi-
strato l)cnemerito; ma non perciò le sue lodi possono dirsi meno
meritate. Un cronista di Vicenza ci attesta che il Gritti (nato nel
1745) s'era fatto da tutti benvolere per la " rettitudine del cuore ,,
per l'equità , per la " soavità dei costumi „, la grazia del porgere,
la nobile amabilità del carattere, la beneficenza " ad ogni ordine
di persone, e sopra tutto per quell'eroico disinteresse che lo trasse
a rifiutare costantemente ogni dono ,. Il suo * reggimento fu senza
esempio „, e l'acume dell'ingegno gli fece " scegliere una corte di
giudici e di ministri tutti illibati e integerrimi „. Un panegirista
lo encomia inoltre per la costruzione della strada che mena al
Santuario del Rerico (il tempio che sul colle tanti gradi sale), e per
l'attenta sua vigilanza, nella carestìa del 1787, sui mercati della
provincia, a fin di scongiurare i danni del monopolio. Del resto, il suo
governo non avea che avverate le speranze che il solo suo nome
aveva destate : Andrea Gritti (il chiaro à tavo) era stato uno dei mi-
gliori podestà di Vicenza, durante la guerra della Repubblica coi
Visconti, nel 1439. Peccalo che un valentuomo di tanto merito ri-
manesse a reggere la città pel minimo del tempo prescritto dalle
leg^à ! I tre podestà che lo avevano preceduto eran durati in carica
ciascuno un quin([uennio ; e i Vicentini avrebbero desiderato che
l)er lo meno altrettanto (il quinquennio sperato) rimanesse tra
loro anche il Grilli. Ma questi, appunto pei suoi eccezionali ta-
lenti, fu richiamato dal gran Senato e promosso membro di quel-
l'alto consesso. Si combatteva allora l'enorme guerra, che durò
dal 1781 al '92, tra la Russia e l'Austria da una parte e la Turchia
dall'altra (i tre Imperi).
Quanto alle lodi che il Parini fa alla città , l'avesse o no egli vi-
sitala o riferisse ciò che ne sentiva dire, basti ricordare che nel
secolo scorso l'arte della lana e più ancora quella della seta vi
avevan toccata la perfezione; che vicentino fu Andrea Palladio,
rarcliilelto del Palazzo del Capitano, del Teatro Olimpico, della
Rasilica, dei palazzi Chieregati, Porto-Barbarano, Valmarano; e che
le salubri acque, onde il Cielo le fé' dono, posson esser quelle di
Uecoaro. Inoltre, " l'opinione comune degli eruditi vicentini rite-
neva, al tempo del Parini, che Vicenza si reggesse in princijìio con
leggi sue proprie ; che i Romani vi avessero rispettato in sulle
prime non solo gli ordinamenti particolari, ma non gli avessero
LA MAGISTRATURA. ié
distrutti neppure quando la lex iulia miiniclpaìis venne a sovrap-
porvisi „ ; e che sino i barbari, e poi Ezelino, i Carraresi, gli Scaligeri,
i Visconti di Milano (i posteri tiranni) ne rispettassero gli statuti.
Alla morte dì Giangaleazzo Visconti, per non correre il pericolo
di cader nelle mani de' Carraresi, i Vicentini chiesero la protezione
di Venezia (il Lione altero) ; e misero nei patti della spontanea de-
dizione, che cominciò il 28 aprile del 1404, che la giustizia fosse
continuata ad amministrarsi " secondo le leggi, i diritti e la forma
degli statuti e degli ordinamenti della città di Vicenza, non ostante
alcuni decreti in contrario delle Signorie precedenti „. La Repub-
blica mandava al governo della città due patrizi veneziani, il Po-
destà (custode) e il Capitano (vindice), che n'eran detti Rettori: la
legge vicentina esigeva " che i Rettori venissero sempre dal di
fuori, né potessero condur moglie o posseder beni nella città di
cui amministravano la pubblica cosa „. Cosi, col frequente variare
dei magistrati, la Signoria veneta provvedeva a impedire la rilas-
satezza nell'esecuzione delle leggi {fresco valor ).
Per l'illustrazione di quest'ode mi son molto giovato della Me-
moria di Bernardo Morsolin, La Magistratura di G. P., negli Atti
del r. Lslituto Veneto, t. 11, s. VI, 1883-1884, p. 850 ss.
IL DONO
(Alla marchesa Paola Castiglioni).
Queste che il fero Allobrogo
Note piene d'affanni
Incise col terribile
Odiator de' tiranni
Pugnale, onde Melpomene
Lui fra gl'itali spirti unico armò;
Come oh come a quest'animo
Giungon soavi e belle
Or che la stessa Grazia
A me di sua man dielle,
Dal labbro sorridendomi
E da le luci onde cotanto può !
Me per 1' urto e per l' impeto
De gli affetti tremendi.
Me per lo cieco avvolgere
De' casi, e per gli orrendi
De i gran re precipizi!
Ove il coturno camminando va,
Segue tua dolce immagine,
Amabil donatrice,
G^ata spirando ambrosia
Su la strada infelice,
E in sen nova eccitandomi
Mista al terrore acuta voluttà :
• IL DONO.
O sia che a me la fervida
Mente ti mostri, quando
In divin modi e in vario
Sermon, dissimulando,
Versi d'ingegno copia
E saper che lo ingegno almo nodri;
O sia quando spontaneo
Lepor tu mesci a i detti,
E di gentile aculeo
Altrui pungi e diletti
Mal cauto da le insidie
Che de' tuoi vezzi la natura ordi.
Caro dolore, e specie
Gradevol di spavento
È mirar fìnto in tavola
E squallido e di lento
Sangue rigato il giovane
Che dal crudo cinghiale ucciso fu;
Ma sovra lui se pendere
La madre de gli Amori,
Gingendol con le rosee
Braccia, si vede, i cori
Oh quanto allor si sentono
Da giocondo tumulto agitar più ! -
Certo maggior, ma simile
Fra le torbide scene
Senso in me desta il fingermi
Tue sembianze serene,
E a l'atre idee contessere
I bei pregi onde sol sei pari a te.
Ben porteranno invidia
A' miei novi piaceri
Quant'altri a scorrer prendano
I volumi severi.
Che far, se amico genio
Si amabil donatrice a lor non die ?
Fu composta nel 1790, e dedicata a quella medesima marchesa
Paola Castiglioni cui il poeta avea diretta La recita dei versi. " K
fama tra noi „ narra non so quanto attendibilmente il Bernar-
80 ODI. .
(Ioni, " che l'Alfieri mandasse al Parini un esemplare delle sue
tragedie, stampale in Parigi, chiamandolo Primo pittar del signoril
costume, e che glielo facesse presentare dalla marchesa Paola Ca-
stiglioni, alla quale il Parini scrisse poi la sua bella ode, allusiva
appunto al ricevuto presente „. 11 Reina annota semplicemente:
" A Paola Castiglioni pel regalo da lei fatto a Parini delle Tragedie
di Alfieri „. Ad ogni modo, un più diretto ringraziamento del dono
alfieriano potrebbe considerarsi il sonetto * A Vittorio Alfieri il
tragico „ (Op., II, 32), che suona cosi :
Tanta già di coturni, altero ingegno,
Sovra l'italo Pindo orma tu stampi,
Che andrai, se te non vince o lode o sdegno,
Lungi de l'arte a spaziar fra i campi.
Come dal cupo ove gli affetti han regno
Trai del vero e del grande accedi lampi;
E le poste a' tuoi colpi anime segno
Picn d' inusato ardir scuoti ed avvampi!
Per che de l'estro a i generosi passi
Fan ceppo i carmi? e dove il pensier tuona
Non risponde la voce amica e franca?
Osa, contendi; e di tua man vedrassi
Cinger l'Italia omai quella corona
Che al suo crin glorioso unica manca.
Nella Vita scritta da sé stesso, l'Alfieri narra (ep. IV, e. 10): " A
Milano.... mi trattenni ancora quasi tutto luglio [1783]; e ci vidi
assai spesso l'originalissimo autore del Mattino, vero precursore
della futura Satira italiana. Da questo celebre e colto scrittore pro-
curai d'indagare, con la massima docilità e con sincerissima voglia
d'imparare, dove consistesse principalmente il difetto del mio stile
in tragedia. Il Parini, con amorevolezza e bontà , mi avverti di
varie cose, non molto a dir vero importanti, e clie tutte insieme
non potevano mai costituire la parola Stile, ma alcune delle me-
nome parli di esso. Ma le più od il tutto di queste parli che do-
veano costituire il vero difettoso nello stile, e che io allora non
sapeva ancor ben discernere da me stesso, non mi fu mai saputo
o voluto additare, nò dal Parini né dal Cesarotti ne da altri va-
lenti uomini ch'io col fervore e l'umiltà d'un novìzio visitai ed
interrogai in quel viaggio per la Lombardia „.
K opportuno ricordare che le Tragedie alfìeriane, dopo un primo
e non riuscito tentativo di edizione che se ne fece a Siena nel 1783,
furono stampate a Parigi in sei volumi dal 1787 al 1789, e poi su-
bito, nel 1790, ristampate a Nizza.
Circa al fero AUol>rogo, è stato avvertito che gli Allobrogi tenevan
veramente quel paese che ora è Savoia, mentre l'Alfieri era di Asti ;
ma non pare si sia badato che pur l'Astigiano ama chiamarsi tale,
nella Vita (ep. III, e. 1), dove narra: " E mi ricordo tra l'altre che
nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non
so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro
IL DONO. 81
Allobrogo lo buttai là , dicendo che non me n'importava nulla,,.
Chi però pensi che la Vita fu pubblicata postuma, nel 1804, e che
il Parini quindi non poteva aver imparato da essa quel nome,
troverà più verosimile che l'Astigiano, in ispecie trattando della
sua dimora milanese, si compiacesse di riconoscere in sé quella
fiera origine, che l'illustre poeta, non senza efficacia, gli aveva at-
tribuita. Anche quella maniera d'atteggiar la frase, da vero barbaro
Allobrogo, sembra confermare la nostra supposizione. E mi par
poi da metter fuori dubbio che V Allobrogo feroce del Leopardi non
sia che un'eco del fiero Allobrogo pariniano.
Alla marchesa Paola Castiglioni, ch'era in campagna a fare i
bagni, s'è da prestar fede al Cantù {L'abate Parini ecc., Milano, 1892,
p. 426), fu indirizzato dal Parini anche questo sonetto :
Le fresche ombre tranquille, i colli ameni,
E queste di vigore aure feconde
Che tu respiri, e queste tiepid'onde
Ove le belle membra ignuda tieni,
Si, domeranno alfin gli aspri veneni.
Donna gentil, che il tuo petto nasconde,
E a te l'alma salute, ore gioconde
Guidando, tornerà co' pie' sereni.
La patria e il mpndo allor di grato core
Porrà al genio del loco un'ara in segno,
E queste note incideravvi Amore:
Salva. colei, che di virtù, d'ingegno.
Di grazia, di modestia ottiene onore
Sopra quant'altre ha di bellez-?a il regno.
LA GRATITUDINE
(Per il cardinale Angelo Maria Durini).
Parco di versi tessitor ben fia
Che me l'Italia chiami ;
Ma non sarà che infamai
Taccia d'ingrato la memoria mia.
Vieni, o cetra, al mio seno;
E canto illustre al buon Durini sciogli,
Cui di fortuna dispettosi orgogli
Duro non stringon freno ;
Si che il corso non volga ovunque ei sente
Non ignobil favilla arder di mente.
Me pur da l'ombra de' volgari ingegni
Tolse nel suo pensiero;
E con benigno impero
Collocò repugnante in fra i più degni.
Me fatto idolo a lui
Guatò la Invidia con turbate ciglia ;
Mentre in tanto splendor gran meraviglia
A me medesmo io fui ;
E sdegnoso pudore il cor mi punse.
Che a l'alta cortesia stimoli aggiunse.
Solenne offrir d'ambiziose cene,
Onde frequente schiera
Sazia si parta e altera,
Non è il favor di che a bearmi ei viene.
Mortale, a cui la sorte
LA GRATITUDINE. 83
Cieco diede versar d'enormi censi,
Sol di tai fasti celebrar sé pensi
E la turba consorte.
Chi sovra Talta mente il cor sublima
Meglio sé stesso e i sacri ingegni estima.
Cetra, il dirai ; poi che a mostrarsi grato,
Fuor che fidar ne Tali
De la fama immortali,
Non altro mezzo a l'impotente é dato.
Quei che al fianco de' regi
Tanto sparse di luce e tanto accolse,
Fin che le chiome de la benda involse
Premio di fatti egregi,
A me, che Torma umil tra il popol segno,
Scender da l'alto suo non ebbe a sdegno.
E spesso i Lari miei, novo stupore !
Vider l'ostro romano
Riverberar nel vano
De l'angusta parete almo fulgore ;
E di quell'ostro avvolti
Vider natia bontà , clemente affetto,
Ingenui sensi nel vivace aspetto
Alteramente scolti;
E quanti alma gentil modi ha più rari,
Onde fortuna ad esser grande impari.
Qual nel mio petto ancor siede costante
Di quel di rimembranza.
Quando in povera stanza
L'alta forma di lui m'apparve innante !
Sirio feroce ardea;
. Ed io, fra l'acque in rustic'urna immerso,
E a le NÃ jadi belle umil converso,
Oro non già chiedea
Che a me portasser da l'alpestre vena.
Ma te, cara salute, al fin serena.
Ed ecco, i passi a quello dio conforme
Cui fìnse antico grido
Versogli materno lido
Dal Xanto ritornar con 3plendid'orme,
Ei venne; e al capo mio
84 ODI.
Vicin si assise; e da gli ardenti lumi
E da i novi spargendo atti e costumi
Sovra i miei mali oblio,
A me di me tali degnò dir cose,
Che tenerle fìa meglio al vulgo ascose.
Io del rapido tempo in vece a scorno
Custodirò il momento
Gh'ei con nobil portento
Ruppe lo stuol che a lui venia d'intorno,
E solo accorse, e ratto
Me, nel sublime impaziente cocchio
Per la negata ohimè forza al ginocchio
Male ad ascender atto,
Con la man sopportò, lucidi dardi
Di sacre gemme sparpagliante a i guardi.
Come la Grecia un di gl'incliti figli
Di Tindaro credette
Agili su le vette
De le navi apparir pronti a i perigli,
E, di felice raggio
Sfavillando il bel crin biondo e le vesti,
Curvare i rosei dorsi, e le celesti
Porger braccia, coraggio
Dando fra Talte minaccianti spume
Al trepido nocchier caro al lor nume-
Tale in sembianti ci parve oltra il mortale
Uso benigni allora ;
Onde quell'atto ancora
Di giocondo tumulto il cor m'assale :
Chò la man ch'io mirai
Dianzi guidar l'amata genitrice,
Ahi prima del morir tolta infelice
Del sole a i vaghi rai,
E tolta dal veder per lei dal cigho
Sparger lagrime illustri il caro figlio;
Quella man che gran tempo a lato a i troni
Onde frenato è il mondo
Di consiglio profondo
Carte seppe notar propizie a i buoni ;
Quella che, mentre ei presse
LA GRATITUDINE. 85
De le chiare Provincie i sommi seggi,
Grate al popol donò salubri leggi ;
Quella il mio fianco resse,
Insigne aprendo a la fastosa etade
Spettacol di modestia e di pietade.
Uomo, a cui la natura e il ciel diffuse
Voglie nel cor benigne,
Qualor desio lo spigne
L'arti a seguir de le innocenti Muse,
Il germe in lui nativo
Con lo aggiunto vigor molce ed affina:
Pari a nobile fior, cui cittadina
Mano in tiepido clivo
Educa e nutre, e da più ricche foglie
Gara copia d'odori a l'aria scioglie.
Gostui, se poi d'intorno a sé conteste
D'onori e di fortuna
Fulgide pompe aduna.
Pregiate allor che a la virtù son veste,
Gostui de' proprj tetti
Suo ritroso favor già non circonda;
Ma con pubblica luce esce e ridonda
Sopra gì' ingegni eletti,
Destando ardor per le lodevol'opre
Ghe le genti e l'età di gloria copre.
Non va la mente mia lungi smarrita
Go' versi lusinghieri ;
Ma per varj sentieri
De l'inclito Durin l'indole addita.
E come falco ordisce
Larghi giri nel ciel, vòlto a la preda;
Tal, ben che vagabondo altri lo creda.
Me il mio canto rapisce
A dir com'egli a me davanti egregio
Uditor tacque, ed al Liceo die pregio,
Quando da l'alto, disprezzando i rudi
Tempi a cui tutto è vile
Fuor che lucro servile.
Solo de* grandi entrar fu visto, e i nudi
Scanni repente cinse
81) ODI.
De' lucidi spiegali ostri sedendo;
E al giovane drappel, che a lui sorgendo
Di bel pudor si tinse,
Lene compagno ad ammirar sé diede,
E grande a i detti miei acquistò fede.
Onde osai seguitar del miserando
Di LÃ bdaco nipote
Le terribili note
E il duro fato e i casi atroci e il bando :
Quale a TÀttiche genti
Già il finse di colui l'altero carme
Che la patria onorò trattando Tarme
E le tibie piagnenti,
E de le regie dal destin converse
Sorti e de 1 arte inclito esempio offerse.
Simuli quei che più sé stesso ammira
Fuggir l'aura odorosa
Che da i labbri di rosa
La bellissima Lode ai petti inspira;
Lode figlia del cielo.
Che, mentre a la virtù terge i sudori
E soave origlier spande d'allori
A la fatica e al zelo,
Nuove in alma gentil forze compone;
E gran premio de l'opre al meglio è sprone.
Io non per certo i sensi miei scortese
Di stoico superbo
Manto celati serbo.
Se propizia giammai voce a me scese.
Né asconderò che grata
Ei da le labbra melodia mi porse.
Quando facil per me grazia gli scorse
Da me non lusingata ;
Poi che tropp'alto al cor vóto s'imprime
D'uom che ingegno e virtudi alzan sublime.
Pur, se lice che intero il ver si scopra,
Dirò che più mi piacque
Allor che di me tacque,
E del prisco cantor fé' plauso a l'opra.
Sorser le giovanili
LA GRATITUDINE. 87
Menti da tanta autorità commosse:
Subita fiamma inusitata scosse
Gli spiriti gentili,
Che con novo stupor dietro a gl'inviti
De la greca beltà corser rapiti.
Onde come il cultor che sopra il grembo
De' lavorati campi
Mira con fausti lampi
Stendersi repentino estivo nembo,
E tremolar per molta
Pioggia con fresco mormorio le frondi,
E di novi al suo pie verdi giocondi
Rider la biada folta;
Tal io fui lieto, e nel pensier descrissi
Belle speranze a la mia Insubria, e dissi :
Vedrò vedrò da le mal nate fonti
Che di zolfo e d'impura
Fiamma e di nebbia oscura
ScQndon l'Italia ad infettar da i monti;
Vedrò la gioventude
I labbri torcer disdegnosi è schivi,
E a i limpidi tornar di Grecia rivi.
Onde natura schiude
Almo sapor, che a so contrario il folle
Secol non gusta e pur con laudi estolle.
Questi è il Genio de Farti. Il chiaro foco.
Onde tutt'arde e splende,
Irrequieto ei stende
Simile a l'alto sol di loco in loco.
II Campidoglio e Roma
Lui ancor biondo il crine ammirar vide
I supremi del bello esempj e guide
Che lunga età non doma ;
E il concetto fervore e i novi auspici
Largo versar di Pallade a gli amici.
Né già , ben che per rapida le penne
Strada d'onor levasse.
Da sé rimote o basse
Le prime cure onde fu vago ei tenne :
O se con detti armati
D'integra fede e cor di zelo accenso
Osò l'ardua tentar fra nuvol denso
Mente de i re scettrati ;
O se nel popol poi con miti e pure
Man le date spiegò verghe e la scure.
Però che dove o fra le reggie eccelse
Loco a l'arti divine
O in umili officine
in case ignote la fortuna scelse,
Ivi amabil decoro
E saggia meraviglia al merto desta
Venne guidando, e largita modesta,
E de le Grazie il coro
Co' festevoli applausi ora discinti
Or de' bei nodi de le Muse avvinti.
Anzi, come d'Alcide e di Teseo
Suona che da le vive
Genti a le inferne rive
L'ardente cortesia scender poteo :
Ed ei cosi la notte
Ruppe dove l'oblio profondo giace;
E al lieto de la fama aere vivace
Tornò le menti dotte;
E l'opre lor, dopo molt'anni e lustri,
Di sue vigilie a lo splendor fé' illustri.
Tal che onorato ancor sul mobil etra
Va del suo nome il suono
Dove il chiaro Polono
De l'arbitro vicino al frcn s'arretra ;
Dove il regal Parigi
Novi a sé fati oggi prepara; e dove
L'ombra pur anco del gran Tosco move,
Che gli antiqui vestigi
Del saper discoperse, e feo la chiusa
Valle sonar di cosi nobil musa.
È ver che, quali entro al lor fondo avito
1 Fabrizj e i Gammilli
Tornar godean tranquilli
Pronti sempre del Tebro al sacro invito,
Tal di sé solo ei pago
LA GRATITUDINE. 89
Lungi da Taura popolar s'invola;
E mentre il ciel più gloriosa stola
Forse d'ordirgli è vago,
Tra le ville natali e Taere puro
Da i flutti or sta d'ambizìon securo.
Ma i cari studj a lui compagni annosi,
E a i popoli ed a Farti
I beneficj sparti
Son del suo corso splendidi riposi.
Vedi ampliarsi alterno
Di moli aspetto ed orti ed agri ameni,
Onde quei chetai suo merto accesser beni
E il tesoro paterno
Versa; e dovunque divertir gli piaccia,
L'ozio da i campi e l'atra inopia caccia.
Vedi i portici e gli atrj ov'ei conduce
II fervido pensiere,
E le di libri altere
Pareti, che del vero apron la luce :
eh' ei di sé maestro
Ne l'alto de le cose ami recesso
Gir meditando, o il plettro a lui concesso
Tentar con facil estro;
E in carmi, onde la bella alma si spande,
Soavi a l'amistà tesser ghirlande.
Ed ecco il tempio ove, negati altronde,
Qual da novo Elicona
Premj a l'ingegno ei dona,
E fiamme acri d'onore altrui diffonde.
Ecco ne' segni sculti
Quei che del nome lor la patria ornaro.
Onde sol generoso erge a l'avaro
Oblio nobili insulti ;
E quelle glorie a la città rivela
Ch'ella a sé stessa ingiuriosa cela.
Dove, o cetra ? Non più. Rari i discreti
Sono; e la turba è densa
Che già derider pensa
1 facili del labbro a uscir segreti.
Di lui questa a l'orecchio
iX) ODI.
Parte de' sensi miei salgane occulta,
Si che del cor, che al benefìcio esulta,
Troppo limpido specchio
Non sia che fiato invidioso appanni,
Che me di vanti e lui d'error condanni.
Lungi, o profani! Io d'importuna lode
Vile mai non apersi
Cambio; né in blandi versi
Al giudizio volgar so tesser frode,
(irò né gemme vani
Sono al mio canto: e dove splenda il nierto,
LÃ di flore iminortal ponendo serto
Vo con libere mani ;
Né me stesso né altrui allor lusingo
Che poetica luce al vero io cingo.
" Fu scrina „, annota il Reina (II, 182), " nel 1790, quando la Po-
lonia e la F'rancia erano agitate dalle politiche novità „ (cfr. " il
chiaro Polono al fren s'arretra „, " il regal Parigi novi a sé fati oggi
prepara „) ; e fu stampata a parte, avverte il Salveraglio, nell'aprile
del 1791.
Il Diirini fu, dice il Reina (II, 169), " più amico della Filosofìa e
delle Belle Arti che dell'ostro romano „. Fece i primi studi a Mi-
lano, poi andò a Roma a imparar teologia e diritto canonico.
Ancor giovane, accompagnò lo zio C.arlo Durini, arcivescovo di
Anuisia, vescovo di Pavia e iioi cardinale, che andava Nunzio apo-
stolico a Parigi. Tornato a Roma, fu di 11 a poco nominato Refe-
rendario di amho le Signature; poi, nel 1759, inviato quale Inqui-
sitore pontifìcio a Malta. Nel 1767 andò Nunzio in Polonia (non
ancora, nel '90, questa nobile ma infelice terra aveva perduto l'ul-
timo resto di libertà , che le fu poi tolto nel '91 dalla Russia, Yar-
bitro vicino); e nella dieta ove si agitò la controversia tra i catto-
lici e i dissidenti, egli sostenne una piarle considerevole ed ardita.
Nel 1774, Clemente XIV lo mandò primo Presidente ad Avignone
(" dove i^ur anco move „ l'ombra del Petrarca); e anche qui egli
" si segnalò per zelo, attività e giustizia, non che per la pubblica-
zione ed illustrazione di parecchie opere di buoni scrittori „. Nel
1776 fu creato cardinale da Pio VI. Ma queRanno stesso ei volle
allontanarsi " dagli intrighi della Corte Romana „, e venne a viver
privatamente " in Lombardia, coltivando le Lettere ed i Letterati,
fra gli ameni piaceri deUa villa fino all'ultima vecchiaia ,. Qui egli
profuse le sue non poche ricchezze nell'adornare la deliziosa ed
avita villa di Mirabello presso Monza (" arricchita „ dice il Bra-
mieri, " d'ogni fregio più splendido, e resa un vero Parnaso „), nel
LA GRATITUDINE. 91
costruirvi di contro l'altra di Mirabellino (dove, in una galleria,
" tra i busti e i ritratti de' valentuomini, onde in ogni età fu pro-
duttrice Milano, collocato avea pur quello del Parini „ : una specie
di " tempio , dell'arte, ove erano " ne' segni scultl quei che del nome
lor la patria ornaro ,), nell'acquistar quella di Balbiano, di fronte
all'isoletta Comacina sul Lario, e nell' innalzarvi poco lontano, a
ridosso della scogliera di quel piccolo promontorio, l'altra di Bal-
bianello. Passando lietamente la vita ora nella sontuosa casa di
Milano, ora in qualcuna di queste ville, ei v'invitava quanto la
città offriva di meglio in fatto di cultura; e tra gli amici poeti,
poetava anche lui. Una volta, essendo a Varsavia e ad Avignone,
egli s'era occupato di studi dotti, richiamando alla fama le opere
di Simonide, e alcuni libri di Raimondo Cunich e di Sigismondo
Boldoni; ora meglio si dilettava di cantar epitalamii agli amici, come
a Febo d'Adda :
Belli iunitillus Gallici, et impia
Return insecuius funera, Amor, tuum
lam dulce certamen, iam amicos
Dico iuos, Hymenaec, tiéxus;
o di piangerne in versi latini la perdita, come fece pel Balestrieri ;
o magari di tradurre in epigrammi i due sonetti del Parini pel
busto di Maria Beatrice: " Virtutum Parinianarum perpetuus ad-
mirator „, si firmava scrivendogli. Morì di ottant'anni, nella villa
di Balbiano, " senectutis nostrae nidulo „, com'egli la chiamava, il
5 aprile 1796.
Accompagnandogli i suoi versi in morte del comune amico Do-
menico Balestrieri, Pietro Verri scriveva al Cardinale : " Onorando
i distintissimi pregi dell'ingegno, riserbo la mia venerazione per
qualche cosa di più grande e di più sacro, cioè per la beneficenza,
per la magnanimità e per gli sentimenti nobili del cuore; e questo
puro omaggio lo presento all'Eminentissimo principe che abbracciò
e sollevò il Balestrieri povero, vecchio, infermo e circondato da
guai, a lui che forse colle consolazioni prolungò gl'innocenti suoi
giorni, a lui che tanto onorevolmente e sensibilmente ne illustra
la tomba, e che per fine, abbandonando questa volta il nobile si-
stema abbracciato per sé medesimo, si presenta a impetrare in
favore della vedova le sovrane beneficenze ,.
Sono anche da riferire, a illustrazione dell'ode pariniana, i di-
stici del Durini Ad Maiies Balestrerà , de Parini versibus. Si ricordi
che il Balestrieri aveva tradotta in meneghino la Gerusalemme Li-
berala.
Balestrere, tibi vatum chorus orniti s adempio
Dal serta aottiis humida de lacrimis.
Hetruscis superas et quamvis serta camcenis,
Aeternum insubrica vivis et in Sohme ;
Non inorala lumen pietas tibi nostra futura est,
Debent se merilis carmina nostra tuis.
Farinus nostri lux prima et fama lycei,
Notus et eois notus et hesperiis,
92 ODI,
Non imilabilihus plorai tua futura chordis,
Jamque tuos cineres et pius ossa legit:
Ne tantum pius ossa legit, funebria sacrai
Carmina et aeternis busta notanda modis.
Non alio velles laudari dignius ore.
Non posses alio dignius ore cani.
" Nella frase aeternis busta notanda modis non è da intendere „,
osserva il Carducci (L'Accademia dei Trasformati e G. P., nella
lY.^ Antologia del 1® maggio 1891, p. 11), ' che il Parini facesse dal
suo il sepolcro, che né il Parini potea, credo, spendere tanto e si
sa che lo fece il Durini, ma si può arguirne, parnii, che il Parini
componesse l'iscrizione apposta al sepolcro „. Dell'ode, pur dal
Cardinale annunziata e lodata, non abbiamo se non un frammento,
che diamo a suo luogo.
11 liramieri dice qua e là : " Che magia di stile non vi bisogna
a render poetico il racconto di visite ricevute, ora in casa pro-
pria, mentr'era nel bagno, ora alla scuola, mentre spiegava V Edipo
di Sofocle ai discepoli, e del sostegno prestatogli a salire in car-
rozza?... Qual arte di presentare colla massima nobiltà le idee più
comuni!... E nel Parini non si può mai ammirare abbastanza la
nobiltà di cui sa circondare anche gli oggetti che ne sembrano
meno capaci. Che vi par egli di que' banchi della scuola e di que'
ragazzi che s'alzano in piede, e arrossiscono alla presenza del Car-
dinale ed alla modestia con cui loro si agguaglia?... Chi ebbe la
ventura di ascoltar Parini ragionante dalla cattedra, parti dolce-
mente inebbriato e sorpreso ad un tempo dalla copia, finezza e
profondità delle sue cognizioni, dalla perspicuità del suo metodo
nell'insegnare, dallo spirito insinuante con cui trasfondeva negli
uditori il proprio gusto cotanto dilicato e sicuro „. (Della vita e
degli scritti di G. P. milanese, lettere di due amici; Milano, 1802).
Nel vedere il nobile Cardinale accorrer tra lo stuolo dei fami-
liari per sorreggere, a lui popolano e semplice prete, l'infermo
fianco, il Parini teneramente ricorda d'aver visto quel magnanimo
cosi sorreggere la madre, divenuta cieca negli ultimi anni.
Al Durini è anche dedicato un frammento di ode (Op., 11, 252-4):
O gl'Insubri e l'Italia.
IL MESSAGGIO
(Per l'inclita Nice).
Quando novelle a chiedere
Manda Tinclita Nice
Del pie che me costringere
Suole al letto infelice,
Sento repente l'intimo
Petto agitarsi del bel nome al suon.
Rapido il sangue fluttua
Ne le mie vene: invade
Acre calor le trepide
Fibre: m'arrosso: cade
La voce; ed al rispondere
Util pensiero in van cerco e sermon.
Ride, cred'io, partendosi
Il messo. E allor soletto,
Tutta vegg'io, con Tanimo
Pien di novo diletto.
Tutta di lei la immagine
Dentro a la calda fantasia venir.
Ed ecco ed ecco sorgere
Le delicate forme
Sovra il bel fianco; e mobili
Scender con lucid'orme
Che mal può la dovizia
De Tondeggiante al pie veste coprir.
94 ODr.
Ecco spiegarsi e romero
E le braccia orgogliose,
Cui di rugiada nudrono
Freschi. ligustri e rose,
E il bruno sottilissimo
Crine che sovra lor volando va:
E quasi molle cumulo
Crescer di neve alpina
La man che ne le floride
Dita lieve declina,
Cara de' baci invidia
Che riverenza contener poi sa.
Ben può ben può sollecito
D'almo pudor costume
Che vano ama de l'avide
Luci render l'acume
Altre involar delizie,
Immenso intorno a lor volgendo vel:
Ma non celar la grazia
Né il vezzo che circonda
Il volto affatto simile
A quel de la gioconda
Ebe, che nobil premio
Al magnanimo Alcide è data in ciel;
Né il guardo che dissimula
Quanto in altrui prevale,
E vòlto poi con subito
Impeto i cori assale,
Qual Parto sagittario
Che più certi fuggendo i colpi ottien;
Né i labbri or dolce tumidi
Or dolce in sé ristretti,
A cui gelosi temono
Gli Amori pargoletti
Non omai tutto a suggere
Doni Venere madre il suo bel sen;
I labbri onde il sorridere
Gratissimo balena,
Onde l'eletto e nitido
Parlar che l'alme affrena
IL MESSAGGIO. 95
Cade, come di limpide
Acque lungo il pendio lene rumor;
Seco portando e i fulgidi
Sensi ora lieti or gravi,
E i gemali studii,
E i costumi soavi,
Onde salir può nobile
Chi ben d'ampia fortuna usa il favor.
Ahi, la vivace immagine
Tanto pareggia il vero,
Che, del pie leso immemore,
L'opra del mio pensiero
Seguir già tento; e l'aria
Con la delusa man cercando vo.
Sciocco vulgo, a che mormori,
A che su per le infeste
Dita ridendo noveri
Quante volte il celeste
A visitare ariete
Dopo il natal mio di Febo tornò?
A me disse il mio Genio
Allor ch'io nacqui: L'oro
Non fia che te solleciti,
Né l'inane decoro
De' titoli, né il perfido
Desio di superare altri in poter;
Ma di natura i liberi
Doni ed affetti, e il grato
De la beltà spettacolo
Te renderan beato.
Te di vagare indocile
Per lungo di speranze arduo senlier.
Inclita Nice, il secolo
Che di te s'orna e splende
Arde già gli assi; l'ultimo
Lustro già tocca, e scende
Ad incontrar le tenebre,
Onde una volta pargoletto usci.
E già vicino ai limiti
Del tempo i piedi e l'ali
90
Provan tra lor le vergini
Ore, che a noi mortali
Già di guidar sospirano
Del secol che matura il primo di.
Ei te vedrà nel nascere
Fresca e leggiadra ancora
Pur di recenti grazie
Gareggiar con l'aurora;
E di mirarti cupido,
De' tuoi begli anni farà lento il voi.
Ma io, forse già polvere
Che senso altro non serba
Fuor che di te, giacendomi
Fra le pie zolle e l'erba.
Attenderò chi dicami
Vale, passando, e ti sia lieve il suol!
Deh alcun, che te ne l'aureo
Cocchio trascorrer veggia
Su la via clic fra gli alberi
Suburbana verdeggia,
Faccia a me intorno l'aere
Modulato del tuo nome volar!
Colpito allor da brivido
Religioso il core.
Fermerà il passo; e attonito
Udrà del tuo cantore
Le commosse reliquie
Sotto la terra arfjfute sibilar.
Fu composta nei primi mesi del 1793. In una leUera al Ber-
nardoni, degli 11 novembre 1795, il Parini (Op., IV, 194-5) scriveva:
" Ilo Ietta la Canzone all'Inclita Nice; e riio trovata ottimamente
corretta, salvo che nel verso Vale passando ecc., dove invece di
Iene vorrebbe scriversi lieve „. E più giù ingiungeva: " La Canzone
aU Inclita Nice non amo che abbia nota veruna indicante la per-
sona a cui è supposta diretta „. 11 Reina invece annotò brusca-
mente (li, 186): " per Flnclita Nice, ossia Maria di Castelbarco „.
Ma la indiscrezione era già stata commessa dal primo editore del-
l'ode, che nel 1795 la pubblicò a Venezia nel tomo III dellM/i/io
poetieo, con l'intestazione: Alla signora contessa Castelbarco.
Costei, bellissima, era per più ragioni cara al poeta. Figliuola del
IL MESSAGGIO. 97
marchese Giulio Pompeo Litta Visconti Arese e di Elisabetta Bor-
romeo Visconti (era nata il 21 ottobre del 1761), e sorella della
marchesa Paola Castiglioni, aveva di sedici anni (l** maggio 1777)
sposata Carlo Ercole, l'ultimo dei figliuoli che il conte Cesare Ca-
slelbarco ebbe dalla cugina Francesca Simonetta ardentemente
amata dal Parini. La primogenita del conte Castelbarco e della
Simonetta, Teresa, era poi maritata a Galeazzo Serbelloni, il di-
scepolo del Parini. (Cfr. A. Bertoldi, Dell'ode per l'inclita Nice,
nella Nuova Antologia del 1® luglio 1889).
Con quest'ode, veramente elegantissima, il Parini volle ringra-
ziare l'adorabile contessina Maria, ch'era allora sui trentadue anni,
della " premura datasi „ di mandargli " ambasciate nell'antece-
dente inverno „ (cosi una postilla manoscritta, edita dal Salverà -
glio). E a lei pure egli diresse, nel medesimo anno '93, il seguente
sonetto, rimandandole una seconda copia delle " sue . Odi stam-
pate dal Bodoni „, dacché una prima era andata smarrita (Op , 11,43):
glìel'aveva portata via il fratello, ammiraglio Litta.
Rapi de* versi miei picciol libretto
Amor, non sazio mai di furti e prede;
E me schernendo, a seguitarlo inetto,
Fuggissi a volo, e a Citerea lo diede.
E disse: O madre, a te sia il dono accetto,
Ben che non molta in questi carmi ho fede.
Se non mentisce del cantor l'aspetto
E l'usurpata chioma e il debil piede.
E tu ben sai che la tua bella face
Tardo inspirò di poesia furore
Di Teo soltanto al vecchiarel vivace.
Rise la Dea; di vago almo colore
Si tinse, e replicò: Tutto a me piace
Quel che mi vien da le tue mani, Amore,
La bella contessa morì sedici anni dopo del poeta, nel 1815.
Tutti sanno che Nice era dei nomignoli più adoperati nella poesia
galante del secolo scorso : basterebbe ricordare la canzonetta del
Metastasio Grazie agl'inganni tuoi Alfin respiro o Nice. Anche il
Parini ne fece molto uso, specialmente negli epigrammi, spesso
un po' troppo liberi, pei parafuochi, le vèntole e i ventagli {Op., Ili,
8-9, 10, 11, 12, 17); e d'una Nice cantò le nozze in un leggiadris-
simo sonetto in endecasillabi catulliani (II, 23), ch'io non mi so
trattenere dal riferire, anche perchè nulla vieta, ch'io sappia, che
qui la sposa sia proprio la contessina CastelbarcQ.
O bella Venere, per cui s'accende
La vergin timida al primo invito
D'Amore, e il giovane caldo ed ardito
A la dolcissima palma contende,
Questa a te candida zona sospende
Nice or che al talamo vien del marito
Male opponendcsi, e sul fiorito
Letto con trepido ginocchio ascende.
98 ODI.
Tu in cambio donale l'amabil cinto,
Caro !l' bei giovani e a le donzelle,
Onde il tuo morbido fianco è distinto.
In esso e i fervidi baci e le belle
Carezze e i teneri susurri e il vinto
Pudor di querule spose novelle.
Inclito poi era degli aggettivi più cari al nostro poeta. BasterÃ
ricordare gVincliti pregi dell'ode // Pericolo, e Vinclito Gritti della
Magistratura, e gVincliti figli di Tindaro e l' inclito Durin e Vinclito
esempio della Gratitudine, e Vinclit'aluo del Vespro, v. 308, ecc. ecc.
Nella quinta delle sue Lezioni di eloquenza, il Foscolo riferiva
(Opere, Le Monnier, H, 163-4): " La prima volta ch'io vidi il Parini,
e a me allora, come dice Antìloco presso Omero, allora a me la
Parca II decimo ed ottavo anno filava, intesi da quel poeta già vec-
chio recitare un'ode ch'egli avea composta di fresco, ed è la bel-
lissima forse tra tutte le altre sue; e v'erano in essa queste due
strofe :
A me disse il mio Genio....
Ma di natura i liberi ...
E mentr'io stavami intento all'artificio mirabile di questi versi, e
alla novità sopra tutto dell'ultimo verso [Per lungo di speranze
arduo sentier], ed ardiva lodarli, O giovinetto, mi disse, prima di
lodare all'ingegno del poeta, bada ad imitar sempre l'animo suo in
ciò che ti desta virtuosi e liberi sensi, ed a fuggirlo ov'ei ti con-
duca al vizio e alla servitù. Lo stile di questa mia poesia è frutto
dello studio dell'arte mia; ma della sentenza che racchiude devo
confessarmi grato all'amore solo con cui ho coltivati gli studi, perchè
amandoli fortemente e drizzandovi tutte le potenze dell'anima,
ho potuto serbariHÌ illibato ed indipendente in mezzo ai vizi e alla
tirannide dei mortali. — Ed un'altra volta richiedendolo io in che
consistesse la indipendenza dello scrittore, risposemi: A me par
d'essere liberissimo, perchè non sono né avido, né ambizioso. „
SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA
(A Silvia).
Per che al bel petto e a Tomero
Con sùbita vicenda,
Per che, mia Silvia ingenua,
Togli rindica benda
Che intorno al petto e a l'omero,
Anzi a la gola e al mento,
Sorgea pur or, qual tumida
Vela nel mare al vento?
Forse spirar di zefiro
Senti la tiepid'òra ?
Ma nel giocondo ariete
Non venne il sole ancora.
Ecco di neve insolita
Bianco l'ispido verno
Par che, sebben decrepito.
Voglia serbarsi eterno.
M'inganno? o il docil animo
Già de' femminei riti
Cede al potente imperio,
E l'altre belle imiti?
Qual nome o il caso o il genio
Al novo culto impose.
Che si dannosa copia
Svela di gigli e rose?
100 ODI.
Che fìa? Tu arrossi? E dubia,
Gol guardo al suol dimesso,
Non so qual detto mormori
Mal da le labbra espresso?
Parla. Ma intesi. Oh barbaro!
Oh nato da le dure
Selci chiunque togliere
Da scelerata scure
Osò quel nome, infamia
Del secolo spietato;
E die funesti augurii
Al femminile ornato ;
E con le truci Eumcnidi
Le care Grazie avvinse;
E di crudele immagine
La tua bellezza tinse !
Lascia, mia Silvia ingenua,
Lascia cotanto orrore
A Taltre belle, stupide
E di mente e di core.
Ahi! da lontana origine,
Ghe occultamente nóce,
Anco la molle giovane
Può divenir feroce.
Sai de le donne esimie
Onde si chiara ottenne
Gloria l'antico Tevere,
Silvia, sai tu che avvenne,
Poi che la spola e il Frigio
Ago e gli studj cari
Mal si recà ro a tedio
E i pudibondi Lari,
E con baldanza improvvida,
Gontro a gli esempj primi,
Ad ammirar convennero
I saltatori e i mimi?
Pria tolleraron facili
I nomi di Tereo
E de la maga Golchica
E del nefario Atreo;
SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 101
Ambito poi spettacolo
A i loro immoti cigli
Fur ne le orrende favole
I trucidati figli;
Quindi, perversa l'indole
E fatto il cor più fiero,
Dal fìnto duol, già sazie,
Gorser sfrenate al vero ;
E là dove di Libia
Le belve in guerra oscena
Empiean d'urla e di fremito
E di sangue l'arena.
Potè a l'alte patrizie,
Come a la plebe oscura,
Giocoso dar solletico
La soffrente natura.
Che più? Baccanti, e cupide
D'abbominando aspetto.
Sol da l'uman pericolo
Acuto ebber diletto:
E da i gradi e da i circoli
Co' moti e con le voci.
Di già maschili, applausero
A i duellanti atroci;
Creando a sé delizia
E de le membra sparte
E de gli estremi aneliti
E del morir con arte.
Copri, mia Silvia ingenua,
Copri le luci, et odi
Come tutti passarono
Licenziose i modi.
Il gladiator, terribile
Nel guardo e nel sembiante.
Spesso fra i chiusi talami
Fu ricercato amante.
Cosi, poi che da gli animi
Ogni pudor disciolse.
Vigor da la libidine
La crudeltà raccolse.
102 ODI.
Indi a i veleni taciti
Si preparò la mano:
Indi le madri ardirono
Di concepire in vano.
Tal da lene principio
In fatali rovine
Cadde il valor, la gloria
De le donne latine.
Fuggi, mia Silvia ingenua,
Quel nome e quelle forme
Che petulante indizio
Son di misfatto enorme.
Non obliar le origini
De la licenza antica.
Pensaci; e serba il titolo
D'umana e di pudica.
" Fu scriUa neU* inverno 1795 „, annota U Reina; e, se una volta
tanto deve credersi anche al Cantù {L'ab. Parini, p. 100 n.), " fu det-
tata quasi improvviso da poeta che le altre stillava tanto a lungo ».
L'ode divenne presto popolare a Milano. " Parecchi „ , racconta il
Bernardoni, " si diedero subito a trasportare quest'ode nel dialetto
milanese. Carlo Porta die aveva cominciato a preludere alla poe-
tica carriera che percorse in sèguito tanto luminosamente...., col-
pito dalle inarrivabili bellezze di queU'ode, la stava traducendo
egli pure in ottonarli, e già dalle strofe ch'egli mi aveva mostrate,
e che la facevano giungere poco meno che alla metà , poteva giu-
dicarsi bellissimo lavoro; quando si vide comparire stampata, e
distribuirsi in gran copia di esemplari, e leggersi pubblicamente,
quella di Francesco Bellati, col titolo : Ode a Silvia molto bella d'on
autor de conclusion ecc., ch'era stata ordinata dall'Arciduca Ferdi-
nando d'Austria, allora Governatore di queste provincie, con l'idea
di rendere intelligibili anche alle basse classi della popolazione
i sublimi concelli pariniani. E il Porta lacerò tutto quello ch'egli
avea fatto, e non ne rimase più alcuna traccia ,. 11 Salveraglio
(p. 2G5 ss.) ripubblica altresì, di su un manoscritto deU' Ambrosiana,
una risposta della Silvia al Parinì, in dialetto e in ottava rima.
S'intitola: La donzella della sura Siluia che porta la resposta al-
l'Autor della canzon sora el vestii alla guillottina, 1795, Milan, con
so permess cani.
Il bel componimento del già celebre abate corse tosto mano-
scritto anche fuori della Lombardia, e a Venezia fu stampato nel-
l'Anzio poetico, e a llonia il giornale // Chracas del 18 luglio an-
nunziava : " è comparsa al pubblico una vivacissima anacreontica
SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 103
del signor ab. Giuseppe Parini, ove si biasima la moda francese
della Guigliottina, e si bella composizione vien celebrata per la
sceltezza delle parole, per l'altezza dello stile e per la nobiltà dei
concetti ,. A Roma stessa ne venne fuori una versione in distici
latini.
All'ode diede occasione il fatto che in quel torno le dame mila-
nesi avevano adottata la foggia di vestire che a Parigi chiamavano
à la victime; la quale, dice il Quicherat {Histoire dii costume en
France, Paris, 1875, p. 634), " eut le sens d'une manifestation poli-
tique » e consisteva in " une faveur rouge tournée autour du cou,
conduite sous le bras et croisée par derrière, raraenée sur la inol-
trine pour y former un noeud „. A Milano codesta acconciatura fu
detta alla ghigliottina; e la ragione del nuovo nome sarebbe stata
questa, secondo il contemporaneo conte Giovan Luca Somaglia,
che il 10 aprile 1795 s'affrettava a mandare al suo amico abate Gio-
vanni Maggi, a Piacenza, la " bellissima „ nuova " poesia del celebre
abate Parini „ :
« Comparve una delle nostre più belle donne ad un pranzo del General Stain
[il conte Carlo Leopoldo Stein, comandante generale di S. M. Imperiale in
Italia] vestita in modo che resta /ano scoperte le punte de' suoi omeri, ed i
capelli di dietro erano annodati sì alto che il collo si vedea tornito da tutte
le parti. Il Generale al primo incontro le disse: Madame, il paroit que votis
soye{ habilìée à la ouilloiine. La riflessione fece ridere la brigata. Ma l'abito
della bella donna piacque tanto alle iiltre, che subito vollero imitarla, e per
dare un nome alla cosa lo chiamarono Alla ^uillotìne ». (Cfr. I. tella Gio-
vanna, L'ode sul vestire alla iihigliottlna, nella Cultura del 28 febbraio 1891,
pag. 163).
La nuova moda, scollacciata, succedeva, come suole, a un'altra
eccessivamente accollata, che con un " immenso velo „ cercava di
nascondere il petto, il collo e il viso (cfr. l'ode // Messaggio).
Contro la smania delle nostre dame d'imitar le mode di Francia,
il poeta aveva giti composto due anni prima, durante il Terrore,
un graziosissimo sonetto in vernacolo. " Si voleva distruggere la
Francia „, annotava il Reina (III, 309), " eppure a spese enormi de-
rivavansi di là mode e capricci repubblicani ,. Il sonetto porta per
titolo: El magon dij damm de Milan par i baronad de Fraiiza, e
suona cosi:
Madamm, g'hala qua) noeuva de Lion?
Massacren anch'adess i pret e i fraa
Q.UÃŒJ soeu birboni de Fran'.es, che han traa
La lesg, la fed, e tutt coss a monton?
Cossa n'è de colù de quel Petton [Pethion],
Che 'l pretend con sta bella Hbertaa
De mctt insemma de nun nobiltaa
H de nun Damm tutt quant i mascalzon?
101 ODI.
A proposif che la lassa vede
Q.ucl capell là , che g'ha d'intoriia on veli;
È el staa inventaa dopo che haii mazzaa el Rè?
Èel el primm ch'è rivaa? Oh beli! oh beli!
Oh i gran Franzes! Besogna dill, no gh'è
Popol che sappia fa i mej coss de quell !
11 Reina avverte che la Silvia dell" ode è " nome immaginario „.;
Ed è nome senza dubbio bellissimo, consacrato nella poesia italiana
(anche prima che dal F.eopardi) dal Tasso e dal Frugoni. Anzi il
cinquecentista aretino Pier Paolo Gualterio, della scuola delTolomei,
ha addirittura un'ode A Silvia, imitazione, quanto al metro, della
strofa saffica, e, quanto alla sostanza, del carpe diem oraziano.
{CAv. Carducci, La poesia barbara nei secoli XV e A'V7, Bologna,
1881, p. 95). Il Parini stesso mutò nel "bel nome, di Silvia quello
di Maria Beatrice d'Este, neir.4sca/iio in Alba. (Cfr. Op., Ili, 268-9).
Ma i contemporanei vi vollero riconoscere la veronese Silvia Cur-
toni-Verza : una delle amiche più dolci del poeta, il quale l'ammirò
con tanto fuoco di passione, che il suo si direbbe " amor vero e
possente „ se chi lo provava non fosse stato un vecchio prete tra
i sessanta e i settantanni. E in verità una siffatta identificazione si
presenta cosi spontanea e verosimile, che non si comprende perchè
gli studiosi più recenti del Parini la discaccino quasi una cattiva
tentazione. Vero è che Benassù Montanari, l)ìografo della contessa
veronese (Verona, 1851), raccomandò di non confonder le due Silvie
ma le ragioni, ond'egli avvalorò codeste raccomandazioni, non per-
suadono. " Esiste in Verona „, egli dice, " manoscritta, una storia di
Verona al tempo della rivoluzione, dove il contegno di Silvia in
questi giorni è animosissimamente l)istrattato; ed ove Silvia avesse
adottata quella moda, lo scrittore glie lo avrebbe certo rinfac-
ciato „. Che infatti la contessa fosse delle più esaltate in quel pe-
riodo di comune esaltazione repubblicana, risulta anche da altre
testimonianze. Il Valéry, per es,, racconta, nelle Ciiriosités et aiiec-
dotcs italiennes, d'un medico francese emigrato, che, consultato
da lei, rispose derivare il suo male dall'aver i polmoni tricolorati ;
e il Bettinelli le dedicava questo epigramma, che si direbbe un
madrigale sansculottes :
Silvia dissi ognor divina
Per beliade e per ingegno;
Or la dico giacobina
Per la moda ch'oggi ha regno.
Ma ciò e poco, dice Amore:
Se l'ha udita e se l'ha vista.
Fugga pur, tremi ogni core:
Io la feci terrorista.
Una tal Silvia è proprio quella che ci vuole per l'ode: la Silvia
iiKjeiuia è amabilmente rimproverata dal poeta d'aver subito adot-
tata una moda poco vereconda, solo perchè le sarà forse parsa
SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 105
un'uniforme repubblicana. Che poi di codesto particolare taccia il
cronista veronese, non sorprende: quella nuova foggia non l'aveva
introdotta la Silvia, e non era essa sola a portarla. Anzi, per ciò
appunto, mi pare che perda valore pur l'attestazione di Ippolito
Pindemonte (grande amico della Verza, per la quale aveva appo-
sitamente tradotta la Berenice di Racine, che essa poi recitò in
casa dei conti Marioni), riferita dal Montanari: che egli cioè avesse
conosciuta a Milano quella signora che prima aveva adottata l'ac-
conciatura alla ghigliottina e dato con ciò occasione all'ode ; una
signora, s'intende, che non era la Verza. Il Parini non sì rivolge
punto alla dotta invcnlrice, una delle tante " stupide e di mente
e di core „ (me ne duole pel cavalier Pindemonte!), bensì a una
cnra ingenua che lavea presa a modello, " E l'altre belle imiti „!
Può parere da ingenuo scambiare la Curtoni-Verza per una in-
genua. Ma prima di tulto, se codesta colta e avvenente nipote dì
Scipione Maffei fu forsa troppo vivace, amante degli spassi, desi-
derosa di vedersi corteggiare dai poeti, essa, tra le libere dame del
suo tempo, non si segnalò per nessuna di quelle qualità che son
l'opposto dell'ingenuità . Dalle lettere che ancora ci rimangono di lei
traspare un'indole gaia, schietta, entusiastica. " Caro amico „, scrì-
veva da Napoli il 21 luglio 1790 al conte Torri, " non so espri-
mervi quanto sia piacevole il rivedere la più bella parie d'Italia.
Per ogni dove ho trovato la medesima cordialità negli amici miei,
di cui voi foste un giorno testimonio. Napoli è un maggiore in-
canto in questa amena stagione, come potete immaginarvi. Le par-
lite di divertimento sono deliziose, la sera alla passeggiala a Posi-
lipo, per mare in barchctla con musica. Oh che piacere! Quattro
teatri aperti con magnifici e buoni spettacoli, accademie, ecc. „.
Né pìccolo argomento d'onore per lei e che il (bastila denominava
" Sìlvia la platonica „ !
E poi ingenua la chiamerebbe il Parini, che nell'ammirar le
belle donne perdeva i lumi, e della contessa era cotto: allora, di-
cono, sia facile prender lucciole per lanterne ! La Curtoni, nell'au-
tunno del 1788, trovandosi a Milano, ammirata dal fiore della no-
biltà e della cultura, era stata più volte, in compagnia del liertòla,
a visitarlo; e il 24 novembre scriveva al Vannettì da Verona: " Io
mi sono assai divertita in questo mio piccolo viaggio, particolar-
mente fra i buoni e cordiali Milanesi. Ho conosciuto il bravo abate
Parini, che ha nel vero due grandi occhi poetici. Ho inteso da luì
stesso recitare parte della sua Sera, nulla inferiore al Mattino e al
Mezzogiorno. Che penna aurea ! che maniera e forma di dire tutte
nuove! che vivacità dì colori! che verità di costume! Non m'ac-
cusate di entusiasmo : sono lodi che egli merita, voi lo sapete „,
(Cfr. G. BiADEGO, Da libri a manoscritti, Verona, 1883, p. 110; e di lui
anche il Carteggio inedito d'una gentildonna veronese. Verona, 1884).
Poi, nei primi giorni del 1789, aveva scritto direttamente al grande
poeta ; il quale, gongolante di gioia per codesta " più valida testi-
monianza della parzialità , d'una tal dama, il 22 gennaio rispose
con una lunga lettera; in cui tra l'altro le dichiarava {Op., IV,
181 ss.):
106 ODI.
" Se io Le dicessi, gentilissima Dama, che da quel momento che a Lei pia-
cque privare la mia patria e me della sua presenza non è corso un giorno,
neppur un giorno, senza che io mi sovvenissi di Lei, e senza che io mi dilet-
tassi, come tuttora fo, di ricorrere e di contemplare coll'immagina/.ione tutti
gl'interni e gli esterni pregi che l'adornano; se io Le dicessi che io ho sempre
presenti le Sue sembianze per lo appunto come se Ella mi avesse fatto la
grazia di regalarmi un suo ritratto; che mi par di sentire il tono della Sua
voce, di vederne la vivacità degli occhi, l'energia dell'espressione, e quelle
grazie dello spirito e della persona tutte Sue, che ravvivate da una lievissima
tinta maschile sono tanto più singolari e prepotenti: se io Le dicessi queste
e mille altre cose simili, io non farei altro che giustificare il titolo da Lei at-
tribuitomi di grande pittore di verità „.
Senz'aspettare che la con lessa replicasse, il 25 febbraio il " vec-
chierello immaginoso „ le tornò a scrivere, con ardore irrequieto:
protestando che " pochi momenti „ aveva egli " provati veramente
e vivamente piacevoli in tutto il corso di questa ria stagione , ,
quelli in cui le amiche comuni Cusani e Castiglioni gli avevan
parlato di lei, e l'altro in cui lesse " i versi recentemente pubblicati
dal cavalier Pindemonli. Tali versi „, soggiungeva, " benché non mi
soddisfacciano del tutto per rispetto al tutto, contengono per altro
delle cose belle. Ma quale fu il momento in cui piìi mi piacquero?
Voglio lasciarlo indovinare alla rispettabilissima Silvia. Quanto
sarei io felice di vedere ora quel sorriso che le scherza sulle labbra
nell'atto dello indovinare ! „ 11 12 marzo passa dal chiamarla " ve-
neratissima „ o " gentilissima „ o " ornatissima dama „, all'invocarla
" adorabile Silvia „ ; e le manda un sonetto con poche parole d'ac-
compagnamento. " Deh perchè le vostre circostanze e le mie „, dice,
" mi fanno disperare di rivedervi mai più ! Siate sicura che il de-
siderio di contemplarvi e d'ammirarvi un'altra vòlta da vicino è
una delle più frequenti e principali occupazioni dell'animo mio ,.
Il sonetto, d'ottima lega petrarchesca specialmente nei terzetti (il
primo dei quali si direbbe fattura foscoliana o leopardiana), è
questo (II, 40) :
Silvia immortai, ben che da i lidi miei
Lontana il patrio fiume illustri e coli;
E ben che dentro a i gorghi atri letei
Ogni dolce memoria il tempo involi :
Pur con lo ingegno onde tant'alto voli
E con le vaghe forme e i lumi bei.
Dopo sì lungo variar di soli.
Viva e presente nel mio cor tu sei.
E spesso in me la fantasia si desta,
Tal che al di chiaro e ne la notte bruna
Te veggio, e il guardo a contemplar si arresta
Nò ben credendo ancor tanta fortuna,
Palpito e grido: o l'alma Silvia è questa,
O de le Grazie o de le Muse alcuna.
SUL VESTIRE ALLA GHIGLIOTTINA. 107
Or come si può ammettere, sapendo tutto ciò, che il poeta, inti-
tolando A Silvia una sua ode, sei anni dopo, non pensasse più alla
Silvia adorala? Quella sua ammirazione non era un mistero, né
la signora desiderava che tale rimanesse (efr. la dedica del Reina
a lei del IV volume delle Opere pariniane); come dunque, se non
voleva che quel nome richiamasse quella persona, egli non ne pre-
scelse un altro, incolore, magari più risolutamente arcadico, come
A^ice? O forse ei preferi quello di Silvia appunto perchè caro al
suo cuore e al suo orecchio? Pur in questo caso, però, farebbe
sempre lei, la bella Veronese, capolino di dietro al nome. Del
resto, il Parini non commetteva nessuna indiscrezione mettendo
avanti un nome vero. Nulla della • ingenua „ è detto nell'ode che
possa offendere la suscettività anche più delicata; e il poeta vi
assume una cert'aria paterna, da vecchio precettore, che conveniva
perfettamente e al suo grado e alla sua età . Per Vinclita Nice gli
scrupoli erano ben altrimenti fondati !
ALLA MUSA
Te il mercadanle che con ciglio asciutto
Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama
Dura avarizia nel remoto flutto,
Musa, non ama.
Né quei cui l'alma ambiziosa rode
Fulgida cura, onde salir più agogna;
E la molto fra il di temuta frode
Torbido sogna.
Né giovane che pari a tauro irrompa
Ove a la cieca più Venere piace;
Né donna che d'amanti osi gran pompa
Spiegar procace.
Sai tu, vergine dea, clii la parola
Modulata da te gusta od imita,
Onde ingenuo piacer sgorga, e consola
L'umana vita ?
Colui cui diede il ciel placido senso
E puri aifetti e semplice costume;
Che, di sé pago e de l'avito censo.
Più non presume;
Che spesso al faticoso ozio de' grandi
E a l'urbano clamor s'invola, e vive
Ove spande natura influssi blandi
O in colli o in rive;
E in stuol d'amici numerato e casto.
Tra parco e delicato al desco asside;
E la splendida turba e il vano fasto
Lieto deride;
ALLA MUSA. 109
Che a i buoni, ovunque sia, dona favore;
E cerca il vero; e il bello ama innocente;
E passa Tetà sua tranquilla, il core
Sano e la mente.
Dunque per che quella si grata un giorno
Del giovin, cui die nome il dio di Delo,
Cetra si tacet e le fa lenta intorno
Polvere velo ?
Ben mi sovvien quando, modesto il ciglio,
Ei già , scendendo a me, giudice fea
Me de' suoi carmi : e a me chiedea consiglio,
E lode avea.
Ma or non più. Chi sa ? Simile a rosa
Tutta fresca e vermiglia al sol che nasce.
Tutto forse di lui Teletta sposa
L'animo pasce.
E di bellezza, di virtù, di raro
Amor, di grazie, di pudor natio
L'occupa si ch'ei cede ogni già caro
Studio a Toblio.
Musa, mentr'ella il vago crine annoda,
A lei t'appressa, e con vezzoso dito
A lei premi Torecchio, e dille, e t'oda
Anco il marito:
Giovinetta crudel, perché mi togli
Tutto il mio D'Adda, e di mie cure il pregio,
E la speme concetta, e i dolci orgogli
D'alunno egregio ?
Costui di me, de' genj miei si accese
Pria che di te. Codeste forme infanti
Erano ancor quando vaghezza il prese
De' nostri canti.
Ei t'era ignoto ancor quando a me piacque.
Io di mia man per l'ombra e per la lieve
Aura de' lauri l'avviai vèr l'acque
Che al par di neve
Bianche le spume scaturir da l'alto
Fece Aganippe il bel destrier che ha l'ale.
Onde chi beve io tra i celesti esalto
E fo immortale.
110 ODI.
Io con le nostre il volsi arti divine
Al decente, al gentile, al raro, al bello:
Fin che tu stessa gli apparisti al fine
Caro modello.
E, se nobil per lui fiamma fu desta
Nel tuo petto non conscio, e s*ei nodria
Nobil fiamma per te, sol opra é questa
Del cielo e mia.
Ecco, già Tale il nono mese or scioglie
Da clic sua fosti, e già , deh ti sia salvo!.
Te chiaramente in fra le madri accoglie
Il giovin alvo.
Lascia che a me solo un momento ei torni;
E novo entro al tuo cor sorgere alletto,
E novo sentirai da i versi adorni
Piover diletto.
Però ch'io stessa, il gomito posando
Di tua seggiola al dorso, a lui col suono
De la soave andrò tibia spirando
Facile tono;
Onde rapito ei canterà die sposo
Già felice il rendesti, e amante amato,
E tosto il renderai dal grembo ascoso
Padre beato.
Scenderà intanto da l'eterea mole
Giano che i preghi de le incinte ascolta;
E vergin io de la Memoria prole
Nel velo avvolta
Uscirò co' bei carmi, e andrò gentile
Dono a farne al Parini, Italo cigno
Glie a i buoni amico alto disdegna il vile
Vol£?o maligno.
Fu composta nella primavera del 1795, al compiere del nono
mese dacclic il marchese Febo d'Adda (il gioinn cui die nome il
dio di Dclu), già discepolo ed amico del Parini, aveva menala in
moglie la contcssina Leopoldina Kewenhùller. 11 23 giugno il
poeta gli scriveva da Vavero [Op, IV, 192-3): " Se la boiitii, con cui
V. S. lllustr. ha accettati que' pochi senili mici versi, ù troppo su-
periore al loro merito, mi è però dovuta la giustizia, ch'Ella rende
ALLA MUSA. Ili
ai sentimenti da cui mi sono stati dettati. V. S. Illustr. può farne
quel che Le pare, avendo io tutta la ragione di commettermi al
gusto ed al giudizio di Lei, massimamente dopo aver Ietto il com^
ponimento che ha avuto la gentilezza di mandarmi Sarà la più
grande pruova della parzialità di V. S. Illustr. per me, se Ella,
senza più oltre interrogarmi sopra di ciò, userà meco liberamente,
ritenendo, sostituendo, o cangiando la lezione come Le parrà ; e
cosi parimenti per l'ortografìa in ogni parte ,.
Il D'Adda era, dice il Reina, * caro alle muse ed a tutti i buoni „ .
Nato nel 1772, aveva fatto parte del "Decurio nato milanese ed era
stato Ciambellano* di S. M. imperiale prima dell'invasione francese
del 1796; e quando gli Austriaci tornarono, coperse uffici sempre
più importanti, quali quelli di Consigliere di Governo, di Consi-
gliere intimo e di Vicepresidente del Governo di Lombardia. Morì
nel 1836. 11 cardinale Angelo Durini celebrò le sue nozze con una
alcaica latina (cfr. A. Bertoldi, Dell' ode Italia Musa di G. P., Fi-
renze, 1889, p. 34):
Jam nupiiali iam moveor face
Late enìtentì ; Vatis honestior
Inventa me Sponsi, novaeque
Forma rapit putibunda Nupta.
All'ode del venerato maestro, il D'Adda rispose con un'altra,
f/aiììicizia, che fu stampata a MiLano l'anno medesimo; dov'è nar-
rava (cfr. Salveraglio, p. 271 ss.):
Me già di rozzi carmi
Giovanetto testor pungea desirc
Di più eccelso salire
In Elicona, e glorioso f.irmi;
Ma quale al fosco ingegno
Il diffiwil de l'arte era ritegno!
Allor, come tra il flutto
Di sconosciuto mar speme novella
Appar la nota stella
Al nocchier che premea l'estremo lutto,
Tale a l'alma smarrita
L'alta rifulse del Parini atta.
Ei, di benigne lodi
I miei spargendo meno incolti veisi,
D'altri più adorni e tersi
Giva scoprendo i fonti ignoti e i modi,
E ognor del grande e bello
De i vetusti poneva a me modello,
11 D'Adda visse sempre affezionatissimo al Parini; e nell'ultimo
giorno dì vita, questi, fino a pochi momenti prima della morte,
rimase a conversare con lui e con altri tre o antichi discepoli o
colleghi (Reina, lxiii). In un'ode. La rimenibranza, modellata sullo
112 ODI.
schema metrico della pariiiiann, il D'Adda medesimo volle com-
memorare quella tenera e triste scena, che si vorrebbe quasi dir
socratica (Salvrraglio, p. 270):
Ben mi sovvien quando l'estremo a lui
Sole splendeva, e del rio fato ignari
Po'chi amici ma fidi intorno a i sui
Modesti lari
Sedevamo raccolti, de gli egregi
Detti tesor facendo. Oh come in essi
Di sano cor, di retta mente i pregi
Erano espressi!
Che mentre Morte, velenoso telo
Vibrato, il caro a lui viver rapia,
11 vigor de lo spirto o il santo zelo
Men non venia,
E ne gli occhi vivaci e nel sereno
Volto brillava, qual ne i di ridenti,
De l'alma indizio ; e da lui dolce aviòno
Forza gli accenti :
Cosi a l'occaso declinato, il grande
Astro del giorno ancor d'almo giocondo
Lume abbclla la terra, e calor spande
Grato e fecondo.
IL GIORNO
Avvertenza. — Questo poemetto non comparve intero per le
stampe se non postumo, il 1801, nel primo volume delle Opere di
G. P. pubblicate ed illustrate da Francesco Reina. Il Vespro e la Notte
venivano anzi in pubblico allora per la prima volta. Ma poiché
tra le carte pariniane il Reina trovò pur il Mattino e il Mezzo-
giorno variamente e largamente corretti e mutali e allargati e ri-
falli, egli, pur ristampando il testo del 1763 e 1765, riferi in pie di
pagina quante varianti potè racimolare nei manoscritti. Scorren-
dole, risulta chiaro che queste non erano se non tentativi, non
sempre felici, che il poeta veniva via via facendo per migliorare
la forma e meglio disciplinare la materia del suo poema ; ma che
siffatto lavoro di ripulimento* e di riattazione era ancor molto
lontano dalla perfezione. Onde il Reina, tenendo separato l'antico
testo dalle nuove varianti, si comportò da editore saggio, arguto
ed onesto; anzi (che lode che a lui doveva meglio piacere) da
vero e degno scolaro del Pariui. Il quale, in una sua lettera contro
il Bandiera {Opere, V, 179), aveva insegnato : " Non è lecito ad al-
cuno, senza taccia di solenne arroganza, di corregger l'opere al-
trui, e tanto meno le opere grandi, le quali, per le somme bòUezze
ch'esse contengono, hanno acquistato ragion di non esser tocche
nemmeno nelle lor macchie ; e per certo modo sacrilego dee ri-
putarsi colui che a migliorar vuol porsi lo scritto d' un celebre
autore. Però il pubblico consenso de' letterati ha sempre applau-
dito a coloro che modestamente avvisarono altrui d'un'opera di-
fcttuosa, ma per lo contrario garrito a que' burbanzosi che pedan-
tescamente lian messo la penna negli altrui scritti „.
Codesti l)urbanzosi arroganti non mancarono tra gli editori po-
steriori del poemetto pariniano. Ed il maggiore di essi, il Cantù,
così ne ragiona (L'ab. Parini; Milano, Gnocchi, 1854, p. 284): " Al-
l'avvocato Rramieri parve gioverebbe rannicchiar queste [le varianti]
ai debiti luoghi, inserire e trasportare passi come l'autore aveva
indicato; e con tal arte preparò l'edizione, uscita nel 1805 in 4°,
li(i IL GIORNO.
per cura del Mussi a Parma. Pure il Mussi . stesso, nella pomposa
edizione in foglio (Milano, Stamperia reale, 1811) falsamente asse-
rita di soli 200 esemplari, conservò ancora il testo primitivo, che
divenne vulgato nelle infinite edizioni posteriori, frodate perciò
di moltissiive bellezze, e peccanti d'errori e ineleganze che il poeta
avea riparate. Solo nel 1841 la tipografìa dei Classici Italiani, per
nuova fatica dell'abate Colonnetti, diede fuori un testo, ridotto
quale può supporsi l'avrebbe voluto il Parini. Noi nel lodammo
distesamente in una lettera diretta a Salvator Betti romano (vedi
Rivista Europea, aprile 1844), cercando le ragioni dei cambiamenti,
apprendendo nuove strade del I)ello e procurando additarne a
qualche giovane che non credesse per anco inutili le cure intorno
alle finezze dello stile e alla squisitezza delle armonie „. E proe-
miando al suo nuovo conciero, al quale non so capacitarmi come
mai un critico del valore del Carducci siasi voluto attenere (S/oWa
del Giorno, p. 43), concludeva : " Noi dunque ci mettemmo sulle
orme del Bramieri e del Colonnelli per preparare una lezione che
comprenda tutte le aggiunte e trasposizioni, e scelga tra le varianti
quelle che ci parvero preferibili. Noteremo però come neppure ad
essi fu conceduto confrontare le stampe cogli autografi, benché
esistano in Milano, e custoditi da un milanese che ha la capacitÃ
e il proposito di valersene „.
Osservò bene A. Borgognoni (nellinlroduz. al Giorno; Verona,
1891, p. lG-7) : " Ma io domando da dove possa legittimamente ri-
trarsi che l'autore avrebbe, alla finita, ridotto a quel modo il suo
poema. In primo luogo, di parecchi passi le varianti ch'egli lasciò
son più d'una. Quale avrebbe egli scelto? La scelta dame, rispon-
derà il compilatore, perchè è la più acconcia, la più bella. Dunque,
io soggiungo, il giudice, il correttore non è il Parini, siete voi
Ma anche dove la variante è singolare, qual criterio, si domanda,
vi accerta che l'autore l'avrebbe in ultimo sostituita al corrispon-
dente passo antico ? È noto che gli autori, rileggendo le cose
proprie, buttano molte volte in carta varianti dubitative, riserbau-
dosi poi di vedere e rifletter meglio se sia o no da adottarle. E
molte volte il giudizio ultimo è a quelle sfavorevole, e restan
fuori. Ora anche qui la strada è senza uscita pei correggitori. Se
si ricorre al criterio del più o meno bello, ecco che siamo alle
solite : siamo al solito criterio subbiettivo, superbo e inganne-
vole „.
Il testo che noi diamo è esattamente quello del Reina. Trascu-
riamo però di riprodurre le varianti, perchè ci è parso che sareb-
bero riuscite fastidiose e inutili ai lettori cui questa nostra edizione
è indirizzata : esse danno un'aria grave e pedantesca a una poesia,
che bisognerebbe leggere a distesa e gustare senza preoccupazioni
tecniche. Del resto chi avesse desiderio di studiare con una buona
guida quell'intenso lavorio di lima che il Parini venne facendo,
fino all'ultimo, intorno all'opera sua, può riscontrare la recente
ristampa curatane da G. Mazzoni (Firenze, Barbera, 1897). Diamo
in nota, nei luoghi corrispondenti, qualcuno di quei brani più
notevoli che il j)oeta pensava forse di aggiungere, o di sostituire ad
IL GIORNO. 117
altri, in una edizione complessiva del poema, che vagheggiava ma
che non fece mai.
Quanto all'ortografia, il Reina avvertiva (Op., I, Lxvn): " Avendo
l'autore in varj tempi seguito diversi metodi di ortografìa, si
danno i Poemetti colla varia punteggiatura, spezzatura di parole,
e simili, siccome fece egli tanto nel testo quanto ne' pentimenti,
perchè meglio si scorga in qual guisa la rendette per gradi sì sem-
plice nella Notte „. E nulla abbiamo mutato nemmeno noi; salvo
che ci Siam permesso di aggiungere o di togliere qualche virgola,
perchè meglio, a una prima lettura, riuscisse evidente il senso.
Che l'intero poema dovesse aver per titolo // giorno, appar chiaro
se non altro da quel luogo della Caduta, dove il poeta si dice mo-
lestamente incitato di " poner fine al Giorno „. Esso però da prima
doveva constare di tre parti. " Se a te piacerà di riguardare con
placid'occhio questo Mattino „, scriveva il Parini medesimo nella
dedica alla Moda, " forse gli succederanno il Mezzogiorno e la
Sera „; e nella protasi (v. 11-13):
duali al Mattino,
Q.uai dopo il Me:^iodi, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai.
Dopo, nella mente del poeta^ la Sera si sdoppiò nel Vespro, a cui
provvide con jiarte del Mezzogiorno, e nella Notte.
Narra qua e là il Reina: " L'Italia domandavagli intanto la con-
tinuazione del Giorno: vi si provò egli spesso, abbozzò il Vespro
e la Notte, che sostituì all'ideata Sera ; ma ne sospese più volte il
lavoro, tanto lo rendette difficile la tema di non parer minore di
sé nella pubblica opinione Mentre fervevano i terribili avve-
nimenti politici e guerrieri, l'arciduchessa Maria Reatrice da Esle,
donna di generosa indole, piena di domestiche virtù ed amica e
coltivatrice degli studj liberali, desiderò di vedere la Notte di Pa-
rini. Egli, che molto reputava la valorosa donna, se ne scusò per
la imperfezione della cosa, e promise di ofl'erirgliela sollecitamente
stampata col restante del Giorno. Diedesi perciò al pulimento del-
l'opera, ed aveva già riveduto il Mattino, il Meriggio e parte del
Vespro e della Notte, quando i Francesi concpiìslarono la Lom-
bardia. Può ognuno immaginarsi l'onesto tripudio di un uomo
nutrito colle idee di libertà , al quale era dato di sperar bene della
patria ! Eletto da Ronaparte e Saliceti al Magistrato Municipale di
Milano, .... egli, zelatore instancabile del pubblico bene, vi rimase
finche lusingossi di conseguirlo; indi ottenne un onesto congedo.
... Restituitosi alla domestica quiete, seguitò con premura costante
gli andamenti politici della giornata 11 continuo leggere che
faceva delle cose giornaliere e lo studio de' classici, che non tra-
scurò mai, gli offescro la vista in modo che gli si appannò alquanto
anche l'occhio sinistro ; onde risolvette di sottoporre il destro al-
l'operazione della cateratta, la quale riescendogli bene, divisava di
118 IL GIORNO.
compiere il Vespro e la Notte nella state vegnente, ed aveva pro-
messo già di dettarmeli „.
E ancora : " Xon mai contento di se, Parini s'accorse che l'arte
facevasi ricordare qualche volta ne' suoi poemetti. I pentimenti
tutti posteriori all'opera provano ])astevolmente che ne levò que'
modi e vocaboli che non erano i più proprj e naturali, in guisa
di declinare spesso dalla novità per amore della semplicità e chia-
rezza. Con simili divisamenti stese egli il Vespro e la Notte^ ne'
quali, bencliè imperfetti, il semplicissimo bello della composizione
e dello stile è giunto a tale che la felice pertinacia dell'arte inte-
ramente si asconde sotto l'api^arenza della nuda ed evidente fa-
cilità : del qual metodo assai compiacevasi nella vecchiaja. Poche
cose trovava egli di questa natura, e perciò gliene piacevano poche.
Negli ultimi tempi suoi l'evidentissimo Dante, il semplice e facile
Ariosto gli erano sempre alla mano : costoro, diceva egli, più si
conosce l'arte, più si ammirano; più si studiano, più piacciono „.
In una lettera da Milano, 10 settembre 1766, il Parini scriveva
.1/ librajo Coloiììbani, a Venezia (cfr. Caxtù, L' ab. Parinit 329) :
" Quanto alla mia Sera, io ho quasi dimesso il pensiero : non che
non mi piaccia di compiere i tre poemetti da me annunciati, ma
perchè sono stomacato dell'avidità e della cabala degli stampatori.
Non solo essi mi hanno ristampato in mille luoghi gli altri due,
ma lo hanno fatto senza veruna partecipazione meco, senza man-
darmene una copia, senza lasciarmi luogo a correggervi pure un
errore. Questa Sera è appena cominciata; e io non mi sono dato
veruna briga di andare avanti, veduto che non me ne posso aspet-
tare il menomo vantaggio, e probabilmente non proseguirò se non
avrò stimoli a farlo. Aggradisco le proposizioni di Lei, e su questo
proposito Le rispondo che sarebbe mia intenzione di fare un'edi-
zione elegante di tutti e tre i poemetti, qualora l'opera fosse com-
pila. Se Ella dunque si risente di farla, io mi esibisco di darle la
Sera terminata per il principio della ventura primavera, e insieme
gli altri due poemetti, corretti in molti luoghi e migliorati ,.
E in un'altra, pur da Milano, il 18 novembre 1791, diretta al ce-
lebre Bodoni di Parma, che aveva da poco stampato le Odi e
stampò poi nel 1800 il Mattino e il Mezzogiorno, scriveva (cfr.
Beiitana, Sei lettere inedite del P., nella Rassegna Bibliografica d.
leti. Hai., VI, 82-5) : " . . . . ma mi pareva pur necessario di giustifi-
carmi presso di Lei che merita tanto riguardo dagli amatori delle
Lettere; e specialmente da me, così di fresco favorito ed onorato
colla sua bellissima edizione dei miei poveri versi. Io non so come
significarle bastevolmente la mia compiacenza e la mia gratitu-
dine, così per la spontanea singolare gentilezza ch'Ella ha usata
meco appena a Lei noto, come per la nobiltà e la eleganza della
edizione e del volumetto di cui, per riguardo alla sua opera, mi
ha fatto un prezioso dono. Se mai Ella è informata del mio ca-
rattere, Ella saprà che io sento più assai il merito e la generositÃ
altrui di quel che io non sia capace di spiegare con parole. La
priego adunque di misurare dal mio animo anzi che dalla mia
IL GIORNO. 119
penna quanto io L'ammiri, e quanto io me Le professi obbligato ;
e più non dico intorno a ciò. Nella primavera ventura spero, e
quasi tengo per certo, d'avere in pronto due poemetti per sèguito
e per termine di quelli altri antichi due, che hanno avuto la for-
tuna di non dispiacere. Se mai Ella mi facesse l'onore di meditar
nulla anche intorno all'edizione di essi. Ella si compiaccia di far-
mene cenno. I due primi uscirebbero corretti, variali in qualche
parte, ed accresciuti. Così tutti e quattro verrebbero ad esser
nuovi, e ridotti in un solo Poema, che avrebbe per titolo II
Giorno „.
Mi pare altresì opportuno riferire qui alcuni brani di lettere che
il Baretti scrisse in tempi diversi all' amico Don Francesco Car-
cano, a Milano.
In una da Venezia, il 9 maggio 1763, diceva : * Vi ringrazio delle
quattro copie del Mattino, che m'avete mandato Sentite un
pezzo d'epistola che sto scrivendo sulle differenti opinioni de' filo-
sofi intorno all'amore. Cospetto di Bacco, la scrivo in versi mar-
telliani ; fatevene il segno della croce, che a me non importa. Il
Parini vuol buttar via l'ingegno in verso sciolto, ed io lo vo' buttar
via in verso martelliano ! „.
In un'altra del 30 marzo 1765 : " Io poi non incoraggirò il Parini
a scrivere né il Mezzodi né altro, che questa p. . . . Italia non me-
rita che dei Chiari e dei Buonafede. Perché diavolo lambiccarsi
il cervello a vantaggio d'un paese abitato da tanti quadrupedi che
camminano su due gambe sole? Lasciamoli ignoranti, prosun-
luosi, sciaurati come sono, e non ce ne diamo pensiero „.
E da Livorno, il 10 febbraio 17G6 : " Se vorrete essere mio corri-
spondente quando sarò in Londra, avvertite ora per allora che io
non trovo facilmente la poesia buona, e che non potrò volere un
corrispondente in Italia se mi darà il fastidio di leggere de' versi,
quando non sieno di quella forza de' versi del Parini, che col suo
Mezzogiorno m'ha fatto vincere l'avversione che ho agli sciolti e
all'oscurità . Però in avvenire guardatevi bene dal più martoriarmi
con cose inferiori al Mattino e al Mezzogiorno ; altrimenti mi guasto
con voi sicuramente ,.
Da Parigi, il 20 giugno 1768 : « Vi dico che mi rallegro il Pa-
rini stia componendo la Sera; che avrei caro di vedere tutti e
tre i Poemi del Parini, quando il terzo sarà finito ; che venendovi
occasione, non fareste male di mandarmeli per mezzo deirillu-
strissimo signor Paolo Celesia di Genova, mio amicissimo, insieme
con le cose del Tanzi pubblicate dal prefato Parini Mandan-
domi i Poemi del Parini, mandatemi anco quella Sera del poeta
bresciano [Mulinelli; Venezia, Colombani, 1762], buona o cattiva
che si sia, onde possa giudicare della differenza de' genj ,. (Di co-
desta Sera pseudopariniana diremo più in là ).
Da Londra, il 12 agosto 1778: " Tanto peggio se il Parini si lascia
ire alla pigrizia, e se non viene a darci dopo tant'anni la terza parte
del suo Poema. Intanto ch'egli è giovane dovrebbe puf adoperare
quel suo cervello e far onore alla patria ed a se stesso „,
120 IL GIORNO.
E il 12 marzo 1784: ' Se volete mandarmi libro alcuno, manda-
temi la Sera del Parini, caso eh' e' l'abbia finalmente pul)blicata.
Quantunque la disgrazia voglia che sia in verso sciolto, pure vorrei
averla, come ho il Mattino e il Mezzodì, perchè ogni verso del
Parini è buono, e alla lingua egli ha saputo dare de' nuovi
colori molto vivi e molto vaghi, e il suo pensare ha sempre del
brioso e del fiero. „ (Cfr. Scritti scelti ined. o rari, II, 28-9, 79, 106,
151, 294 e 321).
Particolari curiosi dei si dice che, intorno alla terza e quarta
parte del Giorno, corsero pure tra gl'intimi e ancora correvano
dopo la morte del poeta e prima della edizione del Reina, sono
accennati e in una lettera che la Duchessa Serbelloni scriveva
nel 1784 al figliuolo Gian Galeazzo che si trovava a Roma, e nelle
Lettere di due amici, raccolte e ristampate poi, nel 1802, a Milano,
dal Majnardi.
" Parini „, diceva la Duchessa nel bizzarro suo francese, " a été
tres charme du cas qu'on fait à Rome de lui; mais pour la Sera,
je doute fort qu'elle paraisse au public de son vivant, se voiant
si peu estimé par la Cour. lei il n'y a que le Prince Albani qui
décide en littérature, l'Arciduc ne s'en soucie, et Madame toutte
lice avec son consin ils ne considèrent que les ex ,. (Spinelli, Al-
cuni fogli sparsi del Parini, Milano, 1884, pag. 14). Per gli ex son da
intendere i gesuiti; tra cui il Rondi, autore d'un poemetto sulla
Moda, e il Morcelli, noto pel suo libro Ialino intorno allo stile delle
iscrizioni, che dedicarono appunto al principe Carlo Albani, cugino
dell'Arciduchessa per parte della madre. (Cfr. Cauducci, Storia del
Giorno, p. 229-30).
1/avv. Luigi Rramieri piacentino scriveva, il 7 settembre 1799, "al
chiarissimo Padre Don Pompilio Pozzetti, e. r. delle Scuole Pie,
Ribliot. in Modena „ (pag. 9 ss.) : " Di compier codesto suo mirabil
Poema era desiderosissimo egli stesso, e vi si occupava continua-
mente ; ma una folla di avverse circostanze si è attraversata all'a-
dempimento di sì bello ed universal desiderio. Se il Mattino e il
Mezzogiorno avevan potuto fornire tante, tutte leggiadre e sì ben
variate situazioni ed aspetti, in cui è presentato il giovin signore
di moda. . . . , a quanto più non doveano dar luogo il Vèspero e la
Sera, altre due parti in cui diviso aveva l'autore il suo Giorno,
se deggio prestar fede, né saprei negarla, ad un cortesissimo e
dottissimo amico del Parini e mio, che, pregato, mi fu gentile di
molti dettagli? Già da più lustri era a finimento condotta una
quantità di grazìosissime dipinture, nelle quali prendeva l'ammae-
strato a un tempo e celebrato eroe moltiplici, opportune, ben di-
segnate e vivamente colorite attitudini, né altro quasi mancava
che le pareti, per dir così, a cui si appendessero per formarne
una amenissima galleria. Mentre però si accingeva ad ordinarle e
coUcgarle insieme con transizioni e nodi, onde ne risultasse un
tutto pieno di vaghezze e di armonia, eccoti che la sempre can-
giante moda, le varie sociali ridicolosaggini, solite a collidersi di
continuo e a dissiparsi vicendevolmente, rendevano inutile, perchè
IL GIORNO. 121
meii vera da un mese all'altro, or questa or quella dipintura, e
poco nien che vana la fatica del Dipintore Oltre ciò, dal darvi
l'ultima mano si ha ragion di credere che ritenuto fosse il Parini
da due fortissime ragioni. L'una si fu il giusto timore d'increscere
a taluno, cui la pubblica malignità , sempre intenta ad ingiuriose
applicazioni non prevedute e noti sognate mai né dal comico né
dal satirico poeta, indicava qual eroe del poema, e che, se avesse
per disavventura quelle indegne voci ascoltate, prenderne poteva
ben aspra e facii vendetta. L'altra derivar si deve dalla sua somma
cagionevolezza, dalla diminuzion notabile di forze fisiche, a cui
soggiaceva già da molt'anni il Parini, forze mal rispondenti alla
energia ed al coraggio dell'animo, e che però non gli consentivano
di sostenere un lungo lavoro „.
Il Pozzetti narrava, meglio informato e con maggiore schiettezza
di sentimento, in una lettera di risposta, datata da Modena, il
18 maggio 1801 (pag. 46 ss.) : " Debbo richiamar di nuovo sull'au-
tore la vostra attenzione. E ben volentieri, perché quanto son per
esporvi onora il candore e la dignità del suo moral carattere.
Parlo del motivo presente, dal quale ei protestava d'esser rimosso
dal porre in ordine la Sera per divolgarla. A me dunque, che il
pregava ad arrendersi al voto comune, togliendo dall'avaro scrigno
quell'auree carte per donarle all'Italia bramosa, replicò risoluta-
mente: sé aver cominciato fin dal decimo quarto giorno di maggio
dell'anno mille settecento novanta sei a riguardare qual pretta
viltà , niente men turpe che Vinsaevire in mortuuni, l'acconsentir,
dopo tanto procrastinare, all'edizion d'uno scritto, ove si pungono
di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale for-
mavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti soprag-
giunti alloia nel proprio paese faccan veder manifesta la total
decadenza. Di si luminose prove, che palesano l'integrità d'un'anima
pura e dilicata, giova conservar la memoria nei fasti dei letterati,
aftìne di purgarli il maglio possibile dalle tacce opposte, a cui
non senza disdoro dell'eccelsa lor professione vanno essi talvolta
soggetti „.
IL MATTINO
POEMETTO
ALLA MODA
Lungi da queste carte i cisposi occhj già da un secolo rintuz-
zali, lungi i fluidi nasi de' malinconici vegliardi. Qui non si tratta
di gravi miuisterj nella patria esercitati, non di severe leggi, non
di annojante domestica economia, misero appannaggio della ca-
nuta età . A te, vezzosissima Dea, die con sì dolci redine oggi tem-
peri e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo
Libretto si dedica e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume
oggi mai non riverisca ed onori, poiché in sì breve tempo se' giunta
a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso, e l'Ordine
seccagginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi
lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere
sotto alla tua protezione, che forse non n'è indegno, questo pic-
colo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentili Dame
e gli amabili Garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore.
Di ((uesto solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e con-
tento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile
rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi
specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira all'immor-
talità , come altri libri, troppo lusingati da' loro Autori, che tu, re-
pentinamente sopravvenendo, hai sepelliti nell'oblio. Siccome egli
è per te nato, e consagrato a le sola, così fie pago di vivere quel
solo momento che tu ti mostri sotto un medesimo aspalto, e pensi
a cangiarti e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di
riguardare con placid'occhio questo Mattino, forse gli succede-
ranno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro Autore si studierà di
comporli ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad
esserti cari.
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d'amabil Rito ascolta.
Come ingannar questi nojosi e lenti
Giorni di vita cui si lungo tedio
E fastidio insoffribile accompagna,
Or io t'insegnerò. Quali al Mattino, ,
Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo a gli ozj tuoi ozio ti resta
Pur di tender gli orecchi a' versi miei.
Già Tare a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albione
Devotamente hai visitate, e porti
Pur anco i segni del tuo zelo impressi:
Ora è tempo di posa. In vano Marte
A sé t'invita; che ben folle è quegli
Che a rischio de la vita onor si merca,
E tu naturalmente il sangue abborri.
Né i mesti de la dea Pallade studj
Ti son meno odiosi: avverso ad essi
Ti feron troppo i queruli ricinti,
Ove l'arti migliori e le scienze.
Cangiate in mostri e in vane orride larve,
Fan le capaci volte echeggiar sempre
Di giovanili strida. Or primamente
126 IL GIORNO (v. 31-70).
Odi quali il Mattino a te soavi
Cure debba guidar con facil mano.
Sorge il Mattino in compagnia dell'Alba
Innanzi al Sol, che di poi grande appare
Su Testremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e Tonde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel sposa e i minori
Suoi figlioletti intiepidir la notte;
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovar Cerere e Pale,
Va, col bue lento innanzi, al campo, e scuote
Lungo il picciol sentier da' curvi rami
Il rugiadoso umor che, quasi gemma,
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all'opre torna
L'altro di non perfette: o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni airinquieto
Ricco l'arche assecura, o se d'argento
E d'oro incider vuol giojelli e vasi
Per ornamento a nuove spose o a mense.
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin ! Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell'incerto crepuscolo non gisti
Jori a corcarti in male agiate piume ,
Come dannato è a far l'umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi, concilio
Di Semidei terreni, altro concesse
Giove benigno; e con altr'arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie e le canore scene
E il patetico gioco, oltre più assai
Producesti la notte; e stanco alfine,
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote e il calpestio
Di volanti corsier, lunge agitasti
IL MATTINO (V. 71-110). 127
Il queto aere notturno, e le tenèbre
Con fiaccole superbe intorno apristi:
Siccome allor che il Siculo terreno
Dall'uno all'altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie. anguicrinite.
Cosi tornasti a la magion; ma quivi
A novi studj ti attendea la mensa
Cui ricoprien pruriginosi cibi
E licor lieti di Francesi colli
O d'Ispani o di Toschi, o TOngarese
Bottiglia a cui di verde edera Bacco
Concedette corona, e disse: siedi
De le mense reina. Alfine il Sonno
Ti sprimacciò le morbide coltrici
Di propria mano, ove, te accolto, il fido
Servo calò le seriche cortine;
E a te soavemente i lumi chiuse
Il gallo che li suole aprire altrui.
Dritto è perciò che a te gli stanchi sensi
Non sciolga da* papaveri tenaci
Morfèo, prima che già grande il giorno
Tenti di penetrar fra gli spiragli
De le dorate imposte, e la parete
Fingano a stento in alcun lato i raggi
Del Sol ch'eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
Denno aver del tuo giorno ; e quinci io debbo
Sciorre il mio legno, e co' precetti miei
Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udir lo squillo
Del vicino metal cui da lontano
Scosse tua man col propagato moto;
E accorser pronti a spalancar gli opposti
Schermi a la luce, e rigidi osserverò
Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi.
Èrgiti or tu alcun poco, e si ti appoggia
Alli origlieri i quai lenti gradando
All'omero ti fan molle soste£:no.
128 IL GIORNO (v. 111-150).
Poi coirindice destro, lieve lieve
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
E de' labbri formando un picciol arco,
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Oh se te in si gentile atto mirasse
11 duro capitan qualor tra Tarmi,
Sgangherando le labbra, innalza un grido
Lacerator di ben costrutti orecchi,
Onde a le squadre varj moti impone;
Se te mirasse allor, certo vergogna
Avria di sé, più che Minerva il giorno
Che, di flauto sonando, al fonte scorse
Il turpe aspetto de le guance enfiate!
Ma già il ben pettinato entrar di nuovo
Tuo damigello i' veggo. Egli a te chiede
Quale oggi più de le bevande usate
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza.
Indiche merci son tazze e bevande:
Scegli qual più desii. S'oggi ti giova
Porger dolci allo stomaco fomenti,
Si che con legge il naturai calore
V'arda temprato, e al digerir ti vaglia^
Scegli il brun cioccolatte onde tributo
Ti dà il Guatimalese e il Garibéo
dia di barbare penne avvolto il crine;
Ma se nojosa ipocondria t'opprime,
O troppo intorno a le vezzose membra
Adipe cresce, de' tuoi labbri onora
La nettarea bevanda ove abbronzato
Fuma et arde il legume a te d'Aleppo
Giunto e da Moca, che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.
Gcrto fu d'uopo che dal prisco seggio
Uscisse un Regno, e con ardite vele
Fra straniere procelle e novi mostri
E teme e rischi ed inumane fami
Superasse i con fin per lunga etade
Inviolati ancora; e ben fu dritto
Se Cortes e Pizzarro umano sangue
IL MATTINO (v. 151-176). 129
Non istimà r quel ch'oltre TOceà no
Scorrea le umane membra, onde tonando
E fulminando alfin spietatamente
Balzaron giù da* loro aviti troni
Re Messicani e generosi Incassi:
Poiché nuove cosi venner delizie,
O gemma de gli eroi, al tuo palato.
Gessi '1 Cielo però che, in quel momento
Che la scelta bevanda a sorbir prendi,
Servo indiscreto a te improvviso annunzj
Il villano sartor che, non ben pago
D'aver teco diviso i ricchi drappi,
Oso sia ancor con pòlizza infinita *
A te chieder mercede. Ahimè, che fatto
Quel salutar licore agro e indigesto
Tra le viscere tue, te allor farebbe
E in casa e fuori e nel teatro e al corso
Ruttar plebejamente il giorno intero I
Ma non attenda già ch'altri lo annunzj,
Gradito ognor benché improvviso, il dolce
Mastro che i piedi tuoi come a lui pare
Guida e corregge. Egli all'entrar si fermi
Ritto sul limitare, indi elevando
Ambe le spalle, qual testudo il collo
Contragga alquanto ; e ad un medesmo tempo
Inchini '1 mento, e con l'estrema falda
* Nei manoscritti continua cosi: " Fastidirti la mente; o di lugubri
Panni ravvolto il garrulo forense Cui de' paterni tuoi campi e
tesori 11 periglio s'affida [si affida]', o il tuo castaido Che giù
con l'alba a la città discese Bianco di gelo mattutin la chioma.
Cosi zotica pompa i tuoi maggiori Al di nascente si vedean din-
torno : Ma tu, gran prole, in cui si féo scendendo E più mo-
bile il senso e più gentile, Ali [Deh] sul primo tornar de' lievi
spirti All'ufficio diurno, ali [All'ufficio del di, deh] non ferirli
13 immagini sì sconce. Or come i detti Di costor soffrirai bar-
bari e rudi; Come il penoso articolar di voci. Smarrite, titu-
banti al tuo cospetto; E tra l'obliquo profondar d'inchini, Del
calzar polveroso in su i tappeti Le impresse orme indecenti?... „
Ovvero: "Or come i detti, Come il penoso articolar di voci
Smarrite titubanti al tuo cospetto; E tra l'obliquo profondar
d' inchini, Del calzar polveroso in su i tappeti Le impresse
orme .:gtgftr jjre? Ahimè, che fatto.... ,
130 IL GIORNO (v. 177-210).
Del piumato cappello il labbro tocchi.
Non meno di costui facile al letto
Del mio Signor t'accosta, o tu che addestri
A modular con la flessibil voce
Teneri canti, e tu che mostri altrui
Come vibrar con maestrevol arco
Sul cavo legno armoniose fila.
Nò la squisita a terminar corona
Dintorno al letto tuo manchi, o Signore,
Il precettor del tenero idioma
Che da la Senna de le Grazie madre
Or ora a sparger di celeste ambrosia
Venne a Tltalia nauseata i labbri.
A rapparir di lui l'Itale voci
Tronche cedano il campo al lor tiranno;
E a la nova ineffabile armonia
De' soprumani accenti, odio ti nasca
Più grande in sen contro a le impure labbra
Gh'osan macchiarse ancor di quel sermone
Onde in Valchiusa fu lodata e pianta
Già la bella Francese, et onde i campi
A l'orecchio dei Re cantati furo
'Lungo il fonte gentil da le bell'acque.' *
Misere labbra che temprar non sanno
Con le Galliche grazie il sermon nostro.
Si che men aspro a' dilicati spirti
E men barbaro suon fieda gli orecchi!
Or te questa, o Signor, leggiadra schiera
Trattenga al novo giorno, e di tue voglie
Irresolute ancora or l'uno or Taltro
Con piacevoli detti il vano occupi.
Mentre tu chiedi lor, tra i lenti sorsi
Dell'ardente bevanda, a qual cantore
Nel vicin verno si darà la palma
* Alamanni, Coltivazione, e. V, v. 19. Cfr. Parini, Op., VI, 205:
" Ma Luigi Alamanni, scrittore di cose liriche, di satire, di tragedie
e di poemi, merita spezialmente d'essere studiato come uno degli
ottimi. 11 suo poema della Coltivazione è testo insieme della lingua,
della poesia e della letteratura itaUana, ed una delle opere che è
vergogna di non aver mai letto „.
IL MATTINO (V. 211-250). 131
Sopra le scene; e s'egli è il ver che rieda
L'astuta Frine che ben cento folli
Milordi rimandò nudi al Tamigi;
O se il brillante danzator Narcisso
Tornerà pure ad agghiacciare i petti
De' palpitanti Italici mariti.
Poiché cosi gran pezzo a' primi albori
Del tuo mattin teco scherzato fia,
Non senz'aver licenziato prima
L'ipocrita pudore e quella schifa
Cui le accigliate gelide matrone
Ghiaman modestia, alfine o a lor talento
O da te congedati escan costoro.
Doman si potrà poscia, o forse l'altro
Giorno, a' precetti lor porgere orecchio,
Se meno ch'oggi a te cure dintorno
Porranno assedio. A voi, divina schiatta,
Vie più che a noi mortali il ciel concesse
Domabile midollo entro al cerébro,
Si che breve lavor basta a stamparvi
Novelle idee. In oltre a voi fu dato
Tal de' sensi e de' nervi e de gli spirti
Moto e struttura, che ad un tempo mille
Penetrar puote e concepir vostr'alma
Cose diverse, e non però turbarle
O confonder giammai, ma scevre e chiare
Ne' loro alberghi ricovrarle in mente.
11 vulgo intanto, a cui non dessi il velo
Aprir de' venerabili misterj,
Fie pago assai, poi che vedrà sovente
Ire e tornar dal tuo palagio i primi
D'arte maestri, e con aperte fauci
Stupefatto berrà le tue sentenze.
Ma già vegg'io che le oziose lane
Soffrir non puoi più lungamente, e in vano
Te Tignavo tepor lusinga e molce,
Però che or te più gloriosi affanni
Aspettan, l'ore a trapassar del giorno.
Su dunque, o voi del primo ordine servi
' Che de gli alti Signor ministri al fianco
132 IL GIORNO (v. 251-290).
Siete incontaminati, or dunque voi
Al mio divino Achille, al mio Rinaldo,
L'armi apprestate. Ed ecco in un baleno
1 tuoi valetti a' cenni tuoi star pronti.
Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste
La serica zimarra ove disegno
Diramasi Ghinese, altri, se il chiede
Più la stagione, a te le membra copre
Di stese infino al pie tiepide pelli;
Questi al fianco ti adatta il bianco lino
Che sciorinato poi cada e difenda
I calzonetti, e quei, d'alto curvando
II cristallino rostro, in su le mani
Ti versa acque odorate, e da le mani
In limpido bacin sotto le accoglie ;
Quale il sapon del redivivo muschio
Olezzante all'intorno, e qual ti porge
Il macinato di quellarbor frutto
Che a Ròdope fu già vaga donzella,
E chiama in van, sotto mutate spoglie,
Demofoonte ancor, Demofoonte;
L'un di soavi essenze intrisa spugna
Onde tergere i denti, e l'altro appresta
Ad imbianchir le guance util licore.
Assai pensasti a te medesmo; or volgi
Le tue cure per poco ad altro obbietto
Non indegno di le. Sai che compagna
Gon cui divider possa il lungo peso
Di quest'inerte vita il Giel destina
Al giovane Signore. Impallidisci?
No, non parlo di nozze: antiquo e vieto
Dottor sarei se cosi folle io dessi
A te consiglio. Di tant'alte doti
Tu non orni cosi lo spirto e i membri
Perclìè in mezzo a la tua nobil carriera
Sospender debbi 'l corso, e fuora uscendo
Di cotesto a ragion detto Bel Mondo^
In tra i severi di famiglia padri
Relegato ti giacci, a un nodo avvinto
Di giorno in giorno più penoso, e fatto
IL MATTINO (v. 291-330). 133
stallone ignobil de la razza umana.
D'altra parte il Marito ahi quanto spiace;
E lo stomaco move ai dilicati
Del vosir Orbe leggiadro abitatori
Qualor de' semplicetti à voli nostri
Portar osa in ridicolo trionfo
La rimbambita Fe\ la Pudicizia,
Severi nomi! E qual non suole a forza
In que' melati seni eccitar bile,
Quando i calcoli vili del castaido,
Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
Di que' si dolci suoi bambini, altrui
Gongolando ricorda; e non vergogna
Di mischiar cotai fole a peregrini
Subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
Da volgar fren concetti, onde s'avviva
Da' begli spirti il vostro amabil Globo !
Péra dunque chi a te nozze consiglia!
Ma non però senza compagna andrai.
Che fìa giovane dama, e d'altrui sposa:
Poiché si vuole inviolabil rito
Del Bel Mondo onde tu se' cittadino.
Tempo già fu che il pargoletto Amore
Dato era in guardia al suo fratello Imene;
Poiché la madre lor temea che il cieco
Incauto Nume perigliando gisse
Misero e solo per oblique vie,
E che, bersaglio agl'indiscreti colpi
Di senza guida e senza freno arciero,
Troppo immaturo al fin corresse il seme
Uman ch'é nato a dominar la terra.
Perciò la prole mal secura all'altra
In cura dato avea, si lor dicendo:
Ite, o figli, del par: tu, più possente.
Il dardo scocca ; e tu, più cauto, il guida
A certa méta. Cosi ognor compagna
Iva la dolce coppia, e in un sol regno
E d'un nodo comun l'alme stringea.
Allora fu che il Sol mai sempre uniti
Vedea un pastore ed una pastorella
134 IL GIORNO (v. 331-370).
Starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
E la Suora di lui vedéali poi
Uniti ancor nel talamo beato,
Ch'ambo gli amici Numi a piene mani
Gareggiando spargean di gigli e rose.
Ma che non puote anco in divino petto,
Se mai s'accende, ambizion di regno ?
Grebber l'ali ad Amore a poco a poco,
E la forza con esse; ed è la forza
Unica e sola del regnar maestra.
Perciò a poc'aere prima, indi più ardito
A vie maggior fìdossi, e fiero alfine
Entrò nell'alto, e il grande arco crollando
E il capo, risonar fece a quel moto
Il duro acciar che la faretra a tergo
Gli empie, e gridò: Solo regnar vogl'io !
Disse, e volto a la madre: Amore adunque.
Il più possente infra gli Dei, il primo
Di Gite rèa figli uol, ricever leggi,
E dal minor german ricever leggi.
Vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
Non oserà fuor ch'una unica volta
Ferire un'alma, come questo schifo
Da me vorrebbe? E non potrò giammai,
Dappoi ch'io strinsi un laccio, anco slegarlo
A mio talento, e qualor parmi un altro
Stringerne ancora? E lascerò pur ch'egli
Di suoi unguenti impeci a me i miei dardi.
Perchè men velenosi e men crudeli
Scendano ai petti ? Or via, perché non togli
A me da le mie man quest'arco e queste
Armi da le mie spalle, e ignudo lasci.
Quasi rifiuto de gli Dei, Cupido?
Oh il bel viver che fia qualor tu solo
Regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso!
Studiarti a torre da le languid'alme
La stanchezza e '1 fastidio, e spander gelo
Di foco in vece! Or, genitrice, intendi:
Vaglio, e vo' regnar solo! A tuo piacere
Tra noi parti l'impero, ond'io con teco
IL MATTINO (v. 371-410). 135
Abbia ornai pace, e in compagnia d'Imene
Me non trovin mai più le umane genti.
Qui tacque Amore, e minaccioso in atto.
Parve all'Idalia Dea chieder risposta.
Ella tenta placarlo, e pianti e preghi
Sparge, ma in vano; onde a* due tìgli volta.
Con questo dir pose al contender fine:
Poiché nulla tra voi pace esser puote,
Si dividano i regni. E perchè l'uno
Sia dall'altro germano ognor disgiunto,
Sieno tra voi diversi e '1 tempo e l'opra.
Tu che di strali altero a fren non cedi,
L'alme ferisci, e tutto il giorno impera;
E tu che di fior placidi hai corona,
Le salme accoppia, e coU'ardente face
Regna la notte. — Ora di qui, Signore,
Venne il rito gentil che a' freddi sposi
Le tenebre concede, e de le spose
Le caste membra; e a voi, beata gente
Di più nobile mondo, il cor di queste
E il dominio del di largo destina.
Fors'anco un di più liberal confine
Vostri diritti avran, se Amor più forte
Qualche provincia al suo germano usurpa:
Cosi giova sperar! •— Tu volgi intanto
A' miei versi l'orecchio, et odi or quale
Cura al mattin tu debbi aver di lei
Che, spontanea o pregata, a te donossi
Per tua Dama quel di lieto che a fida
Carta, non senza testimonj, furo
A vicenda commessi i patti santi
E le condizion del caro nodo.
Già la Dama gentil, de' cui bei lacci
Godi avvinto sembrar, le chiare luci
Col novo giorno aperse; e suo primiero
Pensier fu dove teco abbia piuttosto
A vegliar questa sera, e consultonne
Contegnosa lo sposo, il qual pur dianzi
Fu la mano a baciarle in stanza ammesso.
Or dunque è tempo che il più fido servo
136 IL GIORNO (v. 411-450).
E il più accorto tra i tuoi mandi al palagio
Di lei chiedendo se tranquilli sonni
Bormio la notte, e se d'imagin liete
Le fu Morfèo cortese. È ver che jeri
Sera tu Tammirasti in viso tinta
Di freschissime rose, e più che mai
Vivace e lieta uscio teco del cocchio,
E la vigile tua mano per vezzo
Ricusò sorridendo allor che l'ampie
Scale sali del maritale albergo;
Ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
Non obliar si giusti ufìci. Ahi quanti
Genj malvagi tra '1 notturno orrore
Godono uscire ed empier di perigli
La placida quiete de' mortali!
Potria, tòlgalo il Cielo, il picciol cane
Con latrati improvvisi i cari sogni
Troncare a la tua Dama, ond'ella, scossa
Da subito capriccio, a rannicchiarsi
Astretta fosse, di sudor gelato
E la fronte bagnando e il guancial molle.
Anco potria colui, che si de' tristi
Come de' lieti sogni é genitore,
Crearle in mente di diverse idee
In un congiunte orribile chimera.
Onde agitata in ansioso affanno
Gridar tentasse, e non però potesse
Aprire ai gridi tra le fauci il varco.
Sovente ancor ne la trascorsa sera
La perduta tra '1 gioco aurea moneta,
Non men che al Cavalier, suole a la Dama
Lunga vigilia cagionar; talora
Nobile invidia de la bella amica
Vagheggiata da molti, e talor breve
Gelosia n'é cagione. A questo aggiugni
Gl'importuni mariti, i quali in mente
Ravvolgendosi ancor le viete usanze.
Poi che cèssero ad altri il giorno, quasi
Abbian fatto gran cosa, aman d'Imene
Con superstizion serbare i dritti,
IL MATTINO (v. 451-474). 137
E deiro rubre notturne esser tiranni
Non senz'affanno de le caste spose,
Gii'indi preveggon tra pochi anni il fiore
De la fresca beltade a sé rapirsi.
Or dunque, ammaestrato a quali e quanti
Miseri casi espor soglia il notturno
Orror le Dame, tu non esser lento,
Signore, a chieder de la tua novelle.
Mentre che il fido messaggier si attende,
Magnanimo Signor, tu non starai
Ozioso però. Nel dolce campo
Pur in questo momento il buon cultore
Suda, e incallisce al vòmere la mano.
Lieto che i suoi sudor ti fruttin poi
Dorati cocchi e peregrine mense.
Ora per te l'industre artier sta fiso
Allo scarpello, all'asce, al subbio, all'ago;
Ed ora a tuo favor contende o veglia
Il ministro di Temi. Ecco, te pure.
Te la toilette attende: ivi i bei pregi
De la natura accrescerai con l'arte,
Ond'oggi, uscendo, del beante aspetto
Beneficar potrai le genti, e grato
Ricompensar di sue fatiche il mondo. *
* Brano aggiunto nei manoscriUi: " Ogni cosa è già pronta. Ali un
de' lati Crepitar s'odon le fiammanti brage Ove si scalda in-
dustrioso e vario Di ferri arnese a moderar del fronte Gl'in-
docili capei. Stuolo d'Amori Invisibil sul foco agita i vanni, E
per entro vi soffia alto gonfiando Ambe le gote. Altri di lor v'ap-
pressa Pauroso la destra, e prestamente Ne rapisce un de'
ferri; altri rapito Tenta com'arda, in su l'estrema cima So-
spendendol dell'ala; e cauto attende Pur se la piuma si con-
tragga o fumé; Altri un altro ne scote, e de le ceneri Filiggi-
nose il ripulisce e terge. Tali a le vampe dell'Etnèa fucina, Sor-
ridente la madre, i vaghi Amori Eran ministri all'ingegnoso
fabbro; E sotto a i colpi del martel frattanto L'elmo sorgea
del fondalor Latino. All'altro lato con la man rosata [le man
rosate] Como, e di fiori inghirlandato il crine [i7 capo], I bissi
scopre ove d'idalj arredi Almo tesor la tavoletta espone. Ivi e
nappi eleganti e di canori Cigni morbide piume; ivi raccolti
Di lucide odorate onde vapori; Ivi di polvi fuggitive al tatto.
Color diversi ad imitar d'Apollo [Color diversi, o se imitar nel
1:38 IL GIORNO (v. 475-409).
Ma già tre volte e quattro il mio Signore
Velocemente il gabinetto scorse
Gol crin disciolto e su gli omeri sparso:
Quale a Guma solea Torribil maga
Quando agitata dal possente Nume
Vaticinar s'udia. Cosi dal capo
Evaporar lasciò de gli olj sparsi
Il nocivo fermento e de le polvi
Glie roder gli potrien la molle cute,
O d'atroce emicrania a lui le tempie
Trafigger anco. Or egli avvolto in lino
Gandido siede. Avanti a lui lo specchio
Altero sembra di raccor nel seno
L'imagin diva; e stassi agli occhi suoi
Severo esplorator de la tua mano,
O di bel crin volubile architetto.
Mille d'intorno a lui volano odori
Ghe a le varie manteche ama rapire
L'auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo
Le leggerissim'ale di farfalla.
Tu chiedi in prima a lui qual più gli aggrada
Sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo
Fior d'arancio piuttosto, o la giunchiglia,
O l'ambra preziosa agli avi nostri.
Ma se la sposa altrui, cara al Signore,
crine D' Apolline tu vuoi l'aurato biondo, O il biondo cenerin che
de le Muse Scende a le spalle tenero e gentile.... Color diversi, o
se l'aurato biondo Ami d'Apollo, o se il cinereo biondo Vuoi de
le Muse assomigliar nel crine.] L'aurato biondo o il biondo cene-
rino Glie de le sacre Muse in su le spalle Casca ondeggiando
tenero e gentile. Che se a nobile eroe le fresche labbra [Che se
stamane a te le fresche labbra.... E se fia mai che a te le fresche
labbra] Repentino spirar di rigid'aura Offese [O/fenda] alquanto,
v'è stemprato il seme De la fredda cucurbita; e se mai Palli-
detto ei [Pallidetto ti scorgi] si scorga, è pronto aU'uopo, Arcano
a gli altri eroi, vago cinabro. Né quando a un semideo spuntar
sul volto [xVè quando al naso tuo spuntare, o al fronte] Pìlstula
temeraria osa pur fosse. Multiforme di nei copia vi manca, On-
d'ei Tasconda [Onde la celi] in sul momento, ed esca Più peri-
glioso a saettar co i guardi Le belle inavvedute : a guerrier pari
Che, già poste le bende a la ferita. Più glorioso e furibondo in-
sieme. Sbaragliando le schiere, entra nel folto. ,
IL MATTINO (v. 500-539). 139
Del talamo nuzial si duole, e scosse
Pur or da lungo peso il molle lombo,
Ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi;
Che micidial potresti a un sol momento
Tre vite insidiar. Semplici sieno
I tuoi balsami allor, né oprarli ardisci
Pria che su lor deciso abbian le nari
Del mio Signore e tuo. Pon mano poscia
Al pettin liscio, e coU'ottuso dente
Lieve solca i capegli; indi li turba
Gol pettine e scompiglia: ordin leggiadro
Abbiano alfin da la tua mente industre.
Io breve a te parlai; ma non pertanto
Lunga fia l'opra tua; né al termin giunta
Prima sarà , che da più strani eventi
Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi
Non di rado il Signor morder le labbra
Impaziente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor, se artificiosa meno
Fia la tua destra, del convulso piede
Udrai lo scalpitar breve e frequente,
Non senza un tronco articolar di voce
Che condanni e minacci. Anco t'aspetta
Veder talvolta il mio Signor gentile
Furiando agitarsi, e destra e manca
Porsi nel crine, e scompigliar con l'ugna
Lo studio di molt'ore in un momento.
Che più ? Se per tuo male un di vaghezza
D'accordar ti prendesse al suo sembiante
L'edificio del capo, ed obliassi
Di prender legge da colui che giunse
Pur jer di Francia, ahi quale atroce folgore.
Meschino! allor ti penderla sul capo!
Che il tuo Signor vedresti ergers' in piedi;
E versando per gli occhi ira e dispetto.
Mille strazj imprecarti; e scender fino
Ad usurpar le infami voci al vulgo
Per farti onta maggiore; e di bastone
II tergo minacciarti; e violento
140 IL GIORNO (v. 540-579).
Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
Rotti cristalli e calamistri e vasi
E pettini ad un tempo. In cotal guisa,
Se del Tonante all'ara o de la Dea
Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo,
Tauro spezzava i raddoppiati nodi
E libero fuggia, vedeansi al suolo
Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
Litui, coltelli, e d'orridi muggiti
Commosse rimbombar le arcate volte,
E d'ogni lato astanti e sacerdoti,
Pallidi, all'urto e all'impeto involarsi
Del feroce animai, che pria si queto
Già di fior cinto, e sotto a la man sacra
Umiliava le dorate corna.
Tu non pertanto coraggioso e forte
Soffri, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia é il foco d'ira
In nobil cor. Tosto il Signor vedrai
Mansuefatto a te chieder perdono,
E sollevarti oltr'ogni altro mortale
Con preghi e scuse a niun altro concesse;
Onde securo sacerdote allora
L'immolerai qual vittima a Filauzìo,
Sommo Nume de' Grandi, e pria d'ognaltro
Larga otterrai del tuo lavor mercede.
Or, Signore, a te riedo. Ah non sia colpa
Dinanzi a te s'io traviai col verso.
Breve parlando ad un mortai cui degni
Tu degli arcani tuoi. Sai che a sua voglia
Questi ogni di volge e governa i capi
De' più felici spirti; e le matrone,
Che da' sublimi cocchi alto disdegnano
Volgere il guardo a la pedestre turba,
Non disdegnan sovente entrar con lui
In festevoli motti, allor ch'esposti
A la sua man sono i ridenti avorj
Del bel collo, e del crin l'aureo volume.
Perciò accogli, ti prego, i versi miei
Tuttor benigno; et odi or come possi
IL MATTINO (v. 580-614). 141
L'ore a te render graziose, mentre
Dal pettin creator tua chioma acquista
Leggiadra o almen non più veduta forma.
Picciol libro elegante a te dinanzi
Tra gli arnesi vedrai che Parte aduna
Per disputare a la natura il vanto
Del renderti si caro agli occhi altrui.
Ei ti lusingherà forse con liscia
Purpurea pelle, onde fornito avrallo
O Mauri tano conciatore o Siro;
E d'oro fregi dilicati, e vago
Mutabile color che il collo imiti
De la colomba, v'avrà posto intorno
Squisito legator Batavo o Franco. *
Ora il libro gentil con lenta mano
Togli; e non senza sbadigliare un poco,
Aprilo a caso, o pur là dove il parta
Tra una pagina e l'altra indice nastro.
O de la Francia Proteo multiforme,
Voltaire^ troppo biasmato e troppo a torto
Lodato ancor, che sai con novi modi
Imbandir ne' tuoi scritti eterno cibo
Ai semplici palati, e se' maestro
Di coloro che mostran di sapere, **
Tu appresta al mio Signor leggiadri studj
Con quella tua Fanciulla agli Angli infesta
Che il grande Enrico tuo vince d'assai:
L'Enrico tuo che non peranco abbatte
L'Itallan Goffredo, ardito scoglio
Contro a la Senna d'ogni vanto altera.
Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
Celebrata Ninon novella Aspasia,
Taide novella ai facili sapienti
De la Gallica Atene, i tuoi precetti
Pur dona al mio Signore; e a lui non meno
* Nei manoscriUi prosegue: * E forse incisa con venereo stile Vi
fia serie d'iniaginì interposta, Lavor che vince la materia, e donde
Fia che nel cor ti si ridesti e viva La stanca di piaceri ottusa
voglia. ,
** Cfr. Mezzogiorno, v. 940 ss.
142 IL GIORNO (v. 615-647).
Pasci la nobil mente, o tu cli'a Italia,
Poi che rapirle i tuoi l'oro e le gemme,
Invidiasti il fedo loto ancora
Onde macchiato è il Certaldese, e Taltro
Per cui va si famoso il pazzo Conte. *
Questi, Signore, i tuoi studiati autori
Fieno, e mill'altri che guidà ro in Francia
A novellar con le vezzose schiave
I bendati Sultani, i regi Persi,
E le peregrinanti Arabe dame,
O che con penna liberale ai cani
Ragion donà ro e ai barbari sedili,
E dier feste e conviti e liete scene
Ai polli ed a le gru d'amor maestre. **
Oh pascol degno d'anima sublime!
Oh chiara, oh nobil mente! A te ben dritto
È che si curvi riverente il vulgo,
E gli oracoli attenda. Or chi fia dunque
Si temerario che in suo cor ti beffi
Qualor partendo da si begli studj
Del tuo paese l'ignoranza accusi,
E tenti aprir col tuo felice raggio
La Gotica caligine che annosa
Siede su gli occhi a le misere genti?
Cosi non mai ti venga estranea cura
Questi a troncar si preziosi istanti
In cui non meno de la docil chioma
Coltivi ed orni il penetrante ingegno.
Non pertanto avverrà che tu sospenda
Quindi a pochi mo nienti i cari studj,
E che ad altro ti volga. A te quest'ora
Condurrà il Merciajuol, che in patria or torna
Pronto inventor di lusinghiere fole,
* Il La Fontainc rifece in versi alcune novelle del Decamerone,
e tre ne desunse dall'Or/ando Furioso (e. 28 e 43) : la Joconde, la
Coupé enchantée, Le cliieii qui sécoue de l'argeiU et des pierreri^s.
(Cfr. B. CoTRONEi, La Fontaine e Ariosto, Catania, 1890).
'* Le Lettres Persanes (1721) del Montesquieu, le Leltres Turques
del Saìnt-Foìx (ni. 1776;, le 3fi7/e e una notte tradotte dal Galland
(1704-1717), il Sopha del Crébillon figlio (1745), ecc. ecc.
IL MATTINO (v. 648-687). 143
E liberal di forestieri nomi
A merci che non mai varcà ro i monti.
Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi ch'osi
Unqua mentire ad un tuo pari i)i faccia?
Ei fia che venda, se a te piace, o cambj
Mille fregi e giojelli, a cui la moda
Di viver concedette un giorno intero
Tra le folte d'inezie illustri tasche.
Poi lieto se n'andrà con l'una mano
Pesante di molt'oro; e in cor giojendo,
Spregerà le bestemmie imprecatrici,
E il gittato lavoro, e i vani passi
Del Galzolar diserto e del Drappiere;
E dirà lor: Ben degna pena avete,
O troppo ancor religiosi servi
De la Necessitade, antiqua é vero
Madre e donna dell'arti, or nondimeno
Fatta cenciosa e vile. Al suo possente
Amabil vincitor v'era assai meglio,
miseri, ubbidire. Il Lusso, il Lusso
Oggi sol puote dal ferace corno
Versar su l'arti a lui vassalle applausi
E non contesi mai premj e dovizie.
L'ora fia questa ancor che a te conduca
Il dilicato Miniator di Belle,
Gh'è de la Corte d'Amatunta e Pafo
Stipendiato ministro, atto a gli afTari
Sollecitar dell'amorosa Dea.
Impaziente or tu l'affretta e sprona
Perchè a te porga il desiato avorio
Che de le amate forme impresso ride:
O che il pennel cortese ivi dispieghi
L'alme sembianze del tuo viso, ond'abbia
Tacito pasco allor che te non vede
La pudica d'altrui sposa a te cara;
() che di lei medesma al vivo esprima
L'imagin vaga; o se ti piace, ancora
D'altra fiamma furtiva a te presenti
Con più largo confin le amiche membra.
Ma poi che al fine a le tue luci esposto
144 IL GIORNO (v. 688-727).
Fia il ritratto gentil, tu cauto osserva
Se bene il simulato al ver risponda,
Vie più rigido assai se il tuo sembiante
Esprimer denno i colorati punti
Che l'arte ivi dispose. Oh quante mende
Scorger tu vi saprai! Or brune troppo
A te parran le guance; or fia ch'ecceda
Mal frenata la bocca; or guai conviensi
Al camuso Etiope il naso fia.
Ti giovi ancora d'accusar sovente
Il dipintor che non atteggi industre
L'agili membra e il dignitoso busto,
O che con poca legge a la tua imago
Dia contorno, o la posi, o la panneggi.
È ver che tu del grande di Crotone
Non conosci la scuola, e mai tua mano
Non abbassossi a la volgar matita
Che fu nell'altra età cara a' tuoi pari.
Cui sconosciute ancora eran più dolci
E più nobili cure a te serbate.
Ma che non puote quel d'ogni precetto
Gusto trionfa tor che all'ordin vostro
In vece di maestro il Giel concesse,
Et onde a voi coniò le altere menti
Acciò che possan de' volgari ingegni
Oltre passar la paludosa nebbia,
E d'aere più puro abitatrici
Non fallibili scorre il vero e il bello?
Perciò qual più ti par loda, riprendi;
Non men fermo d'allor che a scranna siedi
Raffael giudicando, o l'altro eguale
Che del gran nome suo l'Adige onora,
E a le tavole ignote i noti nomi
Grave comparti di color che primi
Fur tra' pittori. Ah s'altri è si procace
Ch'osi rider di te, costui paventi
L'augusta maestà del tuo cospetto:
Si volga a la parete; e mentr'ei cerca
Por freno in van col morder de le labbra
Allo scrosciar de le importune risa
IL MATTINO (v» 728-767). 145
Che scoppiai! da' precordj, violenta
Convulsione a lui deformi il volto,
E lo affoghi aspra tosse, e lo punisca
Di sua temerità . Ma tu non pensa
Ch'altri ardisca di te rider giammai;
E mai sempre imperterrito decidi.
Or rimagin compiuta intanto serba
Perché in nobile arnese un di si chiuda
Con opposto cristallo, ove tu facci
Sovente paragon di tua beltade
Con la beltà de la tua Dama; o agli occhi
Degl'invidi la tolga, e in sen Tasconda,
Sagace tabacchiera; o a te riluca
Sul minor dito fra le gemme e Toro;
de le grazie del tuo viso desti
Soavi rimembranze al braccio avvolta
De la pudica altrui sposa a te cara.
Ma giunta é al fin del dotto pettin Topra.
Già il maestro elegante intorno spande
Da la man scossa un polveroso nembo
Onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.
D'orribil piato risonar studio
Già la Corte d'Amore. I tardi veglj
Grinzuti osar coi giovani nipoti
Contendere di grado in faccia al soglio
Del comune Signor. Rise la fresca
Gioventude animosa, e d'agri motti
Libera punse la senil baldanza.
Gran tumulto nascea; se non che Amore,
Ch'ogni diseguaglianza odia in sua Corte,
A spegner mosse i perigliosi sdegni.
E a quei che militando incanutirò
Suoi servi impose d'imitar con arte
1 duo bei fior che in giovenile gota
Educa e nutre di sua man Natura;
Indi fé' cenno, e in un balen fur visti
Mille alati ministri alto volando
Scoter le piume, e lieve indi fiocconne
Candida polve che a posar poi venne
Su le giovani chiome, e in bianco volse
10
146 IL GIORNO (v. 768-807).
Il biondo, il nero, e Tódìato rosso.
L'occhio cosi neiramorosa reggia
Più non distinse le due opposte etadi,
E solo vi restò giudice il Tatto.
Or tu adunque, o Signor, tu che se' il primo
Fregio ed onor dell'amoroso regno,
I sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
Pria da provvida man la bianca polve
In piccolo stanzin con Taere pugna,
E degli atomi suoi tutto riempie
Egualmente divisa. Or ti fa' core,
E in seno a quella vorticosa nebbia
Animoso ti avventa. Oh bravo, oh forte!
- Tale il grand'Avo tuo tra '1 fumo e T foco
Orribile di Marte, furiando,
Gittossi allor che i palpitanti Lari
De la patria difese, e ruppe e in fuga
-Mise Toste feroce. Ei non pertanto,
Fuligginoso il volto, e d'atro sangue
Asperso e di sudore, e co' capegli
Stracciali ed irti, da la mischia uscio,
Spettacol fero a' cittadini istessi
Per sua man salvi; ove tu, assai più dolce
E leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
Uscirai quindi a poco a bear gli occhi
De la cara tua Patria, a cui dell'Avo
II forte braccio e il viso almo celeste
Del Nipote dovean portar salute.
Ella ti attende impaziente, e mille
Anni le sembra il tuo tardar poc'ore.
È tempo omai che i tuoi valetti al dorso
Con lieve man li adattino le vesti,
Cui la Moda e '1 Buon Gusto in su la Senna
T'abbian tessute a gara, e qui cucite
Abbia ricco Sartor che in su lo scudo
Mostri intrecciato a forbici eleganti
Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi
A la materia la stagion diverse;
Ma sien qual si conviene al giorno e all'ora
Sempre varj il lavoro e la ricchezza.
IL MATTINO (v. 808-828). . 147
Fero Genio di Marte a guardar posto
De la stirpe de' Numi il caro fianco,
Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi,
Lieve e corta non già , ma, qual richiede
La stagion bellicosa, al suol cadente,
E di triplice taglio armata e d'elsa
Immane. Quanto esser può mai sublime
L'annoda pure, onde l'impugni all'uopo
La furibonda destra in un momento;
Né disdegnar con le sanguigne dita
Di ripulire ed ordinar quel nodo
Onde l'elsa è superba: industre studio
È di candida mano; al mio Signore
Dianzi donollo, e gliel appese al brando,
La pudica d'altrui sposa a lui cara.
Tal del famoso Artù vide la Corte
Le infiammate d'amor donzelle ardite
Ornar di piume e di purpuree fasce
I fatati guerrieri, onde più ardenti
Gisser poi questi ad incontrar periglio
In selve orrende, tra i giganti e i mostri. *
* Il Reina : " Questo tratto, dal verso Ella ti attende impaziente e
miUe [v. 796] fino al verso Figlie de la Memoria inclite Suore [v. 829j,
essendosi rifatto dall'autore, si dà intero, e vi si replicano anco i
versi intatti, per non cagionare confusione colla moltiplicità delle le-
zioni varie. — Non vedi ornai qual con solerte mano Rechin di
vesti a te pul)blico arredo I damigelli tuoi? Rodano e Senna Le
tesserono a gara; e qui cucille Opulento sartor, cui su lo scudo
Serpe intrecciato a forbici eleganti II titol di monsù. Né sol dÃ
leggi A la materia la stagion diverse, Ma <|ual più si conviene
al giorno e all'ora Varj sono il lavoro e la ricchezza. Vieni, o
fior de gli eroi, vieni; e qual suole Nel più dubbio de' casi alto
monarca Avanti al trono suo convocar lento Di sà trapi con-
cilio, a cui nell'ampia Calvizie de la fronte il senno appare: Tal
di limpidi spegli a un cerchio in mezzo Grave t'assidi, e lor sen-
tenza ascolta. Un, giacendo al tuo pie, mostri qual deggia Liscia
e piana salir su per le gambe La docil calza; un sia presente al
volto. Un dietro al capo: e la percossa luce Quinci e quindi
tornando, a un tempo solo Tutto al giudizio de' tuoi guardi
esponga ^apparato dell'arte. Intanto i servi A le sudino in-
torno: e qual, piegate Le ginocchia, in sul suol prono, ti stringa
Il molle pie di lucidi fermagli; E qual del biondo crin che i
nodi eccede Su la schiena ondeggiante in negro velo I tesori
148 IL GIORNO (v. 829-853).
Figlie de la Memoria inclite Suore
Che invocate scendeste, e i feri nomi
De le squadre diverse e de gli Eroi
Annoveraste ai grandi che cantaro
Achille, Enea, e il non minor Buglione,
Or m'é d'uopo di voi: tropp'ardua impresa,
E insuperabil senza vostr'aita.
Pia ricordare al mio Signor di quanti
Leggiadri arnesi graverà sue vesti
Pria che di se medesmo esca a far pompa.
Ma qual tra tanti e si leggiadri arnesi
Si felice sarà che pria d'ognaltro,
Signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti importan del par. Veggo TAstuccio,
Di pelle rilucente ornato e d'oro.
Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
Occupar di sua mole; esso a mill'uopi
Opportuno si vanta, e in grembo a lui.
Atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all'ugne,
Vien forbita famiglia. A lui contende
I primi onori d'odorifer'onda
Colmo Gristal, che a la tua vita in forse
Rechi soccorso allor che il vulgo ardisce
Troppo accosto vibrar da la vii salma
Fastidiosi effluvj a le tue nari. *
raccoglia; e qual già pronto Venga spiegando la nettarea veste.
Fortunato garzone, a cui la Moda In fioriti canestri e di vermi-
glia Seta coperti preparò tal copia D'ornamenti e di pompe!
Ella pur jeri A te dono ne féo. La notte intera Faticaron per
te cenl'aghi e cento; E di percossi e ripercossi ferri Per le ta-
cite case andò il riml)ombo. Ma non in van, poi che di novo
fasto Oggi superbo nel bel mondo andrai; E per entro l'in-
vidia e lo stupore Passerai de' tuoi pari, eguale a un dio, Folto
I)isbiglio sollevando intorno. „
* Nel dialogo Della nobiltà , dove il Parini finge che s'incontrino
" nella medesima sepoltura un Nobile e un Poeta , (Pp,lV, 12.'>-6),
al primo che esclama: " Miserabile! non sai tu chi io mi sono? or
perchè ardisci tu di starmi cosi fitto alle costole come tu fai? „
l'altro risponde: " Signore, s'io stovvi così accosto, incolpatene una
mia depravazione d'olfatto, per la quale mi sono avvezzo a' cattivi
odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate già più
muschio e ambra voi ora! „
IL MATTINO (v. 854-880). 149
Né men pronto di quello, alFuopo istesso,
L'imitante un cuscin purpureo Drappo
Mostra turgido il sen d'erbe odorate
Che l'aprica montagna in tuo favore
Al possente meriggio educa e scalda.
Seco vien pur di cristallina rupe
Prezioso Vasello, onde traluce
Non volgare confetto, ove agli aromi
Stimolanti s'unio l'ambra, o la terra
Che il Giappon manda a profumar de' Grandi
L'etereo fiato, * o quel che il Garamano
Fa gemer latte dall'inciso (japo
De' papaveri suoi ; perché, qualora
Non ben felice amor Talma t'attrista,
Lene serpendo per le membra, acqueti
A te gli spirti, e no la mente induca
Lieta stupidità che mille aduni
Imagin dolci e al tuo desio conformi.
A questi arnesi il Cannocchiale aggiugni,
E la guernita d'oro anglica Lente.
Quel notturno favor ti presti allora
Che in teatro t'assidi, e t'avvicini
Gli snelli piedi e le canore labbra
Da la scena rimota: o con maligno
Occhio ricerchi di qualch'alta loggia
Le abitate tenèbre, o miri altrove
Gli of]rnor nascenti e moribondi amori
* Il MagaloUi, nella XIX delle sue Lettere, descrive " quella pasta
o quel magistero, che formato a quel modo in bioccoli sulFandare
de' tartufi, di peso ordinariamente di tre in quattr' once l'uno,
con nome di Cato o di Gate, dalle parti più orientali dell'Indie,
non esclusone il Giappone medesimo (da cui è anche stato chia-
mato Terra), viene in Olanda e a Goa ; e che in Goa più che
altrove, alterato con odori, e principalmente con ambra, e formato
in grani di diverse grossezze e figure, da innocente delizia di Bar-
bari o di semplici Indiani, passa a studiato regalo di svogliati lus-
sureggianti, se non lussuriosi, Europei ; benché esternamente o dal
fuoco, per rasciugarlo e seccarlo, impastato ch'ei l'hanno, o dal-
l'aria e forse dal tempo medesimo pigli quel colore che i Latini
direbbono ferrugineus e noi di Castagna vecchia, a romperlo, si
trova di dentro rossigno, e quanto più puro tanto più si vede tirare
al matton pesto ,.
150 IL GIORNO (v. 881-915).
De le tenere Dame, onde s'appresti
Per leloquenza tua nel di vicino
Lunga e grave materia. A te la Lente
Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
Economa presieda, e si li parta
Che il mirato da te vada superbo,
Né i malvisti accusarti osin giammai.
La Lente ancora alTocchio tuo vicina
Irrefragabil giudice condanni
O approvi di Palladio i muri e gli archi
O di Tizian le tele: essa a le vesti.
Ai libri, ai volti feminili applauda
Severa, o li dispregi. E chi del senso
Gomun si privo fìa che opporsi unquanco
Osi al sentenziar de la tua Lente?
Non per questi però sdegna, o Signore,
Giunto a lo specchio, in gallico sermone
11 vezzoso Giornal; non le notate
Eburnee Tavolette a guardar preste
Tuoi sublimi pensier fin ch'abbian luce
Doman tra i begli spirti; e non isdegna
La picciola Guaina, ove a' tuoi cenni
Mille stan pronti ognora argentei spilli.
Oh quante volte a cavalier sagace
Ho vedut'io le man render beate
Uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi dove inonorato e solo
Lasci '1 Coltello, a cui Toro e l'acciaro
Donar gemina lama, e a cui la madre
De la gemma più bella d'Anfìtrite
Die manico elegante ove il colore
Con dolce variar l'iride imita?
Opra sol fìa di lui se ne' superbi
Convivj ognaltro avanzerai per fama
D'esimio trinciatore *, e se l'invidia
* " Una costumanza ben singolare, ed affatto smaiTÌta, è quella che
si ricorda in questi versi. Il trinciare, tagliare e suddividere le vi-
vande apparteneva ad uno dei convitati. Era questa usanza un argo-
mento di emulazione fra di essi, un argomento di applauso, ad
ottenere il quale si giovavano dell'esercizio frequente e dello studio
IL MAtTINO (v. 916-930). 151
De' tuoi gran pari ecciterai qualora,
Pollo fagian con la forcina in alto
Sospeso, a un colpo il priverai delFanca
Mirabilmente. * Or ti ricolmi alfine
D'ambo i lati la giubba ed oleoso
Spagna e Rapè, cui semplice Origuela **
Chiuda, o a molti colori oro dipinto;
E cupide ad ornar tue bianche dita
Salgan le Anella, in fra le quali, assai
Più caro a te dell'adamante istesso,
Cerchietto inciso d'amorosi motti
Stringati alquanto, e sovvenir ti faccia
De la pudica altrui sposa a te cara.
Compiuto é il gran lavoro. Odi, o Signore,
Sonar già intorno la ferrata zampa
deU' anatomia dei volatili, il perfetto e spedito trinciare dei quali
era considerato siccome frutto o di lunga esperienza o di lodevole
sagacltà ,. De Magri, // Giorno ecc., Milano, 1829, pt. I, pag. 125,
* Nei manoscritti continua cosi; " Or qual più resta omai Onde
colmar tue tasche inclito ingombro? Ecco a molti colori oro di-
stinto, Ecco nobil testuggine su cui Voluttuose imagini lo
sguardo Invitan de gli eroi. Copia squisita Di fùmido Rapè
quivi è serbala E di Spagna oleoso, onde lontana, Pur come
suol fastidioso insetto, Da te fugga la noia. Ecco che smaglia,
Cùpido a le di circondar le dita, Vivo splendor di preziose anella.
Amila pietra ove si stanno ignude Sculte le Grazie, e che il Giudeo
ti fece Creder opra d' Argivi allor ch'ei chiese Tanto tesoro, e
d'erudito il nome Ti comparti prostrandosi a' tuoi piedi? Vuoi tu
i lieti rubini? O più t'aggrada Sceglier quest'oggi l'Indico adamante.
LÃ dove il lusso incantata costrinse La fatica e il sudor di cento
buoi Che pria vagando per le tue campagne Facean sotto a i lor
pie nascere i beni? Prendi o tutti o qual vuoi; ma l'aureo cerchio
Glie sculto intorno è d'amorosi molti Ognor teco si vegga, e il
minor dito Prèmati alquanto, e sovvenir ti faccia Dell'altrui
fida sposa a cui se' caro. Vengane alfm degli Orioi gemmati.
Venga il duplice pondo; e a te dell'ore Che all'alte imprese di-
spensar conviene Faccia rigida prova: ohimè che vago Arsenal
minutissimo di cose Ciondola quindi, e ripercosso insieme Molce
con soavissimo tintinno! Ma v'hai tu il meglio? Ah! sì, che i
miei precelti Sagace prevenisti. Ecco risplende Chiuso in breve
cristallo il dolce pegno Di fortunato amor : lungi, o profani; Che
a voi tant'ollre penetrar non lice. „
** 11 Reina annoia: " Radice onde sì fanno scatole da tabacco,
così delta dalla città di questo nome „. Orihuela è sulla costa orien-
tale della Spagna, al confine della Valenza colle Murcie.
152 IL GIORNO (v. 931-943).
De' superbi corsier, che irrequieti
Ne' gpand'atrj sospigne, arretra e volge
La disciplina delPardito auriga.
Sorgi, e t'appresta a render baldi e lieti
Del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente Signor scender non lice
Da le stanze superne infin che al gelo
O al meriggio non abbia il cocchier stanco
Durato un pezzo, onde Tuoni servo intenda
Per quanto immensa via Natura il parta
Dal suo Signore. I miei precetti intanto
Io seguirò: che varie al tuo mattino
Portar dee cure il variar dei giorni. *
* n Reina annota: " I molti cangiamenti e le traslazioni, che s'in-
contrano in varj testi a penna fino al termine del MatUno, vogliono
che si dia questo squarcio tutto intero. — Tu dolce intanto pren-
derai solazzo Ad agitar fra le tranquille dita Dell'oriolo i cion-
doli vezzosi. Signore, al Ciel non è cosa più cara Di tua salute;
e troppo a noi mortali È il viver de' tuoi pari uUl tesoro. Uopo
è talor che da gli egregi affanni T'allevj alquanto, e con pietosa
mano II teso per gran tempo arco rallente. Tu dunque, allor
che placida mattina Vestita riderà d'un bel sereno, Esci pedc-<
stre, e le abbattute membra All'aura salutar snoda e rinfranca.
Di nobil cuoio a te la gamba calzi Purpureo stivaletto, onde
giammai Non profanin tuo pie la polve e il limo Che l'uom
calpesta. A te s'avvolga intorno Veste leggiadra che sul fìanco
sciolta Sventoli andando, e le formose braccia Stringa in ma-
niche anguste, a cui vermiglio O cileslro ermesino orni gli estremi.
Del bel color che l'elitropio tigne O pur d'orientai candido bisso
Voluminosa benda indi a te fasci La sneUa gola. E il crin.... Ma
il crin, Signore, Forma non abbia ancor da la man dotta Del-
l'artefice suo; che troppo fora. Ahi troppo grave error lasciar
tant'opra De le licenziose aure in balia. Né senz'arte però vada
negletto Su gli omeri a cader; ma o che Natura A te il no-
drisca, o che da ignote fronti II più famoso parrucchier lo in-
voli E lo adatti al tuo capo, in sul tuo capo Ripiegalo l'afTerri
e lo sospenda Con testugginei denti il pettin curvo. Ampio cap-
pello allìn, che il disco agguagli Del gran lume Febeo, tutto ti
copra, E a lo sguardo profan tuo nume asconda. Poi che così
le belle membra ornate Con artifìcj negligenti avrai. Esci so-
letto a respirar talora I mattutini fiati; e, lieve canna Bran-
dendo con la man, quasi baleno Le vie trascorri, e premi ed urta
il vulgo Che s'oppone al tuo corso. In altra guisa Fora colpa
Tuscir, però che andrièno Mal dal vulgo distinti i primi eroi.
Tal giorno ancora, o d'ogni giorno forse Fien qualch'ore serbate
IL MATTINO (v. 944-956). 153
Tal di ti aspetta d'eloquenti fogli
Serie a vergar, che al Rodano, al Lemano,
AirAmstel, al Tirreno, all'Adria legga
Il librajo che Momo e Giterea
Colmar di beni, o il più di lui possente
Appaltator di forestiere scene.
Con cui per opra tua facil donzella
Sua virtù merchi, e non sperato ottenga
Guiderdone al suo canto. O di grand'alma
Primo fregio ed onor, Beneficenza,
Che al merto porgi ed a virtù la mano!
Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi.
Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.
al molle ferro Che i peli a te rigermogliaiiti a pena D'in su la
guancia miete, e par che invidj Ch'altri fuor che sé solo indaghi
o scopra Unque il tuo sesso. Arroge a questo il giorno Che di
lavacro universal convienti Terger le vaghe membra. È ver che
allora D'esser mortai dubiterai; ma innalza Tu allor la mente
a i grandi aviti onori, Che fino a te per secoli cotanti Misti sce-
sero al chiaro altero sangue. E il pensier ubbioso a par di nebbia
Per lo vasto vedrai aere smarrirsi A i raggi de la gloria onde
t'investi; E di te pago sorgerai qual pria Gran Semidèo che a
sé solo somiglia. Fama è così che il di quinto le Fate Loro
salma immollai vedean coprirsi Già d'orribili scaglie, e, in feda
serpe Volta, strisciar sul suolo, a sé facendo De le inarcale
spire impeto e forza; Ma il primo sol le rivedea più belle Far
beati gli amanti, e a un volger d'occhi Mescere a voglia lor la
terra e il mare. Assai l'auriga bestemmiò finora I tuoi nobili
indugi; assai la terra Calpestà ro i cavalli. Or via, veloce Reca,
o servo gentil, reca il cappello Ch'ornan fulgidi nodi. E tu frat-
tanto, Fero genio di Marte a guardar posto De la stirpe de'
numi il caro fianco. Al mio giovane eroe cigni la spada, Corta
e lieve non già , ma, qual richiede La stagion bellicosa, al suol
cadente, E di triplice taglio armata e d'elso Immane. Quanto
esser può mai sublime. L'annoda pure, onde la impugni all'uopo
La destra furibonda in un momento. Ne disdegnar con le san-
guigne dita Di ripulire ed ordinar quel nastro Onde l'elso é
superbo. Industre studio È di candida mano. Al mio Signore
Dianzi donollo e gliel appese al brando L'altrui fida consorte a
lui si cara. Tal del famoso Artù vide la Corte Le infiammate
d'amor donzelle ardite Ornar di i)iume e di purpuree fasce l
fatati guerrier; si che poi lieti Correan mortale ad incontrar pe-
riglio In selve orrende fra i giganti e i mostri. Volgi, o invitto
campion, volgi tu pure II generoso pie dove la bella E de gli
eguali tuoi scelto drappeUo Sbadigliando t'aspetta a l'alte mense
154 IL GIORNO (v. 957-979).
Tal giorno ancora, o d'ogni giorno forse
Den qualch'ore serbarsi al molle ferro
Che il pelo a te rigermogliante a pena
D'in su la guancia miele, e par che invidj
Girallri fuor che lui solo esplori o scopra
Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno
Che di lavacro uni versai convienti
Bagnar le membra, per tua proj)ria mano
O per altrui con odorose spugne
Trascorrendo la cute. È ver che allora
D'esser mortai ti sembrerà : ma innalza
Tu allor la mente, e de' grand 'avi tuoi
Le imprese ti rimembra e gli ozj illustri
Che inflno a te per secoli cotanti
Misti scesero al chiaro altero sangue ;
E l'ubbioso pensier vedrai fuggirsi
Lunge da te per l'aere rapito
Su l'ale de la Gloria alto volanti;
Et indi a poco sorgerai qual prima
Gran Semidòo che a sé solo somiglia.
Fama è cosi che il di quinto le Fate
Loro salma immortai vedean coprirsi
Già d'orribili scaglie, e, in feda serpe
Vieni e, godendo, nell'iiscire il lungo Ordin superbo di tue stanze
ammira. Or già siamo a reslrenie: alza i bei lumi A le pen-
denti tavole vetuste Che a te de gli avi tuoi serbano ancora Gli
alti e le forme. Quei clie in duro dante Strigne le membra, e cui
sì grande ingombra Traforato coUar le grandi spalle, Fu di
macchine autor; cinse d'invitte Mura i Penati; e da le nere torri
Signoreggiando il mar , verso le aduste Spiagge la predatrice
Africa spinse. Vedi quel magro a cui canuto e raro Pende il
crin da la nuca; e l'altro a cui Su la guancia pienotta e sopra il
nicmto Serpe triplice pelo? Ambo s'adornano Di toga magi-
stral cadente a i piedi L'uno a Temi fu sacro: entro a' Licei
La giovcnlù pellegrinando ei trasse A gli oracoli suoi, indi se-
deUe Nel senato de' padri, e, le dsperse Leggi raccolte, ne fé'
parte al mondo; L'altro sacro ad Igeia. Non odi ancora Presso
a un secol di vita il buon vegliardo Di lui narrar quel che da'
padri suoi Nonagenarj udì, com'ei spargesse Su la plebe infe-
lice oro e salute Pari a Febo suo nume? Kcco quel grande A
cui sì fosco parruccon s'innalza Sopra la fronte spaziosa, e scende
Di minuti botton serie infinita Lungo la veste. Ridi? Ei novi
aperse Studj a la patria; ei di perenne aita I miseri dotò; por-
IL MATTINO (v. 980-1003). 155
Volta, strisciar sul suolo, a sé facendo
De le inarcate spire impeto e forza;
Ma il primo Sol le rivedea più belle
Far beati gli amanti, e a un volger d'occhi
Méscere a voglia lor la terra e il mare.
Fia d'uopo ancor che da le lunghe cure
T'allevj alquanto, e con pietosa mano
Il teso per gran tempo arco rallenti.
Signore, al Giel non è più cara còsa
Di tua salute; e troppo a noi mortali
È il viver de' tuoi pari util tesoro.
Tu adunque allor che placida mattina
Vestita riderà d'un bel sereno.
Esci pedestre, e le abbattute membra
A l'aura salutar snoda e rinfranca.
Di nobil ciiojo a te la gamba calzi
Purpureo stivaletto, onde il tuo piede
Non macchino giammai la polve e 'l limo
Che Tuom calpesta. A te s'avvolga intorno
Leggiadra veste che sul dorso sciolta
Vada ondeggiando, e tue formose braccia
Leghi in manica angusta a cui vermiglio
O cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color che lelitropio tigne
tici e vie Stese per la cittade, e da gli ombrosi Lor lontani re-
cessi a lei dedusse Le pure onde salubri, e ne' quadrivj E in
mezzo a gli ampli fóri alto le fece Salir scherzando a rinfrescar
la state, Madre di morbi popolari. Oh come Ardi a tal vista di
bealo orgoglio, Magnanimo garzoni Folle! A cui parlo? Ei giÃ
più non m'ascolta: odiò que' ceffi II suo guardo gentil; noja lui
prese Di sì vieti racconti; e già s'affretta Giù per le scale im-
paziente. Addio, De gli uomini delizia e di tua stirpe E de la
patria tua gloria e sostegno! Ecco che umili in bipartita schiera
T'accolgono i tuoi servi. Altri già pronto Via se ne corre ad an-
nunciare al mondo Che tu vieni a bearlo ; altri a le braccia Ti-
mido ti sostien mentre il dorato Cocchio tu sali, e tacito e severo
Sur un canto ti sdrai. Aprili, o vulgo, E cedi il passo al trono
ove s'asside II mio Signor. Ahi te meschin sei perde Un sol
per le de' preziosi istanti! Temi il non mai da legge o verga o
fune Domabile cocchier; temi le rote Che già più volte le tue
membra in giro Avvolser seco, e del tuo impuro sangue Corser
macchiate, e il suol di lunga striscia, Spetlacol miserabile! se-
gnà ro. ,
156 IL GIORNO (v. 1004-1028).
Sottilissima benda indi ti fasci
La snella gola ; e il crin... Ma il crin, Signore,
Forma non abbia ancor da la man dotta
Dell'artefice suo; che troppo fora,
Ahi! troppo grave error lasciar tant'opra
De le licenziose aure in balla.
Non senz'arte però vada negletto
Su gli omeri a cader; ma, o che Natura
A te il nodrisca, o che da ignota fronte
Il più famoso parrucchier lo tolga
E l'adatti al tuo capo, in sul tuo capo
Ripiegato l'afferri e lo sospenda
Con testugginei denti il pettin curvo. *
Poi che in tal guisa te medesmo ornato
Con artifìcio negligente avrai,
Esci pedestre a respirar talvolta
L'aere mattutino; e ad alta canna
Appoggiando la man, quasi baleno
Le vie trascorri, e premi ed urta il volgo
Che s'oppone al tuo corso. In altra guisa
Fora colpa l'uscir, però che andriéno
Mal distinti dal vulgo i primi eroi.
Ciò ti basti per or. Già l'oriolo
A girtene ti aflretta. Ohimè che vago
Arsenal minutissimo di cose
* (^fr. i versi 485 e seg^^. Il De Magri (// Giorno ecc., pt. 1, pag. Ili)
così descrive il topè : " La fronte del signore doveva apparire spaz-
zala e nuda di ogni pelo, al quale effetto, stesavi una tela ingom-
mala, la si strappava poscia con violenza, quando per il tepore
naturale della fronte si fosse la gomma condensata ed avesse av-
viluppate anche le più minute lanugini, forzate a partirsi seco lei
svelle dall'ima radice Allora sull'estremo confine della fronte sor-
geva come un parapetto cono, soffice, di capelli rotolali per lo in-
dietro, e cingeva tutta la periferia del capo, abbassandosi grada-
lamenle sui lati e su la nuca, dove si convertiva in una coda, quale
a trecce, quale rotonda o conica, fasciata da un nastro e finita in
un fiocco maestoso o di seta o di capelli, o in una borsa. Questa
petlinatura esigeva molta accuratezza, dovendo l'attillatore inten-
dere con ispeciale avvertimento a non permettere che neppure il
più minuto e breve crine uscisse ribelle dal rango degli altri, e
che nessunissima parte di essi rompesse la uniformità del para-
petto ,.
IL MATTINO (v. 1029-1062). 157
Ciondola quindi, e ripercosso insieme
Molce con soavissimo tintinno l
Di costi che non pende? havvi per fino
Piccioli cocchi e piccioli destrieri
Finti in oro cosi che sembran vivi.
Ma v'hai tu il meglio? Ah si, chei miei precetti
Sagace prevenisti: ecco che splende.
Chiuso in picciol cristallo, il dolce pegno
Di fortunato amor. Lunge, o profani,
Che a voi tant'oltre penetrar non lice I
E voi dell'altro secolo feroci
Ed ispid'avi, i vostri almi nipoti
Venite oggi a mirar. Co' sanguinosi
Pugnali a lato le campestri rócche
Voi godeste abitar, truci a l'aspetto
E per gran baffi rigidi la guancia,
Consultando gli sgherri, e sol giojendo
Di trattar l'arme che d'orribil palla
Givan notturne a traforar le porte
Del non meno di voi rivale armato. *
Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno
Ad agitar fra le tranquille dita
Dell'oriolo i ciondoli vezzosi;
Ed opra é lor se all'innocenza antica
Torna pur anco e bamboleggia il mondo.
Or vanne, o mio Signore, e il pranzo allegra
De la tua Dama: a lei, dolce ministro.
Dispensa i cibi, e détta al suo palato
E a la sua fame inviolabil legge.
Ma tu non obliar che in nulla cosa
Esser mediocre a gran Signor non lice:
Abbia il popol confini; a voi Natura
Donò senza confini e mente e core.
Dunque a la mensa o tu schifo rifuggi
* Curiosa ed interessanle la nota del De Magri (1829) a questo
luogo (p. 127): " Abbiamo veduto di fresco nei Promessi Sposi esat-
tamente riprodoUi questi ritratti istorici del secolo XVII. Si direljbe
elle il sig. Manzoni consultasse questi versi delineando 1 caratteri
di D. Rodrigo e dell'Innominato, ove non si conoscesse in tutta
l'estensione la sua abilità nel dipìngere „.
158 IL GIORNO (v. 1063-1083).
Ogni vivanda, e te medesmo rendi
Per inedia famoso, o nome acquista
D'illustre voratore. Intanto addio,
Degli uomini delizia e di tua stirpe,
E de la patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umili in bipartita schiera
T'accolgono i tuoi servi: altri già pronto
Via se ne corre ad annunciare al mondo
Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
Timido ti sostien mentre il dorato
Cocchio tu sali, e tacito e severo
Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo,
E cedi il passo al trono ove s'asside
Il mio Signore: ahi te meschin s'ei perde
Un sol per te de' preziosi istanti!
Temi '1 non mai da legge o verga o fune
Domabile cocchier, temi le rote
Che già più volte le tue membra in giro
Avvolser seco, e del tuo impuro sangue
Corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
Spettacol miserabile! segnà ro. *
* lUferiamo dal Cantù (LUib. Parinì, 1854, p. 354) una grida del
21 gennaio 1763: " Non senza grave indignazione ha il Serenissimo
Amministratore inleso ed osservato che, non ostante la chiara ed
efficace [sic !} disposizione della grida del 18 febbraio 1760, sia ri-
sorto l'atroce abuso di correre impetuosamente per la città e di
giorno e più di noUe colle carrozze ed attiragli, rinnovandosi le
abbominevoli emulazioni e gare di corso, e con esse le tragiche
scene già detestate e corrette con pubbliche dimostrazioni e con le
pene più risentite. E volendo S. A. S. assolutamente e determina-
tamente tolta una sì inumana riprovevole corruttela, fa seriamente
incaricare il regio capitano di giustizia, il regio suo vicario, il po-
destà di Milano, lì giudici del gallo e del cavallo e li regj vicarj
generali, che, raddoppiando le loro veglie e ronde ed instruendo
opportunamente le loro rispettive famiglie di giustizia all'esatto
adempimento dell'ordinato e disposto in detta grida, non cessino
dalle più oculate e vigorose pratiche per far detenere qualunque
cocchiere, vetturale o condotliere, che sia còlto in attuale coi'so
smoderato, o indiziato ed imputato d'inosservanza della grida, fa-
cendo indilatamente subire a' contravventori la comminata pena
di tre pubblici tratti di corda, procedendo in sèguito per le ulte-
riori a norma della detta grida; con avvertenza che d'ogni dissi-
mulazione o connivenza in questa parte ne sarà responsale al go-
IL MATTINO. 159
verno insieme e il giadic« e la famiglia di giustizia che non si sarÃ
efficacemente prestata alle rispettive parti del suo ufficio in questo
particolare. E perchè non vaglia pretesto o scusa di scordanza,
oblivione o tolleranza, sarà il presente decreto nelle regolari forme
dedotto a pubblica notizia „. Il Cantù soggiunge : " Allora fu ordi-
nato ai birri di gettar delle stanghe fra i raggi delle ruote delle
carrozze che corressero troppo. Ed è notato nei fasti aristocratici
qualmente la prima carrozza cui si usò questo affronto, come lo
giudicavano non solo i volgari patrizj ma ftn Pietro Verri (v. Scritti
inediti, p. 21), fu quella della contessa Brebbia nata Zonati „.
La prima edizione lia questo frontispizio : // Mattino, Poemetto.
Milano, Agnelli, 1763. Consta di pp. 62 in 16. U iwprimatnr è del
24 marzo. Il 21 luglio il Parini chiedeva per tre anni la privativa
dell'edizione, pubblicata anonima. L'anno stesso il poemetto fu
ristampato in Bergamo e in Venezia ; e nel 1766 il Baronchelli di
Venezia ne dava già fuori una sesta edizione.
Il Parini, racconta il Reina (Op., I, xv), " conferì a lungo sull'in-
venzione dell'opera, e spezialmente sulla tessitura del Mattino, con
Gian Carlo Passeroni, che molto ne commendò il pensiero, la con-
dotta ed il verseggiare. Compiuto il Mattino, lo lesse egli a Fran-
cesco Fogliazzi, indi ad una brigata di dotti amici, che maravi-
gliandone lo persuasero a pubblicarlo. Era di que' dì Ministro
Plenipotenziario dell'Austria in Lombardia Carlo conte di Firmian,
personaggio di esimie doti morali ed intellettuali Fogliazzi
parlò a Firmian deireccelleiite poesìa elei Mattino, e della risolu-
zione di stamparla, benché vi si mordesse l'ozio de' Grandi: —
Ottimamente, rispose il Ministro, ve n'ha bisogno estremo. — Di-
volgatosi il Mattino nel 1763, l'Italia tutta fece plauso alla novità ed
eccellenza del medesimo „. Il Fogliazzi era parmigiano, quasi coe-
taneo del Parini, dilettante di poesia e d'erudizione. Venuto a Mi-
lano nei dicasteri austriaci, fu accolto fra i Trasformati II Parini
gli dedicò l'epistola Sopra la guerra. Nel '61 il Fogliazzi era giÃ
capo ufficio nel Censimento ; divenne poi Consigliere al Senato.
Le Nuove di diverse corti e paesi, giornale ufficioso del Governo
auslriaco in Lombardia che si pubblicava a Lugano, nel numero
del 25 aprile 176.3, scrivevano autorevolmente: " Egli è sommamente
desiderabile che questo veramente egregio poeta proseguisca gli
altri poemi per sempre più porre in ridicolo il depravato co-
stume di questo secolo, che principalmente per comune disavven-
tura signoreggia in chi e per la nascita e ])er i beni di fortuna
sarebbe obbligalo a dar buon saggio di sé stesso ed essere un non
men esemplare crìslìano che un utile patrizio, e procurarne così
l'emendazione „ (cfr. Salveuagijo, p, XVII).
La Frusta letteraria, nel numeio del 1^ ottobre 1763 : " Io non
mi farò scrupolo di dire clie l'incognito autore del Mattino è uno
di que' pochissimi buoni poeti che onorano la moderna Italia. Con
160 IL GIORNO.
un'ironia mollo bravamente continuata dal ptinclpio fino al fine
di questo poemetto egli satireggia con tutta la necessaria morda-
cità gli effeminali costumi di que' tanti fra i nostri nobili, che, non
sapendo in che impiegare la loro meschina vita e come passar via
il tempo, lo consumano tutto in zerbinerie e in illeciti amoreggia-
menti. Egli descrive molto bene tutte le loro povere mattutine fac*-
cende, e le uccella talora con una forza di sarcasmo degna dello
stesso Giovenale. Temo però che la sua satira non produca quel
frutto che dovrebbe produrre, perchè è scritta qui e qua con molta
sublimità di poesia, e que' nobili, che dovrebbero leggerla seria-
mente per correggersi di que' difetti e di que' vizi che in essa sono
maestrevolmente additati e cuculiati, non intendono né la sublime
poesia né l'umile ,.
Narra il Reina (p. XXIX) : " Solitario nella città „ il Parini " astrae-
vasi spesso dalle idee comuni ritiralo negli orti, di cui molto di-
leltavasi. In villa sdrajavasi a leggere o al rezzo di un albero o ne'
freschi antri romiti o in una barchetta. È osservabile che stese i
suoi Poemetti sul lago di Como, a Malgrate, da Candido Àgudio
amicissimo suo, ed a Bellagio, dal Conte della Riviera, ove la bella
natura di que' luoghi ameni risvegliavagli l'estro e l'invitava a
poetare „.
Circa il 1791 fu pubblicata una versione latina del Mattino • dai
torchi di Francesco Pogliani in Milano, col titolo seguente : ffe/ruscum
poema cui titulus II Mattino latine reddilum „ (cfr. Lettere di due
amici, p. 47-55 e 53-60). Autore ne era C. Ant. Morondi delle Scuole
Pie; il quale, l'anno dopo, diede fuori anche la versione in latino»
del Mezzogiorno (ctr. Carducci, Storia del Giorno, p. 340).
È facile immaginare quali pettegolezzi si saranno fatti in Milano
e fuori quando comparve codesta satira cosi vivace, cosi nuova,
così elegante. Ce ne resta una curiosa testimonianza in una lettera
che Lodovicantonio Loschi, un instancabile poligrafo modenese,
scrìveva da Modena il 24 maggio 1764 all'ammiratissimo suo abate
Frugoni: " La supplico significarmi se l'ab. Parini trovasi costi,
ciocché vienmì assicurato; aggiungendosi ch'egli ha dovuto lasciare
Milano per la persecuzione del marchese [meglio, principe] Bel-
giojoso, a cui é parso ravvisar sé stesso, la sua vanità ed inutilitÃ
in molti tratti del Mattino „. (Cfr. E, Bertana, Un documento pari'
niano, nella Rass. Bibliogr. d. lett. ital, V, 178-9).
È superfluo avvertire che non c'era nulla di vero né nella fuga
del poeta né nella persecuzione del presunto giovin signore. Ma la
voce che in costui fosse proprio slato ritratto Alberico da Barbiano
principe di Belgioioso ebbe fortuna, come suole avvenire di simili
malignazioni; ed ho più indietro (p. 120-1) riferito un luogo del Bra-
inieri, in cui questi volle insinuare che, tra le ragioni che ritennero
il Parini dal " poner fine al Giorno „, fosse anche " il giusto timore
d'increscere a taluno, cui la pubblica malignità .... indicava qual
eroe del Poema ,. PiOi tardi l'IIobbousc, nel Saggio sullo stato della-
IL MATTINO. 161
letleratiira italiana nel primo ventennio del secolo XIX che pubblicò
ad illustrazione del Child-Harold del Byron, propalò quella diceria
per tutta Europa, asserendo che " non fuvvi un solo Milanese il
quale non riconoscesse nell'eroe del poeta del Giorno il principe
di Belgioioso, un individuo della regnante famiglia Estense [nel
1757 menò in moglie Anna Ricciarda dei marchesi d'Este], e fra-
tello maggiore del Feldmaresciallo dello stesso nome, che sostenne
il carattere di ambasciatore austriaco nella corte d'Inghilterra, e
quello di Governatore nei Paesi Bassi ,. E a molti piacque di cre-
»derci, cosi per quel naturale bisogno d'immaginar drammatiche
le vite dei poeti, come anche perchè si seppe che al critico inglese
molti dati per quel suo saggio erano stati forniti dal Foscolo (cfr.
Opere edite e postume di U. Foscolo, Firenze, Le Mounier, 1882, v.
XI, p. iH-iv e 210), il quale fu amico ed ospite del Belgioioso e Io
vide morire di apoplessia nel suo castello il 27 agosto 1813. (Cfr.
P. G., U. Foscolo e il principe di Belgioioso, nella Rivista minima,
Milano, aprile e maggio 1880, p. 288 ss. e 350 ss.).
Alla famiglia Belgioioso non poteva non dar fastidio il petulante
diffondersi del pettegolezzo; e per chiuder la bocca ai malevoli,
nel 1823 il principe Emilio (figliuolo al primogenito del vecchio
perseguitato, che poi nel 1831 congiurò e raggiunse la spedizione
mazziniana in Savoia, ed ebbe in moglie la Cristina Trivijlzio, la
quale nel '48 condusse da Napoli in Lombardia un battaglione di
volontari) " ordinò che la piccola casa attigua al suo palazzo „
all'ingresso di via San Paolo, " venisse, con disegno dell'arciiitetto
D. Gioachimo Crivelli, dedicata al Parini, coU'apporvi sulla facciata
il di lui ritratto a rilievo scolpito in marmo, fiancheggiato da due
Fame in pietra arenaria, che sostengono le mensole del balcone.
Ciò fece e come ammiratore dell'immortale poeta, ed anche per
togliere quelle dicerie sparse in Milano, che il principe Alberico
suo padre [avo], tenendosi offeso personalmente dalla satira del
Mattino, avesse fatto minacciare il Parini che, se voleva bene alla
propria vita, sì guardasse dal dar alle stampe il Meriggio, altrimenti
non vedrebbe la sera! „ (Cfr. L. Dell'Acqua, Sull'abitazione di G. P.,
nei Rendiconti dell'Istituto Lombardo, v. II, fase. 8-10, 9 nov. 1865,
p. 248).
Il Cantù mostrò di non credere alla sgarbata tradizione; ma,
mentre non seppe addurre fatti o validi argomenti che la scredi-
tassero, colse il destro per insinuar nuovo discredito sul carattere
del suo amato (alla larga!) poeta. " Il fissare un individuo,, egli
sentenzia (L'ab. Parini, p. 213), " repugnava non meno alle condi-
zioni dell'arte che alla natura di quel severo Lombardo; il quale,
flagellando il peccato non il peccatore, discerneva i vizj della classe
dalle persone, e continuò tutta la vita ad usare famiglie signorili ,.
Certo, ma non plaudendo mai al vizio o deridendo la virtù, * il
core sano e la mente ,! E non è poi vero ch'ei rifuggisse dai ri-
tratti personali; * come non ne rifuggirono tutti gli artisti veri e
forti, tutti i greci, il tempcratissimo Orazio, tutto il Trecento con
a capo Dante, tutto il Cinquecento con a capo l'Ariosto, fino il
Hoileau „ osserva giustamente il Carducci (Conwersazioni critiche,
11
162 IL GIORNO.
Roma, 1884, p. 235). Che, a proposito poi del giovili signore (Storia
del Giorno, p. 210), ripiglia: " Nell'alta e vera funzione dell'arte il
poeta comico o satirico coglie a volo e raccoglie nella memoria,
sorprende e rende con l'imaginazione, fisionomie, figure, atteg-
giamenti reali; ma nell'atto di fissarli nella riproduzione della pa-
rola trae dal più l'uno, o, come altri direbbe, idealizza. Il pubblico
poi, a suo conto, per intuizione o di malignità o di giustizia, scopre
e propala somiglianze „.
E a ciò non contradicono le considerazioni, che fecero invece
propendere il Borgognoni ad accettar la volgare identificazione •
" Fanno pensare al Belgioioso „, egli osserva (La vita e l'arte nel
Giorno, Verona, 1891, pag. 12), " molte espressioni, in molti luoghi
del poema, che a luì, ricchissimo ed elegantissimo tra i ricchi ed
eleganti patrizi milanesi di quei giorni, s' attagliano a meraviglia,
come, per tacer di tante altre, fregio ed onor de l'amoroso regno,
pupilla del più nobile mondo. E a lui fa pensare l'avvertimento che
il poeta dà al parrucchiere indigeno e ordinario del giovin signore,
di prender legge da colui che giunse pur ier di Francia: che par-
rebbe assai chiara allusione al parrucchiere che ogni mese si fa-
ceva venire il Belgioioso da Parigi „. Codesta ultima particolaritÃ
aveva difatto meglio contribuito a far nascere il pettegolezzo. Un
tal Egidio De Magri, che nel 1829 pubblicò in Milano un Commen-
tario storico-critico del Giorno, annotava a quei versi (p. 113): " Può
intendersi di un nobile reduce dal viaggio di Francia, ovvero la
illusione [sic!j è diretta a mordere un fatto, che d'altronde ne fu
confermalo da parecchi per non esibirlo siccome certo. Il principe
di faceva venire una volta al mese un parrucchiere di
Francia, ne pagava le spese del lungo viaggio, e ne compensava
largamente il servizio di fìirsi acconciare una o due fiate secondo
la più fresca moda d'oltremonte „.
Un altro particolare parve molto rilevante. Nei versi 702 ss. il
giovin signore è rappresentato come un prosuntnoso per quanto
sciocco giudice di quadri e di pittura; e il Belgioioso fu presidente
dell'Accademia di Belle Arti! Il De Magri non s'accorge di nulla;
ma il Cantù, proprio come se poco prima egli avesse accettata la
identificazione, appose a quel luogo, nella prima edizione del suo
testo {L'ab. Parini, Milano, Gnocchi, 1854, p. 335), la magra e mali-
ziosa nolerella: "11 principe Belgioioso era divenuto presidente
dell'Accademia delle Belle Arti „, e nella seconda (Milano, Coope-
rativa Editrice, 1892, p. 47) soggiunse: 'il che non vuol dire che se
ne intendesse „! Sennonché il De Castro (Poesie di G. P., Milano,
Carrara, 1890) ha messo in chiaro che non solo, quando fu pubbli-
calo il Mattino, il principe non era presidente di quella tale Acca-
demia, ma l'Accademia stessa non fu fondata se non dieci anni più
tardi, essendo siala inaugurata il 22 gennaio 1773. Si può rispondere
anche a questo, come difatto rispose il Borgognoni (p. 14), che,
" se nel '73 fu eletto presidente dell'Accademia, si può star certi
che, dieci e più anni prima, il suo dilettantismo artistico era ancor
più clamoroso e invadente. „. Un dilettantismo però non poco pro-
ficuo, lo attestò il suo segretario, all'arte e agli artisti, nò ad ogni
IL MATTINO. 163
modo del genere di quelli, a me pare, che il poeta flagella. È vero
che il giovili signorCj a tempo perso, sedeva a scranna e giudicava
risibilmente di Raffaello o di Paolo Veronese, ma l'artista ch'ei
protegge è " il dilicato miniator di belle „ ; laddove il Belgioioso
faceva dipingere nelle sale del magnifico palazzo che porta sul
fronte il suo casato e V Apoteosi di Alberigo il grande e l'episodio di
Rinaldo nel giardino di Armida, e poi la Gloria, Y Emulazione, la
Fortezza, la Vittoria, la Pubblica Felicità ^ la Pubblica Remunerazione,
la Immortalità del nome, su soggetti che aveva richiesti appunto al
Parini. Il quale non si era peritato di consigliare, * per la meda-
glia del salone „ Minerva che accenna ad Alberigo il tempio del-
l'Immortalità , presso di cui, al basso, si sarebbero dovuto vedere
" più soldati in varie attitudini, con uno svolazzante vessillo avente
il motto Italia ab exteris liberata, e l'Italia che accenna il motto
colla destra. Sarà essa „, descriveva l'onorando poeta (Op., V, 107-8),
• una bella giovane, stellata, con una corona in capo a foggia di
torre, in piedi, coU'asta nella sinistra. Un puttino appoggerà la de-
stra all'Italia, e terrà nella sinistra una catena spezzata; un altro
avrà in ambe le mani due catene rotte; un terzo la Cornucopia „.
Perchè a buon conto il principe Alberico non era, o non era
soltanto, un perditempo e un effeminato. ■Tanto è vero „, mi piace
riassumer col Carducci (St. del Giorno, p. 215), " che nel 1757, prima
forse che il Parini pensasse al Mattino, il Belgioioso, sposo ancora
novello, passava in Germania a prender parte alla guerra dei sette
anni. Aiutante di campo del principe maresciallo di Soubise e poi
tenente generale, si trovò alla battaglia di Rosbach. Finita la cam-
pagna, il maresciallo lo spedi con dispacci a Parigi; e piacque
assai a quella Corte, e forse ne riportò le raffinatezze che lo fecero
singolare a Milano e il vezzo di far venire ogni mese un parruc-
chiere da Parigi che lo acconciasse secondo l'ultimo gusto. A ogni
modo del tenente generale combattitore a Rosbach non si poteva
dire:
In van te chiama
Lo dio dell'armi: che ben folle è quegli
Che a rischio della vita onor sì merca;
E tu naturalmente il sangue abborri ».
Intorno a codesto argomento si posson utilmente consultare anche
i buoni Studi pariniani di E. Bertana (Spezia, 1893); il quale ri-
chiamò l'attenzione sul preambolo del poema, dove • a bello studio
e opportunamente il Parini distinse l'antica nobiltà feudale della
spada, dalla recente nobiltà del denaro „: o a te scenda ecc.; o in
te del sangue emendino il difetto ecc.
IL MEZZOGIORNO
POEMETTO
Ardirò ancor tra i desinari illustri
Sul meriggio innoltrarmi umil Cantore,
Poiché troppa di te cura mi punge,
Signor, ch'io spero un di veder maestro
E dittator di graziosi modi
All'alma gioventù che Italia onora.
Tal fra le tazze e i coronati vini,
Onde all'ospite suo fé' lieta pompa
La punica Regina, i canti alzava
Jopa crinito; e la Regina intanto
Da' begli occhi stranieri iva beendo
L'oblivion del misero Sichèo.
E tale, allor che l'orba Itaca in vano
Ghiedea a Nettun la prole di Laerte,
Femio s'udia co' versi e con la cetra
La facil mensa rallegrar de* Proci
Cui dell'errante Ulisse i pingui agnelli
E i petrosi licori e la consorte
Invitavano al pranzo. Amici or piega,
Giovin Signore, al mio cantar gli orecchi.
Or che tra nuove Elise, e nuovi Proci,
E tra fedeli ancor Penelopèe,
Ti guidano a la mensa i versi miei.
Già dal meriggio ardente il Sol fuggendo
Verge all'occaso; e i piccioli mortali
Dominati dal tempo escon di novo
A popolar le vie eh' ali* oriente
Volgon ombra già grande: a te nuli' altro
Dominator fuor che te stesso è dato.
Alfin di consigliarsi al fido speglio
168 IL GIORNO (v. 31-70).
La tua Dama cessò. Quante uopo è volte
Gliiedette e rimandò novelli ornati ;
Quante convien de le agitate ognora
Damigelle or con vezzi or con garriti
Rovesciò la fortuna ; a sé medesma
Quante volte convien piacque e dispiacque;
E quante volte é d'uopo a sé ragione
Fece, e a* suoi lodatori. I mille intorno
Dispersi arnesi alfin raccolse in uno
La consapevol del suo cor ministra :
Alfin velata d'un leggier zendado
È l'ara tutelar di sua beltate;
E la seggiola sacra un po' rimossa,
Languidetta l'accoglie. Intorno ad essa
Pochi giovani eroi van rimembrando
I cari lacci altrui, mentre da lungi
Ad altra intorno i cari lacci vostri
Pochi giovani eroi van rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
A le lor celie ; o s' ei si cruccia alquanto,
Del tuo lungo tardar solo si cruccia.
Nulla però di lui cura te prenda
Oggi, o Signore; e s'egli a par del vulgo
Prostrò l'anima imbelle, e non sdegnosse
Di chiamarsi marito, a par del vulgo
Senta la fame esercitargli in petto
Lo stimol fier degli oziosi sughi
Avidi d'esca ; o, s' a un marito alcuna
D'anima generosa orma rimane,
Ad altra mensa il pie rivolga, e d'altra
Dama al fianco s'assida il cui marito
Pranzi altrove lontan d' un' altra a lato
Ch' abbia lungi lo sposo : e cosi nuove
Anella intrecci a la catena immensa
Onde, alternando, Amor l'anime annoda.
Ma sia che vuol, tu baldanzoso innoltra
Ne le stanze più interne. Ecco precorre
Per annunciarti al gabinetto estremo
II noto stropiccio de' piedi tuoi.
Già lo sposo t'incontra. In un baleno
IL MEZZOGIORNO (v. 71-110). 169
Sfugge dairaltrui man Taccorta mano
De la tua Dama; e il suo bel labbro intanto
T'apparecchia un sorriso. Ognun s'arretra
Che conosce i tuoi dritti, e si conforta
Con le adulte speranze, a te lasciando
Libero e scarco il più beato seggio.
Tal colà dove infra gelose mura
Bisanzio ed Ispaà n guardano il fiore
De la beltà che il popolato Egèo
Manda, e TArmeno, e il Tartaro, e il Circasso,
Per delizia d'un solo, a bear entra
L'ardente sposa il grave Munsulmano.
Tra'l maestoso passeggiar gli ondeggiano
Le late spalle, e sopra l'alta testa
Le avvolte fasce : dall'arcato ciglio
Ei volge intorno imperioso il guardo ;
E vede al su' apparire umil chinarsi,
E il pie ritrar l'effeminata, occhiuta
Turba, che sorridendo egli dispregia.
Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera
Si dispongan tue grazie, e a la tua Dama
Quanto elegante esser più puoi ti mostra.
• Tengasi al fianco la sinistra mano
Sotto il breve giubbon celata ; e l'altra
Sul finissimo lin posi, e s'asconda
Vicino al cor : sublime alzisi *1 petto,
Sorgan gli omeri entrambi, e verso lei
Piega il duttile collo; ai lati stringi
Le labbra un poco; vèr lo mezzo acute
Rendile alquanto, e da la bocca poi
Compendiata in guisa tal sen esca
Un non inteso mormorio. La destra
Ella intanto ti porga, e molle caschi
Sopra i tiepidi avorj un doppio bacio.
Siedi tu poscia ; e d'una man trascina
Più presso a lei la seggioletta. Ognuno
Tacciasi ; ma tu sol curvato alquanto
Seco susurra ignoti detti, a cui
Goncordin vicendevoli sorrisi,
E sfavillar di cupidette luci
170 IL GIORNO (V. 111-150).
Che amor dimostri, o che lo finga almeno.
Ma rimembra, o Signor, che troppo nuoce
Negli amorosi cor lunga e ostinata
Tranquillità . Su l'oceano ancora
Perigliosa è la calma : oh quante volte
Dall'immobile prora il buon nocchiere
Invocò la tempesta I e si crudele
Soccorso ancor gli fu negato; e giacque
Affamato, assetato, estenuato,
Dal velenoso aere stagnante oppresso.
Tra l'inutile ciurma al suol languendo.
Però ti giovi de la scorsa notte
Ricordar le vicende, e con obliqui
Motti pungerl' alquanto : o se nel volto
Paga più che non suole accór fu vista
Il novello straniere, e co' bei labbri
Semiaperti aspettar, quasi marina
Conca, la soavissima rugiada
De' novi accenti; o se cupida troppo
Gol guardo accompagnò di loggia in loggia
Il seguace di Marte, idol vegliante
De'feminili voti, a la cui chioma
Gol lauro trionfai s' avvolgon mille
E mille frondi dell' Idalio mirto.
Golpevole o innocente, allor la bella
Dama improvviso adombrerà la fronte
. D'un nuvolette di verace sdegno
O simulato ; e la nevosa spalla
Scoterà un poco; e premerà col dente
L'infimo labbro; e volgeransi alfine
Gli altri a bear le sue parole estreme.
Fors' anco rintuzzar di tue querele
Saprà l'agrezza ; e sovvenir faratti
Le visite furtive ai tetti, ai cocchi
Ed a le logge de le mogli illustri
Di ricchi cittadini : a cui sovente,
Per calle che il piacer mostra, piegarsi
La maestà di cavalier non sdegna.
Felice te, se mesta e disdegnosa
La conduci a la mensa ; e s' ivi puoi
IL MEZZOGIORNO {v, 151-190). 171
Solo piegarla a comportar de' cibi
La nausea universali Sorridan pure
A le vostre dolcissime querele
I convitati, e T un T altro pereota
Gol gomito maligno : ah nondimeno
Come fremon lor alme, e quanta invidia
Ti portan, te veggendo unico scopo
Di si bell'ire! Al solo sposo è dato
Nodrir nel cor magnanima quiete.
Mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto
Docil fidanza ne le innocue luci.
O tre fiate avventurosi e quattro.
Voi del nostro buon secolo mariti,
Quanto diversi da' vostr'avi ! Un tempo
liscia d'Averno con viperei crini,
Con torbid' occhi irrequieti, e fredde
Tenaci branche, un indomabil mostro
Che ansando et anelando intorno giva
Ai nuziali letti, e tutto empiea
Di sospetto e di fremito e di sangue.
Allor gli antri domestici, le selve.
L'onde, le rupi alto ulular s' udièno
Di feminili strida; allor le belle
Dame con mani incrocicchiate, e luci
Pavide al ciel, tremando, lagrimando.
Tra la pompa feral de le lugubri
Sale vedean dal truce sposo offrirsi
Le tazze attossicate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia ! Il tuo furor medesmo
Oltre l'Alpi, oltre '1 mar destò le risa
Presso gli emoli tuoi, che di gelosa
Titol ti dièro, e t' é serbato ancora
Ingiustamente. Non di cieco amore
Vicendevol desire, alterno impulso.
Non di costume simiglianza or guida
Gl'incauti sposi al talamo bramato;
Ma la Prudenza coi canuti padri
Siede librando il molt' oro e i divini
Antiquissimi sangui; e allor che l'uno
Bene all'altro risponde, ecco Imeneo
172 IL GIORNO (vr. 191-230).
Scoler sua face; e unirsi al freddo sposo,
Di lui non già ma de le nozze amante,
La freddissima vergine, che in core
Già volge i riti del Bel Mondo, e lieta
L'indifferenza maritale affronta.
Cosi non fien de la crudel Megera
Più temuti gli sdegni. Oltre Pirene
Contenda or pur le desiate porte
Ai gravi amanti, e di feminee risse
Turbi Oriente: Italia oggi si ride
Di quello ond' era già derisa ; tanto
Puote una sola età volger le menti.
Ma già rimbomba d' una in altra sala
Il tuo nome, o Signor; di già l'udirò
L'ime officine, ove al volubil tatto
Degl' ingenui palati arduo s' appresta
Solletico che molle i nervi scota,
E vaiia seco voluttà conduca
Fino al core dell'alma. In bianche spoglie
S'affrettano a compir la nobil opra
Prodi ministri; e lor sue leggi detta
Una gran mente, del paese uscita
Ove Colbert e Richelieu fur chiari.
Forse con tanta maestade in fronte.
Presso a le navi ond' Ilio arse e cadéo,
Per gli ospiti famosi il grande Achille
Disegnava la cena ; e seco intanto
Le vivande cocean sui lenti fochi
Patroclo fido e il guidator di carri
Automedonte. O tu sagace mastro
Di lusinghe al palato, udrai fra poco
Sonar le lodi tue dall'alta mensa.
Chi fìa che ardisca di trovar pur macchia
Nel tuo lavoro ? Il tuo Signor farassi
Campion de le tue glorie: e male a quanti
Cercator di conviti oseran motto
Pronunciar contro te; che sul cocente
Meriggio andran peregrinando poi
Miseri e stanchi, e non avran cui piaccia
Più popolar con le lor bocche i pranzi.
IL MEZZOGIORNO (v. 231-270). 173
Imbandita è la mensa. In pie d'un salto
Alzati e porgi, almo Signor, la mano
A la tua Dama ; e lei dolce cadente
Sopra di te col tuo valor sostieni,
E al pranzo Taccompagna. I convitati
Vengan dopo di voi ; quindi '1 marito
Ultimo segua, O prole alta di numi.
Non vergognate di donar voi anco
Pochi momenti al cibo: in voi non fìa
Vii opra il pasto ; a quei soltanto é vile
Che il duro irresistibile bisogno
Stimola e caccia. All'impeto di quello
Gedan Torso, la tigre, il falco, il nibbio,
L'orca, il delfino, e quant'altri mortali
Vivon quaggiù; ma voi con rosee labbra
La sola Voluttade inviti al pasto,
La sola Voluttà che le celesti
Mense imbandisce, e al nettare convita
I viventi per sé Dei sempiterni.
Forse vero non è; ma un giorno è fama
Che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi
Fur Plebe e Nobiltade. Al cibo, al bere,
All'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno
Un istinto medesmo,. un' egual forza
Sospingeva gli umani, e niun consiglio.
Ninna scelta d'obbietti o lochi o tempi
Era lor conceduta. A un rivo stesso,
A un medesimo frutto, a una stess' ombra
Convenivano insieme i primi padri
Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri
De la plebe spregiata. I medesm' antri,
II medesimo suolo offrieno loro
11 riposo e l'albergo, e a le lor membra
I medesmi animai le irsute vesti.
Sol una cura a tutti era comune :
Di sfuggire il dolore; e ignota cosa
Era il desire agli uman petti ancora.
L'uniforme degli uomini sembianza
Spiacque a' Celesti ; e a variar la terra.
Fu spedito il Piacer. Quale già i numi
174 IL GIORNO (v. 271-310).
D' Ilio sui campi, tal ramico Genio
Lieve lieve per Taére labendo
S' avvicina a la Terra ; e questa ride
Di riso ancor non conosciuto. Ei move,
E l'aura estiva del cadente rivo
E dei clivi odorosi a lui blandisce
Le vaghe membra, e lenemente sdrucciola
Sul tondeggiar dei muscoli gentile.
Gli s'aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi,
E come ambrosia le lusinghe scorrongli
Da le fraghe del labbro ; e da le luci
Socchiuse, languidette, umide, fuori
Di tremulo fulgore escon scintille
Ond' arde V aere che scendendo ei varca.
Aìfìn sul dorso tuo sentisti, o Terra,
Sua prim'orma stamparsi; e tosto un lento
Fremere soavissimo si sparse
Di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte
Di natura le viscere commosse :
Come nell'arsa state il tuono s'ode
Che di lontano mormorando viene,
E col profondo suon di monte in monte
Sorge, e la valle e la foresta intorno
Muggon del fragoroso alto rimbombo.
Finché poi cade la feconda pioggia
Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe
Ravviva, riconforta, allegra e abbella.
Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo
Viventi, a cui con miglior man Titano
Formò gli organi illustri, e meglio tese,
E (li fluido agilissimo inondolli !
Voi r ignoto solletico sentiste
Del celeste motore. In voi ben tosto
Le voglie fermentar, nacque il desìo.
Voi primieri scopriste il buono, il meglio;
E con foga dolcissima correste
A possederli. AUor quel de' due sessi.
Che necessario in prima era soltanto.
D'amabile e di bello il nome ottenne.
Al giudizio di Paride voi deste
IL MEZZOGIORNO (v. 311-344). 175
Il primo esempio : tra feminei volti
A distinguer s' apprese ; e voi sentiste
Primamente le grazie. A voi tra mille
Sapor fur noti i più soavi : allora
Fu il vin preposto all'onda; e il vin s'elesse
Figlio debraici più riarsi e posti
A più fervido sol, ne' più sublimi
Colli dove più zolfo il suolo impingua.
Cosi r Uom si divise : e fu il Signore
Dai volgari distinto, a cui nel seno
Troppo languir l'ebeti fibre, inette
A rimbalzar sotto i soavi colpi
De la nova cagione onde fur tocche;
E quasi bovi, al suol curvati ancora
Dinanzi al pungol del bisogno andà ro,
E, tra la servitude e la viltade
E '1 travaglio e l'inopia a viver nati,
Ebber nome di Plebe. Or tu. Signore,
Che feltrato per mille invitte reni
Sangue racchiudi, poiché in altra etade
Arte, forza o fortuna i padri tuoi
Grandi rendette, poiché il tempo alfine
Lor divisi tesori in te raccolse.
Del tuo senso gioisci, a le da i numi
Concessa parte : e 1' umil vulgo intanto
Dell'industria donato ora ministri
A te i piaceri tuoi, nato a recarli
Su la mensa real non a gioirne.
Ecco la Dama tua s' asside al desco :
Tu la man le abbandona; e mentre il servo.
La seggiola avanzando, all'agii fianco
La sottopon, si che lontana troppo
Ella non sia nò da vicin col petto
Prema troppo la mensa, un picciol salto *
* Nei manoscritti: â– Ecco splende il gran desco. In mille forme
K di mille sapor di color mille La variata eredità de gli avi Scherza
in nobil di vasi ordin disposta. Già la dama s'appressa : e già da
i servi II morbido per lei seggio s'adatta. Tn, Signor, di tua
mano all'agii fianco II sottopon, si che lontana troppo Ella non
sieda o da vicin col petto Ahi! di troppo non prema: indi un
bel salto...,. I primi di questi versi si ritroveranno più oltre, .383-380.
176 IL GIORNO (v. 345-384).
Spicca, e chino raccogli a lei del lembo
11 diffuso volume. A lato poscia
Di lei tu siedi : a cavalier gentile
Il fianco abbandonar de la sua dama
Non fìa lecito mai, se già non sorge
Strana cagione a meritar ch'egli usi
Tanta licenza. Un Nume ebber gli antichi
Immobil sempre, e ch'alio stesso padre
Degli Dei non cedette, allor ch'ei venne
11 Campidoglio ad abitar, sebbene
E Gì uno e Febo e Venere e Gradivo
E tutti gli altri Dei da le lor sedi
Per riverenza del Tonante uscirò.
Indistinto ad ognaltro il loco fìa
Presso al nobile desco: e s' alcun arde
Ambizioso di brillar fra gli altri,
Brilli altramente. Oh come i varj ingegni
La libertà del genial convito
Desta ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio,
Maliziosetto svolazzando intorno,
Reca su l'ali fuggitive ed agita
Ora i raccolti da la fama errori
De le belle lontane, ora d' amante
di marito i semplici costumi ;
E gode di mirare il queto sposo
Rider primiero, e di crucciar con lievi
Minacce in cor de la sua fida sposa
1 timidi segreti. Ivi abbracciata
Co' festivi Racconti intorno gira
L'elegante Licenza : or nuda appare
Come le Grazie ; or con leggiadro velo
Solletica vie meglio, e s' afì'atica
Di richiamar de le matrone al volto
Quella rosa gentil, che fu già un tempo
Onor di belle donne, all'Amor cara
E cara all'Onestade, ora ne' campi
Cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi
A le rozze villane il viso adorna.
Già s'avanza la mensa. In mille guise
E di mille sapor, di color mille.
IL MEZZOGIORNO (v. 385-424). 177
La variata eredità degli avi
Scherza ne' piatti, e giust' ordine serba.
Forse a la Dama di sua man le dapi
Piacerà ministrar, che novo pregio
Acquisteran da lei. Veloce il ferro,
Che forbito ti attende al destro lato,
Nudo fuor esca ; e come quel di Marte,
Scintillando lampeggi: indi la punta
Fra due dita ne stringi, e chino a lei
Tu il presenta, o Signore. Or si vedranno
De la candida mano all'opra intenta
I muscoli giocar soavi e molli ;
E le Grazie, piegandosi dintorno,
Vestiran nuove forme, or da le dita
Fuggevoli scorrendo, ora su l'alto
De' bei nodi insensibili aleggiando,
Ed or de le pozzette in sen cadendo
Che dei nodi al confin v' impresse Amore.
Mille baci di freno impazienti
Ecco sorgon dal labbro ai convitati ;
Già s' arrischian, già volano, già un guardo
Sfugge dagli occhi tuoi che i vanni audaci
Fulmina et arde, e tue ragion difende.
Sol de la fida sposa a cui se' caro
II tranquillo marito immoto siede.:
E nulla impress'ion l'agita e scuote
Di brama o di timor; però che Imene
Da capo a pie fatollo. Imene or porta
Non più serti di rose avvolti al crine,
Ma stupido papavero grondante
Di crassa onda Letéa: Imene e il Sonno
Oggi han pari le insegne. Oh come spesso
La Dama dilicata invoca il Sonno
Che al talamo presieda, e seco invece
Trova Imenèo; e stupida rimane,
Quasi al meriggio stanca villanella
Che tra l'erbe innocenti adagia il fianco
Queta e sicura, e d'improvviso vede
Un serpe, e balza in piedi inorridita,
E le rigide man stende, e ritraggo
12
178 IL GIORNO (v. 425-460).
Il gomito, e l'anelito sospende,
E immota e muta, e con le labbra aperte.
Obliquamente il guarda ! Oh come spesso
Incauto amante a la sua lunga pena
Cercò sollievo: et invocar credendo
Imene, ahi folle ! invocò il Sonno ; e questi
Di fredda oblivìon Talma gli asperse,
E d' invincibil noja e di torpente
Indifferenza gli ricinse il core!
Ma se a la Dama dispensar non piace
Le vivande, o non giova, allor tu stesso
Il bel lavoro imprendi. Agli occhi altrui
Più brillerà cosi l'enorme gemma,
Dole' esca a gli usurai, che quella osà ro
A le promesse di Signor preporre
Villanamente; ed osservati fièno
I manichetti, la più nobil opra
Che tessesse giammai à nglica Aracne.
Invidieran tua dilicata mano
I convitati ; inarcheran le ciglia
Sul diffìcil lavoro, e d'oggi in poi
Ti fia ceduto il trinciator coltello
Che al cadetto guerrier serban le mense. *
Teco son io. Signor; già intendo e veggo.
Felice osservatore, i detti e i moti
De' Semidei che coronando stanno
E con vario costume ornan la mensa.
Or, chi è quell'eroe che tanta parte
Colà ingombra di loco, e mangia e fiuta
E guata e de le altrui cure ridendo
Si superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
Mamme del suo palato ! oh da' mortali
Invidiabil anima che siede
Tra la mirabil lor testura, e quindi
L'ultimo del piacer deliquio sugge!
* Il Mazzoni annota: "Dicono che l'onore di trinciare a mensa
le vivande spettasse al cadetto, ossia al giovane che già vestiva la
divisa militare per poi divenire officiale ,.
IL MEZZOGIORNO (v. 461-500). 179
Chi più saggio di lui penetra e intende
La natura migliore; o chi più industre
Converte a suo piacer Taria, la terra,
E '1 ferace di mostri ondoso abissò ?
Qualor s'accosta al desco' altrui, paventano
Suo gusto inesoi^abile le smilze
Ombre de' padri, cha per l'aria lievi
S' aggirano vegliando ancora intorno
Ai ceduti tesori; é piangon lasse
Le mal spese vigilie, i sòbrj pasti,
Le in preda all'aquilon case, le antique
Digiune rozze, gli scommessi cocchi
Forte aissordanti per stridente ferro
Le piazze e i tetti ; é lamentando vanno
Grinvan nudati rustici, le fami
Mal desiate, e de le sacre toghe
L'armata in vano autorità sul vulgo.
Chi siede a lui vicin ? Per certo il caso
Congiunse accorto i due leggiadri estremi,
Perchè doppio spettacolo campeggi,
E l'un dell'altro al par più lustri e splenda.
Falcato Dio degli orti, a cui la Greca
LÃ msaco d' asinelli offrir solca
Vittima degna, al giovine seguace
Del sapiente ; di Samo i doni tuoi
Reca sul desco. Egli ozioso siede
Dispregiando le carni; e le narici
Schifo raggrinza, in nauseanti rughe
Ripiega i labbri, e poco pane intanto
Rumina lentamente. Altro giammai
A la squallida fame eroe non seppe
Durar si fòrte: né lassezza il vinse,
Né' deliquio giammai, né febbre ardente;
Tanto importa lo aver scarze le membra,
Singolare il costume, e nel bel mondo
Gnor di filosofico talento.
Qual anima è volgar la sua pleiade
All' Uom riserbi ; e facile ribrezzo
Destino in lei del suo simile i danni,
r bisogni e le piaghe. Il cor di lui
180 IL GIORNO {v. 501-540).
Sdegna comune affetto; e i dolci moti
A più lontano limite sospinge.
« Péra colui che prima osò la mano
Armata alzar su l' innocente agnella
E sul placido bue : né il truculento
Cor gli piegà ro i teneri belati,
Né i pietosi mugiti, né le molli
Lingue lambenti tortuosamente
La man che il loro fato, ahimé, stringea! »
Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto
Al suo pietoso favellar dagli occhi
Uè la tua Dama dolce lagrimetta,
Pari a le stille tremule, brillanti,
Che a la nova stagion gemendo vanno
Da i pà lmiti di Bacco entro commossi
Al tiepido spirar de le prim'aure
Fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
Ahi fero giorno!, allor che la sua bella
Vergine cuccia de le Grazie alunna,
Giovenilmente vezzeggiando, il piede
Villan del servo con l'eburneo dente
Segnò di lieve nota : ed egli audace
Con sacrilego pie lancioUa : e quella
Tre volte rotolò ; tre volte scosse
Gli scompigliati peli, e da le molli
Nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando, aita ! aita !
Parea dicesse; e da le aurate volte
A lei l'impietosita Eco rispose:
E dagV infimi chiostri i mesti servi
Asceser tutti ; e da le somme stanze
Le damigelle pallide tremanti
Precipiterò. Accorse ognuno; il volto
Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama.
Ella rinvenne alfin; l'ira, il dolore
L'agitavano ancor; fulminei sguardi
Gettò sul servo, e con languida voce
Chiamò tre volte la sua cuccia : e questa
Al sen le corse; in suo tenor vendetta
Chieder sembrolle : e tu vendetta avesti,
IL MEZZOGIORNO (v. 541-580). 181
Vergine cuccia de le Grazie alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
Udì la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre ; a lui non valse
Zelo d'arcani uficj: in van per lui
Fu pregato e prom^isso; ei nudo andonne
Dell'assisa spogliato ond' era up giorno
Venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; che le pietose dame
Inorridirò, e del misfatto atroce
Odiar l'autore. Il misero si giacque
Con la squallida prole e con la nuda
Consorte a lato su la via spargendo
Al passeggiere inutile lamento:
E tu vergine cuccia, idol placato
Da le vittime umane, isti superba.
Fia tua cura, o Signore, or che più ferve
La mensa, di vegliar su i cibi ; e pronto
Scoprir qual d'essi a la tua dama è caro,
qual di raro augel, di stranio pesce
Parte le aggrada. Il tuo coltello Amore
Anatomico renda. Amor che tutte
Degli animali noverar le membra
Puote, e discerner sa qual abbian tutte
Uso e natura. Più d' ognaltra cosa
Però ti caglia rammentar mai sempre
Qual più cibo le noccia o qual più giovi;
E l'un rapisci a lei, l'altro concedi
Come d'uopo ti par. Serbala, oh dio.
Serbala ai cari figli! Essi dal giorno
Che le allevià ro il dilicato fianco
Non la rivider più : d' ignobil petto
Esaurirono i vasi, e la ricolma
Nitidezza serbà ro al sen materno.
Sgridala, se a te par eh' avida troppo
Agogni al cibo; e le ricorda i mali,
Che forse avranno filtra cagione e ch'ella
Al cibo imputerà nel di venturo.
Né al cucinier perdona, a cui non calse
Tanta salute. A te sui servi altrui
182 IL GIORNO (v. 581-616). . .
Ragion donossi in quel' felice istante
Che la noia o l'amor vi strinser ambo .
In dolce nodo, e dièr ordini e leggi.
Per te sgravato d'odioso incarco, - â–
Ti fìa grato colui che dritto vanta '
D'impor novo cognome a la tua Dama,
E pinte trascinar su gli aurei cocchi
Giunte a quelle di lei le proprie insegne :
Dritto illustre per lui, e eh' altri seco
Audace non tentò divider mai. *
Ma non sempre, o Signor, tue cure fièno
A la Dama rivolte: anco talora
Ti fìa lecito aver qualche riposo;
E de la quercia trionfale all'ombra
Te de la polve olimpica tergendo,
Al vario ragionar degli altri eroi
Porgere orecchio, e il tuo sermone ai loro
Ozioso mischiar. Già scote un d'essi
Le architettate del bel crine anella
Su l'orecchio ondeggianti, e ad ogni scossa,
De' convitati a le narici manda
Vezzoso nembo d'arabi profumi.
Allo spirto di lui l'alma Natura
Fu prodiga cosi, ,che più non seppe
Di clie il volto abbellirgli; e all'Arto disse:
Compisci '1 mio lavoro; e l'Arte suda
Sollecita d'intorno all'opra illustre.
Molli tinture, preziose linfe.
Polvi, pastiglie, dilicati unguenti,
'Tutto arrischia per lui. Quanto di novo
E mostruoso più sa tesser spola,
bulino intagliar Francese ed Anglo,
A lui primo concede. Oh lui beato
Che primo può di non più viste forme
Tabacchiera mostrar! L'etica Invidia
1 Grandi eguali a lui lacera e mangia ;
* Nel manoscritto continua: " Vedi come col guardo a te la cenno
Pago ridendo, e a le tue leggi applaude; Mentre Talta forcina in
tanto ci volge Di gradite vivande al piatto ancorai.
IL MEZZOGIORNO (v. 617^656). 18S3
Ed ei pago di sé, superbamente
Crudo, fa loro balenar su gli occhi
L'ultima gloria onde Parigi ornollo.
Forse altera cosi d'Egitto in faccia,
Vaga prole di Sémele, apparisti
I giocondi rubini alto levando
Del grappolo primiero: e tal tu forse,
Tessà lico garzon, mostrasti a Jolco
L'auree lane rapite al fero Drago.
Vedi, o Signor, quanto magnanim'ira
Nell'eroe che vicino all'altro siede
A quel novo spettacolo si desta; "
Vedi come s'affanna, e sembra il cibo
Obliar declamando. Al certo, al certo,
II nemico è a le porte: ohimè i Penati
Tremano, e in forse è la civil salute!
Ah no; più grave a lui, più preziosa
Cura lo infiamma: «Oh depravati ingegni
Degli artefici nostri! In van si spera
Dall'inerte lor man lavoro industre.
Felice invenzìon d'uom nobil degna!
Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglio
A nobile calzar? chi tesser drappo
Soflribil tanto, che d'ornar presuma
Le membra di Signor che un lustro a pena
Di feudo conti? In van s'adopra e stanca
Chi '1 genio lor bituminoso e crasso
Osa destar. Di là dall'Alpi è forza
Ricercar l'eleganza: e chi giammai
Fuor che il Genio di Francia osato avrebbe
Su i menomi lavori i Grechi ornati
Recar felicemente? Andò romito
Il Bongusto finora spaziando
Su le auguste cornici, e su gli eccelsi
Timpani de le moli al Nume sacre
E agli uomini scettrati; oggi ne scende
Vago alfin di condurre i gravi fregi
Infra le man di cavalieri e dame:
Tosto forse il vcdrem trascinar anco
Su molli veli e nuziali doni • . .
18i IL GIORNO (v. 657-696).
Le Greche travi; e docile trastullo
Fien de la Moda le colonne e gli archi
Ove sedeano i secoli canuti ».
Commercio! alto gridar, gridar Commercio !
Airaltro lato de la mensa or odi
Con fanatica voce; e tra '1 fragore
D'un peregrino d'eloquenza fiume,
Di bella novità stampate al conio
Le forme apprendi, onde assai meglio poi
Brillantati i pensier picchin la mente.
Tu pur grida Commercio! e la tua Dama
Anco un motto no dica. Empiono, è vero,
11 nostro suol di Cerere i favori,
Che tra i folti di biade immensi campi
Move sublime, e fuor ne mostra a pena
Tra le spighe confuso il crin dorato.
Bacco e Vertunno i lieti poggi intorno
Ne coronan di poma, e Pale amica
Latte ne preme a larga mano, e tónde
Candidi velli, e per li prati pasce
Mille al palato uman vittime sacre.
Cresce fecondo il lin, soave cura
Del verno rusticale; e d'infinita
Serie ne cinge le campagne il tanto
Per la morte di Tisbe arbor famoso.
Che vale or ciò? Su le natie lor balze
Rodan le capre; ruminando il bue
Lungo i prati natii vada; e la plebe,
Non dissimile a lor, si nutra e vesta
De le fatiche sue: ma a le grand'alme.
Di troppo agevol ben schife, Cillenio
Il comodo presenti a cui le miglia
Pregio acquistino, e l'oro: e d'ogn'intorno
Commercio! risonar s'oda. Commercio!
Tale dai letti de la molle rosa
Sibari ancor gridar soleva; i lumi
Disdegnando volgea dai campi aviti,
Troppo per lei ignobil cura: e mentre
Cartagin dura a le fatiche, e Tiro,
Pericolando per l'immenso sale,
IL MEZZOGIORNO (v. 697-736). 185
Con Toro altrui le voluttà cambiava,
Sibari si volgea sulFaltro lato;
E non premute ancor rose cercando,
Pur di commercio novellava e d'arti.
Né senza i miei precetti e senza scorta
Inerudito andrai, Signor, qualora
Il perverso destin dal fianco amato
T'allontani a la mensa. Avvien sovente
Che un Grande illustre or TAlpi or Toccano
Varca e scende in Ausonia, orribil ceffo
Per natura o per arte, a cui Ciprigna
Róse le nari, e sale impuro e crudo
Snudò i denti ineguali. Ora il distingue
Risibil gobba, or furiosi sguardi
Obliqui o loschi; or rantoloso avvolge
Tra le tumide fauci ampio volume
Di voce che gorgoglia ed esce alfine
Come da inverso fiasco onda che goccia.
Or d'avi, or di cavalli, ora di Frini
Instancabile parla, or de' Celesti
Le folgori deride. Aurei monili
E gemme e nastri, gloriose pompe,
L'ingombran tutto; e gran titolo suona
Dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende
Inclita stirpe ch'onorar non voglia
D'un ospite si degno i lari suoi?
Ei però sederà de la tua Dama
Al fianco ancora: e tu lontan da Giuno
Tra i Silvani capripedi n'andrai
Presso al marito; e pranzerai negletto
Col popol folto degli Dei minori.
Ma negletto non già dagli occhi andrai
De la Dama gentil, che a te rivolti
Incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto
Arderà di faville, e Amor con l'ali
L'agiterà . Nel fortunato incontro
I messagger pacifici dell'alma
Cambieran lor novelle, e alternamente
Spinti rifluiranno a voi con dolce
Delizioso tremito su i cori.
186 IL GIORNO (v. 737-776).
Tu le ubbidisci allora, o se t'invita
Le vivande a gustar che a lei vicine
L'ordin dispose, o se a te chiede in vece
Quella che innanzi a te sue voglie punge
Non col soave odor, ma con le nove
Leggiadre forme onde abbellir la seppe
Deirammirato cucinier la mano.
Con la mente si pascono gli Dei
Sopra le nubi del brillante Olimpo;
E le labbra immortali irrita e move
Non la materia, ma il divin lavoro.
Né inlento meno ad ubbidir sarai
I cenni del bel guardo, allor che quella
Di licor peregrino ai labbri accosta
Colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno
Serpe dorata striscia, o a cui vermiglia
Cera la base impronta, e par che dica :
Lungi, o labbra profane; al labbro solo
De la Diva che qui soggiorna e regna
II castissimo calice si serbi;
Né cavalier con l'alito maschile
Osi appannarne il nitido cristallo,
Nò dama convitata unqua presuma
Di porvi i labbri, e sien pur casti e puri
E quant' esser si può cari all'amore t
Nessun' altra è di lei più pura cosa ;
Chi macchiarla oserà ? Le Ninfe in vano,
Da le arenose loro urne versando
Cento limpidi rivi, al candor primo
Tornar vorrieno il profanato vaso,
E degno farlo di salir di novo
A le labbra celesti, a cui non lice
Inviolate approssimarsi ai vasi
Che convitati cavalieri e dame
Convitate macchiar coi labbri loro.
Tu ai cenni del bel guardo, e de la mano
Che reggendo il bicchier sospesa ondeggia,
Ailettiioso attendi. I guardi tuoi
Sfavillando di gioja accolgan lieti
Il brindisi segreto ;-o tu ti accingi -
IL MEZZOGIORNO (v. 777-816). 187
In siinil modo a tacita risposta.
Immor tal come voi la nostra Musa
Brindisi grida airùno e alT altro amante :
Airaltrui fida sposa a ctii se' caro,
E a te, Signor, sua dolce cura e nostra.
Come annoà o licor Lièo vi mesce,
Tale Amore a voi mesca eterna gioja
Non gustata al marito, e da coloro
Invidiata che gustata V hanno.
Veli con Tali sue sagace oblio
Le alterne infedeltà 6he un cor dall'altro
Potrieno un giorno separar per sempre,
E sole agli occhi vostri Amor discopra
Le alterne infedeltà che in ambo i cori
Ventilar possan le cedenti fiamme.
Un sempiterno indissolubil nodo
Àuguri ai vostri cor volgar cantore ;
Nostra nobile Musa a voi desia
Sol fin che piace a voi durevol nodo.
Duri fin che a voi piace, e non si sciolga
Senza che Fama sopra Tali immense
Tolga l'alta novella, e grande n'empia
Gol reboà to dell'aperta tromba
L'ampia cittade, e dell'Enotria i monti
E le piagge sonanti, e, s' esser puote,
La bianca Teti e Guadiana e Tuie.
Il mattutino gabinetto, il corso.
Il teatro, la mensa in vario stile
Ne ragionin gran tempo: ognun ne chieda
Il dolente marito; ed ei dalFaito
La lamentabil favola cominci.
Tal su le scene, ove agitar solca
L'ombre tinte di sangue Argo piagnente.
Squallido messo al palpitante coro
Narrava, come furiando Edipo
Al talamo corresse incestuoso;
Gome le porte rovescionne, e come
Al subito spettacolo risto
Quando vicina del nefando letto
Vide in un corpo solo e sposa e madre
188 IL GIORNO (v. 817-853).
Pender strozzata ; e del fatale uncino
Le mani armossi, e con le proprie mani
A sé le care luci da la testa
Con le man proprie misero strapposse.*
Ecco volge al suo fine il pranzo illustre.
Già Como e Dionisio al desco intorno
Rapidissimamente in danza girano
Con la libera Gioja : ella saltando.
Or questo or quel dei convitati lieve
Tocca col dito; e al suo toccar scoppiettano
Brillanti vivacissime scintille,
Gh' altre ne destan poi. Sonan le risa ;
E il clamoroso disputar s' accende.
La nobil vanità punge le menti ;
E l'amor di sé sol, baldo scorrendo,
Porge un scettro a ciascuno, e dice : Regna'
Questi i concilj di Bellona, e quegli
Penetra i tempj de la Pace. Un guida
I condottieri; ai consiglier consiglio
L' altro dona, e divide e capovolge
Gon seste ardite il pelago e la terra. **
Qual di Pallade V arti e de le Muse
Giudica e libra; qual ne scopre acuto
L'alte cagioni, e i gran principj abbatte
Gui creò la natura, e che tiranni
Sopra il senso degli uomini regnà ro
Gran tempo in Grecia, e ne la Tosca terra
Rinacquer poi più poderosi e forti.
Cotanto adunque di sapere é dato
A nobil mente? Oh letto, oh specchio, oh mensa.
Oh corso, oh scena, oh feudi, oh sangue, oh avi,
Ghe per voi non s' apprende ? Or tu, Signore,
Gol volo ardito del felice ingegno
T' ergi sopra d' ognaltro. Il campo é questo
Ove splender. più dèi: nulla scienza.
Sia quant' esser si vuole arcana e grande,
Ti spaventi giammai. Se cosa udisti
* Cfr. rode La Gratitudine, st. )9, pag. 86.
*• Cfr. rode La Recita dei versi, pag. 45.
IL MEZZOGIORNO (v. 854-893). 1S9
leggesti al mattino onde tu possa
Gloria sperar; qual cacciator che segue
Circuendo la fera, e si la guida
E volge di lontan che a poco a poco
S' avvicina a le insidie e dentro piomba ;
Tal tu il sermone altrui volgi sagace
Finché là cada ove spiegar ti giovi
Il tuo novo tesor. Se nova forma
Del parlare apprendesti, allor ti piaccia
Materia espor che, favellando, ammetta
La nova gemma ; e poi che il punto hai colto,
Ratto la scopri, e sfolgorando abbaglia
Qual altra è mente che superba andasse
Di squisita eloquenza ai gran convivj.
In simil guisa il favoloso amante
Dell'animosa vergin di Dordona
Ai cavalier che Tassalien superbi
Usar lasciava ogni lor possa ed arte;
Poi nel miglior de la terribil pugna
Svelava il don dell'amoroso Mago:
E quei sorpresi dall'immensa luce
Gadeano ciechi e soggiogati a terra.
Se alcun di Zoroà stro e d'Archimede
Discepol sederà teco a la mensa,
A lui ti volgi : seco lui ragiona.
Suo linguaggio ne apprendi, e quello poi,
Quas' innato a te fosse, alto ripeti;
Né paventar quel che l'antica fama
Narrò de' suoi compagni. Oggi la diva
Urania il crin compose : e gì' irti alunni,
Smarriti, vergognosi, balbettanti.
Trasse da le lor cave, ove pur dianzi
Gol profondo silenzio e con la notte
Tenean consiglio ; indi le serve -braccia
Fornien di leve onnipotenti ond' alto
Salisser poi piramidi, obelischi.
Ad eternar de' popoli superbi
1 gravi casi ; oppur con feri dicchi
Stavan contro i gran letti, o, di pignone
Audace armati, spaventosamente
190 IL GIORNO (v. 894-933).
Cozzavan con la piena, e giù a traverso
Spezzate, rovesciate, rovesciavano
Le tetre corna, decima fatica
D'Ercole invitto, Ora i selvaggi amici
Urania incivili : baldi e leggiadri -
Nel gran mondo li guida, o tra '1 clamore
De' frequenti convivj oppur tra i vezzi
De' gabinetti, ove a la docil Dama
E al saggio Gavalier mostran qual via
Venere tenga, e in quante forme o quali
Suo volto lucidissimo si cambi.
Né del Poeta temerai che beffi
Con satira indiscreta i detti tuoi,
Nò che a maligne risa esponer osi
Tuo talento immortal. Voi l'innalzaste'
All' alta mensa , e tra la vostra luce
Beato l'avvolgeste, e, de le Muse
A -dispetto e d'Apollo, al sacro coro
L'ascriveste de' Vati. Egli 'l suo Pindo
Feo de la mensa : e guai a lui, se quinci
Le Dee sdegnate giù precipitando
Con le forchette il cacciano. Meschino !
Più non potria su le dolenti membra
Del suo infermo Signor chiedere aita
Da ia bona Salute; o con alate
Odi ringraziar, né tesser Inni
Al barbato figliuol di Febo intonso.
Più del giorno natale i chiari albori
Salutar non potrebbe, e l'auree frecce
Nomi-sempiternanti all'arco imporre;
Non più gli urti festevoli, o sul naso
L'elegante scoccar d'illustri dita.
Fora dato sperare. A lui tu dunque
Non isdegna, o Signor, volger talvolta
Tu' amabil voce; a lui declama i versi
Del dilicato cortigian d'Augusto,
O di quel che tra Venere e Lieo
Pinse Trimalcion. La Moda impone
Ch'Arbitrò o Fiacco a un bello spirto ingombri
Spesso le tasche. Il vostro amico vate .
IL MEZZOGIORNO (v 934-954). 191
T'udrà , maravigliando, il sermon prisco
Or sciogliere or frenar qual più ti piace;
E per la sua faretra, e per li cento
Destrier focosi che in Arcadia pasce,
Ti giurerà che di Donato al paro
Il difificil sermone intendi e gusti.
Cotesto ancor di rammentar fia tempo
I novi Sofi che la Gallia e T Alpe
Esecrando persegue; e dir qual arse
De' volumi infelici e andò macchiato
â– D'infame nota; e quale asilo appresti
Filosofìa al morbido Aristippo
Del secol nostro; e qual ne appresti al novo
Diogene dell'auro spregiatore
E della opinione de' mortali. *
Lor volumi famosi a te verranno,
Pale fiamme fuggendo a gran giornate
Per calle obliquo, e compri a gran tesoro;
. O da cortesi man prestati, fièno
Lungo ornamento a lo tuo speglio innanzi.
Poiché scorsi gli avrai pochi momenti
* Pel • morbido Aristippo „ è da intendere il Voltaire (efr. Mattino,
V. 598 ss.); pel * novo Diogene „, G. G. Rousseau. A proposito di co-
stui, è curioso sentire quel che la Duchessa Serbelloni, appassio-
nata lettrice di libri francesi (tradusse, e la versione pubblicò ano-
nima nel 1754 con prefazione di P. Verri, il Teatro del Destouches),
ne scriveva al primogenito Gian Galeazzo eh' era in collegio. TI
22 febbraio 1764: " Vorrei sapere se hai conoscenza del famoso Gian
(iiacomo Rousseau, scrittore stravagantissimo, ma ingegno senza pari,
il piCi cinico di tutt* i filosofi di questa setta „. E il 21 marzo : " Mi
dispiace che tu trovi da leggere così pochi libri francesi: ti conti-
nuerebbero la conoscenza d'una lingua sì necessaria al presente.
Fin che tu rimarrai in collegio, è impossibile che tu possa aver
buoni libri : almeno tienti alla storia. . Veggo bene che certi nomi
non osano penetrare la nebbia d'un collegio. Il Gian Giacomo Rous-
seau che t'indicai non è quello del quale ti feci leggere le odi e
che viveva al principio di questo secolo; ma è un cittadino di Gi-
nevra, filosofo cinico, nemico del genere umano, conosciutissimo
per molte opere, ove sparse tutto il fiele? del suo cuore, ma sopra
tutto pel romanzo della Nuova Eloisa e per un altro libro intito-
lato V Emilio, die è stalo proibito da tutt'i governi, e ove sono di
molte sciocchezze, ma anche delle buonissime cose „. (Cfr. Carducci
Storia del Giorno, p. 27).
19-2 IL GIORNO (v. 955-994).
Specchiandoti, e a la man garrendo indotta
Del parruccliier; poiché t'avran la sera
Conciliato il facil sonno; allora
A la toilette passeran di quella
Che comuni ha con te studj e licèo,
Ove togato in cattedra elegante
Siede interprete Amor. Ma fìa la mensa
Il favorevol loco ove al sol esca
De' brevi studj il glorioso frutto.
Qui ti segnalerai co' novi Sofì,
Schernendo il fren che i creduli maggiori
Atto solo stimar Timpeto folle
A vincer de' mortali, a stringer forte
Nodo fra questi, e a sollevar lor speme
Con penne oltre natura alto volanti.
Chi por freno oserà d' almo Signore
A la mente od al cor? Paventi il vulgo
Oltre natura: il debole Prudente
Rispetti il vulgo; e quei, cui dona il vulgo
Titol di saggio, mediti romito
Il Ver celato, e alfìn cada adorando
La sacra nebbia che lo avvolge intorno.
Ma il mio Signor coni' aquila sublime
Dietro ai Sofì novelli il volo spieghi.
Perchè più generoso il volo sia,
Voli senz'ali ancor; né degni '1 tergo
Affaticar con penne. Applauda intanto
Tutta la mensa al tuo poggiare ardito.
Te con lo sguardo e con l'orecchio beva
La Dama da le tue labbra rapita;
Con cenno approvator vezzosa il capo
Pieghi sovente: e il calcolo^ e la massa,
E V inversa ragion sonino ancora
Su la bocca amorosa. Or più non odia
De le scole il sermone Amor maestro;
Ma l'accademia e i portici passeggia
De' filosofi al fianco, e con la molle
Mano accarezza le cadenti barbe.
Ma guardati, o Signor, guardati, oh dio!
Dal tossico mortai che fuora esala
IL MEZZOGIORNO (v. 995-1034), 193
Dai volumi famosi; e occulto poi '
Sa, per le luci penetrato all'alma,
Gir serpendo nei cori; e con fallace
Lusinghevole stil corromper tenta
Il generoso de le stirpi orgoglio
Che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli
Che ciascun de' mortali all'altro è pari ;
Che caro a la Natura e caro al Cielo
È non meno di te colui che regge
I tuoi destrieri, e quei ch'ara i tuoi campi;
E che la tua pietade e il tuo rispetto
Dovrien fino a costor scender vilmente.
Folli sogni .d'infermo! Intatti lascia
Cosi strani consigli; e sol ne apprendi
Quel che la dolce voluttà rinfranca,
Quel che scioglie i desiri, e quel che nutre
La libertà magnanima. Tu questo
Reca solo a la mensa, e sol da questo
Cerca plausi ed onor. Cosi dell'api
L'industrioso popolo ronzando
Gira di fiore in fior, di prato in prato;
E i dissimili sughi raccogliendo,
Tesoreggia nell'arnie; un giorno poi
Ne van colme le pà tere dorate
Sopra l'ara de' numi, e d' ogn' intorno
Ribocca la fragrante alma dolcezza.
Or versa pur dall'odorato grembo
I tuoi doni, o Pomona; e l'ampie colma
Tazze che d'oro e di color diversi
Fregiò il Sà ssone industre: il fine è giunto
De la mensa divina. E tu dai greggi,
Rustica Pale, coronata vieni
Di melissa olezzante e di ginebro;
E co' lavori tuoi di presso latte
Vergognando t'accosta a chi ti chiede,
Ma deporli non osa. In su la mensa
Potrien deposti le celesti nari
Gommover troppo, e con volgare olezzo
Gli stomachi agitar. Torreggin solo
Su' ripiegati lini in varie forme
13
194 IL GIORNO (v. 1035-1074).
I latti tuoi cui di serbato verno
Rassodarono i sali, e reser atti
A dilettar con subito rigore
Di convitato cavalier le labbra.
Tu, Signor, che farai poiché fìe posto
Fine a la mensa, e che, lieve puntando.
La tua Dama gentil fatto avrà cenno
Che di sorger è tempo? In piò d'un salto
Balza prima di tutti; a lei t'accosta,
La seggiola rimovi, la man porgi;
Guidala in altra stanza, e più non soffri
Che lo stagnante de le dapi odore
II célabro le offenda. Ivi con gli altri
Gratissimo vapor t'invita ond' empie
L'aria il caffé che preparato fuma
In tavola minor cui vela ed orna
Indica tela. Ridolentc gomma
Quinci arde intanto; e va lustrando e purga
L'aere profano, e fuor caccia del cibo
Le volanti reliquie. Egri mortali.
Cui la miseria e la fidanza un giorno
Sul meriggio guidà ro a queste porte-
Tumultuosa, ignuda, atroce folla
Di tronche membra e di squallide facce,
E di bare e di grucce, ora da lungi
Vi confortate; e per le aperte nari
Del divin pranzo il nettare beete
Che favorevol aura a voi conduce:
Ma non osate i limitari illustri
Assediar, fastidioso offrendo
Spettacolo di mali a clii ci regna.
Or la piccola tazza a te conviene
Apprestare, o Signor, clie i lenti sorsi
Ministri poi de la tua Dama ai labbri :
Or memore avvertir s'ella più goda,
O sobria o liberal, temprar col dolce
La bollente bevanda, o se più forse
L' ami cosi, come sorbir la suole
Barbara sposa, allor che, molle assisa
Su' broccati di Persia, al suo signore
IL MEZZOGIORNO (v. 1075-1111). 195
Con le dita pieghevoli '1 selvoso
Mento vezzeggia e, la svelata fronte
Alzando,il guarda ; e quelli sguardi han possa
Di far che a poco a poco di man cada
Al suo signore la fumante canna.
Mentre il labbro e la man v'occupa e scalda
L'odorosa bevanda, altere cose
Macchinerà tua infaticabil mente.
Qual coppia di destrieri oggi de' il carro
Guidar de la tua Dama : o l'alte moli
Che su le fredde piagge educa il Cimbro;
O quei che abbeverò la Drava ; o quelli
Che a le vigili guardie un di fuggirò
Da la stirpe Campana. Oggi qual meglio
Si convenga ornamento ai dorsi alteri:
Se semplici e negletti, o se pomposi
Di ricche nappe e variate stringile
Andran su l'alto collo i crin volando;
E sotto a cuoi vermigli e ad auree fibbie
Ondeggeranno li ritondi fianchi.
Quale oggi cocchio trionfanti al corso
Vi porterà : se quel cui l'oro copre,
O quel su le cui tavole pesanti
Saggio pennello i dilicati fìnse
Studj dell'ago onde si fregia il capo
E il bel sen la tua Dama, e pieni vetri
Di freschissima linfa e di fior varj
Gli diede a trascinar. Cotanta mole
Di cose a un tempo sol nell'alta mente
Rivolgerai; poi col supremo auriga
Arduo consiglio ne terrai, non senza
Qualche lieve garrir con la tua Dama.
Servi le leggi tue 1' auriga : e intanto
Altre v'occupin cure. — 11 gioco puote
Ora il tempo ingannare : ed altri ancora
Forse ingannar potrà . Tu il gioco eleggi
Che due soltanto a un tavoliere ammetta:*
• Ino de' testi, dal v. 109G al v. 1111: " Vi jiorlcrà : se quel cui l'oro
copro Fulf^ido al sole, e de' voslr'alti aspetti Per cristallo set-
''i^: r. AV 'j[:?fi -A'.-zi'iT^tm !ìs^? v:-:-:! lei
f • = ^ ', r -z Ci -': •': -i -'• ! Iri i -::l-; i ■:. : ? h i era «? :^n-:!e>s '■.
l''/i' ::'.•: li rozz-'.. rn'jri*..:'. ai Xr-^-'.' eguale.
'*'i'jAh',h i(ìh\ S'::rfir>r: -■• -T-iasi biscia
^;:*'j \!\':'j/iU'\''}, or all'irij-arii:» il ■:.:ill.-k.
\ ; fji.ì vri-ìr'j c'-ri ^'li .'■r'r::hi a-?uti
Kr-;j [/,'•■; ^':n**:. W;iirn-f' ?.«rn- ì;!-»!! cenni.
O '^•/yfj rj'/.''j"?j *..h':':\-ri L*i;jrriraai.
o '':'j:j =t-:-. j -«•:•] '■vi. h bi <«ia ninfa
<\]\v:\':i' UH':-: ri Jii-jj ? Ojni 'l'Am -re
r^UnUi'jriiiiUri finissimo vincaia
L?i i/»; lo sia 'l';l rustico marito.
Clio più licr; sporai-e? Al tempio ei corre
fj«;l nume accorto ciie le serpi intreccia
All'aurea ver^a. e il capo e le calcagna
h'ali fornisce. A lui si prostra umile:
K in questa ^uisa, lai^rimando, il prega:
^ O [)ropizio a^li amanti, o buon figliuolo
I)«; la e^nrlidij Maja, o tu che d'Argo
Ixdudesti i cent' occhi e a lui rapisti
I.a ^niardata giovenca, i preghi accetta
D'un amante inffilice; e a me concedi
S<; nonglioc^'Jii ingannar, gli orecchi almeno
I)'un marito imi)r)rtuno ». Ecco si scote
Il divin simulaci'o, a lui si china,
iciiiplif'c cdiirrdc Al popolo bearsi; o quel che tutto Caliginoso
e tristo, e .'i la niariiiorca Tomba simil che de' vostr'avi chiude
I (■.'kI.'ivitì <'C(-<-Isi, ainiiietto n peiin Cùpido sguardo altrui. Co-
i.'iiilii mole Di coso a un tempo sol nell'alto ingegno Tu verserai;
poi col supremo auriga Arduo consiglio ne terrai, non senza
Oiialclii' lieve garrir con la tua dama. Servi l'auriga ogni tua
le;,'ge: e in lauto Altra cura subentri. Or mira i prodi Com-
p.'U'.iii (noi che. ministrato a pena Dolce conforto di vivande a
i membri, (ìià scelto il campo, e già distinti in banda, Prepa-
ransi gìuoeando a lieri assalti. (>)sl a queste, o Signore, illu.stre
inganno Ore lente si faccia. I^ s'altri ancora Vuole Amor che
s'iii;',anni. altroude pugni La turba convitata; e tu da un lato
Sol eoo la dama tua (|uel gioco eleggi Che due sol tanto a un
taviiliere ammelt:i. ,
IL MEZZOGIORNO (v. 1139-1178) 197
Con la verga pacifica la fronte
Gli percote tre volte; e il lieto amante
Sente dettarsi ne la mente un gioco
Che i mariti assordisce. A lui diresti
Che l'ali del suo pie concesse ancora
11 supplicato Dio: cotanto ei vola
Velocissimamente a la sua donna.
LÃ bipartita tavola prepara,
Ov' ebano ed avorio intarsiati
Regnan sul piano, e partono alternando
In dodici magioni ambe le sponde.
Quindici nere d'ebano girelle
E d'avorio bianchissimo altrettante
Stan divise in due parti; e moto e norma
Da due dadi gitlati attendon, pronte
Ad occupar le case, e quinci e quindi
Pugnar contrarie. Oh cara a la Fortuna
Quella che corre innanzi all'altre, e seco
Ha la compagna onde il nemico assalto
Forte sostenga ! Oh gioca tor felice
Chi pria l'estrema casa occupa; e l'altro
De le proprie magioni ordin riempie
Con doppio segno, e quindi poi securo
Da la falange il suo rivai combatte;
E in proprio ben rivolge i colpi ostili!
Al tavolier s'assidono ambidue,
L'amante cupidissimo e la ninfa;
Quella occupa una sponda e questi l'altra.
11 marito col gomito s'appoggia
All'un de' lati; ambi gli orecchi tende;
E sotto al tavolier di quando in quando
Guata con gli occhi. Or l'agitar dei dadi
Entro ai sonanti bòssoli comincia;
Ora il picchiar de' bòssoli sul piano;
Ora il vibrar, lo sparpagliar, l'urtare,
Il cozzar de' due dadi; or de le mosse
Pedine il martellar. Torcesi e freme
Sbalordito il geloso: a fuggir pensa,
Ma rattienlo il sospetto. Il romor cresce,
Il rombazzo, il frastono, il rovinio.
198 IL GIORNO (v. 1179-1194).
Ei più regger non puole; in piedi balza,
E con aml)e le man tura gli orecchi.
Tu vincesti, o Mercurio: il cauto amante
Poco disse, e la bella intese assai.
Tal ne la ferrea età quando gli sposi
Folle superstizion chiamava all'armi
(jiocato fu. Ma poi che l'aureo fulsc
Secol di novo, e ciie del prisco errore
Si spogliaro i mariti, al sol diletto
La Dama e il Cavalier volsero il gioco
Che la necessità scoperto avea.
Fu superfluo il romor: di molle panno
La tavola vestissi, e de' patenti
Hòssoli 1 sen: lo soJiiamazzio molesto
Tal rintuzzossi; e durò al gioco il nome
Che ancor l'antico strepito dinota.
Questa seconda [)arle del (ìioriio comparve due anni dopo del
Manilio, in un volumetto di 64 pagine in IG", col frontispizio: //
Mezzogiorno. Pociiìcllo. Milano, Galeazzi, 1705. {.'imprimatur è del
21 luglio. L'anno slesso fu ristampato in Venezia dal (^olonibani;
e, negli anni successivi, altrove da altri. Nel IS'X) il Bodoni ripub-
blicò a Parma i due poonn'lti separatamente. Nel 1801 venne fuori
r edizione del Ueina.
Ammaestrato dalle cabale dei librai e degli editori, questa volUi
il Parini provvide per ottenere la privativa: la quale fu concessa
il 21 luglio 170.'), con un rescritto che, nel rendere onore al poeta,
riesce onorevolissimo per 1" illuminato (lovorno onde emanava.
Reggeva allora la Lombardia, per conto dell'Austria, il duca Fran-
cesco III d'Este. padre della buona Maria Beatrice (v. più su, p. 117) ,
'^ Comendando il Serenissimo Amministratore „, diceva, "l'applica-
zione e il valore <leir abate (ìiuseppe Parini, che con molto ap-
plauso di questo Pubblico pnxlusse già il leggiadro e .sensato poe-
metto intitolato 11 mattino, che ben si meritò l'accettazione e di-
stinto aggradimento d'ogni ordine di persone, si compiace S. A. S.
egualmenle di sentire che esso abate sia ora per fare l'edizione
di un altro somigliante poemetto intitolato 11 mezzogiorno; e non
dubitando S. A. S. che sia esso per riuscire dello stesso valore del
primo, ha stimalo di doversi prestare alV istanza che l'autore le ha
IL MEZZOGIORNO. 199
fatta per una privativa dell'edizione medesima, di modo che venga
fatto argine all'inofficiosa avidità de' stami)atori si nazionali che
esteri „. (Cfr. Carducci, Storia del Giorno, p. 67).
Quale apparve nel 1765, il Mezzogiorno contava 1376 versi ; che
nell'edizione del Reina furon ridotti a 1194: i rimanenti, con poche
modificazioni, furono trasferiti al terzo poemetto, il Vespro. Nel-
l'ultimo rifacimento, ritrovato nelle carte parinìane, il titolo è mu-
tato in Meriggio; già da prima però il secondo verso suonava: Sul
meriggio innoUrarnii ecc.
A commento della mirabile dipintura del pranzo patrizio, eh" è
fatta in questo poemetto (v. 626 ss.), e delle discussioni che vi si
accendono, mi si permetta di riprodurre qui in parte quanto mi
avvenne di scriverne in due numeri del Corriere della Sera (23 e
24 settembre 1897).
Il Canili (L'ab. Parini, 1854, p. 380) avvertiva essere allora più.clie
mai di moda le teorie economiche del Colbert (si ricordino i versi
precedenti, 212-13, a proposito della gran mente del Re dei cuochi,
" del paese uscita ove Colbert e Richclieu fur chiari „), " che vo-
leva tutte le cure de' governi rivolte a far fiorire le arti e le ma-
nifatture, anzi che la prima fonte delle ricchezze, l'agricoltura „;
e soggiungeva: "Parini mostra bene di sentir diversamente, e sa
vedere la ricchezza delle nostre glebe,. Ma giova determinare chi
propriamente fra i nobili lombardi, seguaci del Colberfismo, il poeta
prendesse di mira; e indagare se per avventura le sue opinioni
economiche ci non le derivasse da altri.
In quel fanatico campione del commercio e delle industrie è
stalo facilmente riconosciuto il conte Pietro Verri. Il quale non è
certo da confondere con un qualunque Sardanapalo lombardo. Era
anzi un nobile esempio di quel che potesse e dovesse essere un
patrizio degno e illuminato. Non andava immune però di qualche
pregiudizio e della boria vanitosa della sua classe; cosi da scrivere
nel Ca/fò, il giornale eh' egli fondò nel giugno 1764 e che pubblicò
sino al giugno 1766, biasimando la prima parte del Giorno pari-
iiiaiio, che " nessuno, facendo il confronto di sé medesimo colla
pittura di (luel Ganimede „ avrebbe potuto " mai sinceramente
sentire la superiorità propria sopra di esso, nò rìdere di cuore per
e )nseguenza „. E soggiungeva: "il solo sentimento, che da pitture
si ben esprèsse può nascere, è il desiderio di poter fare altret-
tanto „. Aristocratico di nascita e frequentatore di salotti aristocra-
tici, ei non tollerava che dei suoi pari sorgesse a sparlare un pre-
tonzolo brianzuolo.
Che agli occhi del Conte aveva anche un altro torto: d'essere
sialo largamente encomiato in quella Frusta letteraria^ dove e il
giornale il Caffé e il primo Saggio sul Commercio di Milano ave-
vano riscosso biasimi. (Cfr. più su, p. 64). Cosi il critico e il poeta
divennero pel Verri la pietra di paragone dell'abbiettezza e del-
l' invidia. Scrivendo, nel dicembre 1766, al fratello Alessaijdro, di
200 IL GIORNO.
non so quale ingratitudine del Beccaria, egli finiva col dire: " il suo
cuore differisce soltanto per alcuni gradi dai Parini e dai Baretti „.
E Alessandro scriveva a lui nell' anno appresso : â– quel tempo, che
ho impiegato a scrivere contro i pedanti, meglio era impiegarlo
a scoprir nuove maniere di meritare li urli della mediocrità : io
scrissi al Parini e suoi compagni, e dimenticai che scriveva al
pubblico, il quale non è composto di Parini, ed animali come costui
sono rari assai al mondo, per quanto io ho veduto ,. E non aveva
tutti i torti!
Anche nel salotto di casa Serbelloni il conte Verri veniva assiduo
ospite, e festeggiato e desiderato ; ma non sappiamo quali occhiate
si scambiassero con l'abatino pedagogo che, in un cantuccio, medi-
tava il Giorno. Certo è però che i)ur nel Mattino c'è qualche punta
che sembra diretta contro l'elegante economista; il quale, nota non
senza malizia il Reina (I, xii), era "in quella stagione vaghissimo
di primeggiare per certo suo talento mirabile».
Un argomento di moda era il Lusso; era questo da biasimare o da
incoraggiare ? L' opinione del Verri è esplicitamente dichiarata
qua e là nel Caffé. * La ragione ci prova l' utilità e la necessità del
lusso,, egli vi diceva in certe Considerazioni sul lusso; "l'autoritÃ
si unisce alla ragione, e la spcrienza e' insegna che le virtù socia-
bili, l'umanità , la dolcezza, hi perfezione delle arti, lo splendore
delle nazioni, la coltura degl'ingegni, sono sempre andate crescendo
col lusso ; quindi i secoli veramente colti sono stati i secoli del
maggior lusso „. E in un altro artìcolo, sugli Elementi del commercio^
soggiungeva : " Quel lusso pel quale vive la maggior parte degli ar-
tigiani; quel lusso il quale e solo mezzo per cui le ricchezze radu-
nate in poche mani tornino a spargersi nella nazione; quel lusso
il quale, lasciando la speranza ai cittadini di arricchirsi, è lo sprone
più vigoroso dell' industria ; quel lusso finalmente il quale non va
mai disunito dalla universale coltura e ripulimento della nazione...
Nulla di nuovo in questa tesi. Già TAlgarotti (1712-1764), in una
sua Epistola sopra il commercio, aveva insegnato:
S'egli dai patrii beni e non d'altronde
Tragge alimento e vita, è il Lusso industre
Anima che si mesce al corpo immenso
Dello Stato, e ogni parte agita e scalda;
È il Lusso il bel legame onde ai bisogni
Del povero sovvien l'oro del ricco
E non so se prima o dopo 1" Algarolti, il Voltaire aveva vivace-
mente contradetto un luogo del La Bruyère inneggiante alla sem-
plicità degli antichi. • Bisognerebbe , , osservava, " che vivesse come
un povero colui, il lusso del quale unicamente fa vivere i poveri?
I^ spesa dev'essere il termometro della fortuna di un privato, e
il lusso generale è V infallibile contrassegno di un impero potente
e rispettabile... Il danaro è fatto per circolare, per far nascere tutte
le arti ; chi lo serba è un cattivo economo ,. ( Mélange de litté'
rature, ecc.).
IL MEZZOGIORNO. 201
Tuttavia la satira del Parini prendeva specialmente di mira chi
di siffatte dottrine si faceva banditore in Lombardia, anzi nelle
conversazioni patrizie di Milano, E a proposito del merciaiuolo,
tornante in patria " liberal di forestieri nomi a merci che non mai
varcaro i monti „ {Matt, v. 648-9), egli, mostrandosi compreso d'en-
tusiasmo per r " amabil vincitore „ della * necessitade, antiqua madre
e donna dell'arti „, esclamava (667-70): "Il Lusso, il Lusso Oggi sol
puote dal ferace corno Versar su l'arti a lui vassalle applausi E non
contesi mai premj e dovizie ,. E più avanti, aggiungendo ancora
dell'aloe al suo vino, nei ritocclii fatti al poema, rivolgeva per punta
la parola al " fortunato garzone „ a cui la Moda preparò • in fioriti
canestri , ornamenti e pompe in gran copia (p. 148) :
La notte intera
Faticaron per te cent' aghi e cento;
E di percossi e ripercossi ferri
Per le tacite case andò il rimbombo.
Ma non in van, poi che di novo fasto
Oggi superbo nel bel mondo andrai ! ...
E ancora un po' più giù, nell'abbigliare il nobile alunno, gli doman-
dava (p. 151):
Vuoi tu i lieti rubini ? O più t' aggrada
Sceglier quest'oggi l'indico adamante,
LÃ dove il Lusso incantata costrinse
La fatica e il sudor di cento buoi
Che pria vagando per le tue campagne
Fa:ean sotto a i lor pie' nascere i beni?
Or come mai il Parini osava metter bocca in questioni econo-
miche e opporsi al Verri che in quella disciplina veniva acqui-
stando gran fama? Dietro una recente indicazione di Marco Lan-
dau, data in una magra noterella a un suo feuilleton su Pietro
Verri inserito nella Wiener Zeitung del 25 giugno 1897, mi par lecito
d'affermare che all'autorità dell'economista lombardo il poeta con-
trapponeva quella dell' economista napoletano che più aveva fatto
e faceva parlare di sé e di qua e di là dalle Alpi, il Galiani (1728-1787).
Tutti sanno qual maraviglioso impasto di serietà e scherzo, di
dottrina e di grazia, di buon senso e di buonumore fosse codesto
abatino abruzzese, che, inviato nel 1759 come segretario d' amba-
sciata del Re di Napoli a Parigi, seppe conquistarvi l' ammirazione
del Voltaire, del Diderot, del Grimm. Quest'ultimo scrisse di lui:
" Ce petit étre, né au pied du mont Vésuvc, est un vrai phénomènc
Il joint à un coup d'oeil lumineux et profond une vaste et solide
crudition; aux vues d'un homme de genie, l'enjouement et les
agrénients d'un homme qui ne cherche qu'à amuser et à plairc: ccst
Platon avec la verve et les gestes d'Arlequin „. E il Marmontel sog-
giungeva che • sur les épaules de cet Arlequin était la téte de
21)2 Hi GIORNO.
Machiavel „. Più tardi il Voltaire, nel ringraziare il Diderot d'avergli
niandato i Dialogues sur le Commerce des grains, che l' abate aveva
scritti ili Francia e in francese e che il Diderot aveva pubblicati con
la data di Londra nel 1770, gli diceva : " Dans ce livre, il me scmble
(jue Platon et Molière se soient réunis pour composer cet ouvrage...
On n'a jamais raisonné ni niieux ni plus plaisaniment. Oh! le plaì-
sant livre! Quii ma fait de plaìsirs, que je sais bon gre à l'auteur! „
A venlidue anni aveva dalo alla hice in Napoli, anonimi, i cinque
libri Della Moneta, che segnano un memorabile momento nella
storia della scienza economica. Il primo periodo di codesto " ele-
gante trattato ,, che, come affermò il Foscolo, insieme con quello
del Beccaria " vivranno nobile ed eterno retaggio tra noi „ è giÃ
per sé solo un elegante paradosso, e s' intende come conciliasse
subilo all'autore le simpatie dei lettori. " E cosa meravigliosa,, egli
comincia, " ed assai diffìcile a spiegare donde avvenga, che gli uo-
mini, i quali alla coltura dell'animo si sono api)licati, ed il nome
di savi e virinosi han bramalo meritare, quasi tutti hanno comin-
ciato dal rendersi inutili all'umana società ; e fuori di lei in certo
modo trattisi, a quegli sludi ed a quel genere di vita si sono dati,
in cui poco a se, niente agli altri, potevano d'utilità arrecare: e per
(jnesto stesso appunto, quando meritavano biasimo e disprezzo,
sono stati dal popolo ad una voce lodati ed ammirali „.
Non può essere lecito dubitare che il Parini conoscesse un siffatto
libro, nato, sì può dire, famoso. Oltre il resto, il (ìaliani, dal 1751
al 1753, aveva viaggialo per le principali città d'Italia, dovunque
preceduto dalla reputazione sempre crescente del suo libro e festeg-
gialo dalle Corti e dalle accademie. Fgli i)roveniva dalla città dove
lì )ri vano Antonio Genovesi (1712-1)9), l'Intieri, ilOarcani,il Tommasi;
dove regnava un principe promotore di riforme qual era Carlo III,
e governava un ministro capace di attuarle quale il Tanucci; e le
condizioni poliliche della nativa regione eran tali da suggerire
all'autore della Mom'ta le palriottiche parole della Conclusione
dell'opera: "Mi duole però e mi affligge che mentre i regni di Na-
l)()lì e di Sicilia risorgono, e si sollevano colla presenza del proprio
sovrano, il restante d" Italia ni:inchi sensibilmente di giorno in
giorno e declini,. Ohimè I tra poco il malgoverno di Ferdinando
e di Maria Carolina avrebbero strozzalo, nel Napoletano, quel bene
auspicalo progresso, e fatto sì che le parli s'invertissero comple-
tamente tra il grande e autonomo Slato del Mezzogiorno e i piccoli
Siali del Centro e del Settentrione!
A proposito dunque del commercio, il Caliaui. quindici anni
prJMia che il Parini mettesse fuori il suo secondo poemetto, osser-
vava (1. IV, cap. 1, p. .'U3-r>) che la mancanza del commercio in
Italia era allora da molli "scioccamente attribuita a nostro difetto .
\\ parinianamenle soggiungeva: "Noi gridiamo Commercio! Com-
lììvrcio! invece di dire armi e virtù militare..-. L'ingrandirsi uno
Stalo colla vendila delle merci sue natie è pregio dell'agricoltura
non del commercio;.... l'agiicoltura è la madre delle ricchezze...
Io non dico „, concludeva, " che presso di noi il commercio non
possa ricevere grandissimi miglioramenti ...; ma convien esser per-
IL MEZZOGIORNO. 203
suaso che il commercio senz'aumento d'agricoltura.... è uno spettro
e un'ombra vana. E sebbene il commercio e l'agricoltura sieno
concatenate insieme in guisa tale che ciascuno è effetto insieme e
cagione dell'altro, pure, riguardando più attentamente, si troverÃ
esser anteriore sempre l' agricoltura al traffico : perchè il florido
commercio viene dall'abbondanza dei generi superflui, e questa
dall'agricoltura; la quale è fatta dalla popolazione, la popola-
zione dalla libertà , la libertà dal giusto governo „.
Quanto poi al Lusso, il Galiani accodava al capitolo I del quarto
libro del suo trattato (pag 287) tutta una Digressione intorno al
lusso considerato generalmente: la quale non solamente forse non
rimase estranea agli accenni che a quell'argomento fece il Parini,
ma neanche alle osservazioni del Voltaire, dell' Algaro Iti, del Verri.
Ci sono alcuni pregiudizi legati a certe parole, notava l' econo-
mista napoletano ; una di esse è appunto il Lusso. " Si dice ch'ei sia
dannoso e brutto, lo vietano i maestri del costume „ — il Voltaire
specificò il La Bruyère - , " lo deplorano gli storici e più anche gli
oratori e i poeti, lo deridono i comici, l'odiano le leggi, si riprende
nelle private conversazioni; e intanto n' è pieno il mondo, tutte
le nazioni e tutti i secoli, fuorché i barbari e ferini, lo hanno avuto...
Kgli è il figliuolo della pace, del buon governo, e della perfezione
delle arti utili alla società ; fratello perciò alla terrena felicità , poiché
il lusso altro esser non può che l'introduzione di que' mestieri
e lo spaccio di quelle merci, che sono di piacere, non di bisogno
assoluto alla vita. Non può perciò nascere il lusso, se i»on quando
le arti necessarie sono a sufficienza di operai provvedute.... Allora
restano disoccupati molti: e costoro, per non morir di fame, si
volgono a soddisfare gli uomini con lavori men neccsssari: ed
ecco il lusso „. È vero, continua, che esso è indizio di decadenza;
"ma lo è non altrimenti che l'ingiallir delle .spighe è segno del
vicino disseccamento : indizio di declinazione, ma pur tanto aspet-
talo e bramato, e per cui tanti sudori eransi sparsi, tante cure prese,
tanti travagli sofl'erli; indizio che nella bella stagione apparisce,
e colla letizia universale è sempre congiunto „. Tuttavia non è da
applaudire al lusso, come fece il Melun, lodandolo quasi origine
di ogni bene, dacché esso " è etTelto e non cagione del buon go-
verno : a lui va dietro, ed è spesso il corruttore e l'inimico suo „.
Neanche è però tanto da maledire, " poiché può ridursi ad esser
lah' che non sia molto nocivo, facendo consumar dal lusso le in-
dustrie de' concittadini, non quelle degli stranieri ». Codesto con-
cetto versificò poi l'Algarotti.
11 (ialiani procede oltre nelle sue deduzioni da vero giacobino
in anticipazione : non senza un perché in Francia, tra gli allesti-
menti morali della grande rivoluzione, egli si trovava meglio che
a casa sua ! " Se pel lusso le famiglie nobili s' impoveriscono e
s' estinguono, le popolari si moltiplicano e si sollevano. Una sola
dilferenza V é, che le antiche famiglie, essendo sorte in tempi fe-
roci, non hanno altra origine che fra l'armi, né altre ricchezze di
quelle che la rapacità , le guerre e le discordie dettero loro. Le
nuove, coir industria, in seno alla pace, ne' secoli di lusso, si sono
204 IL GIORNO.
ingrandite. Delle quali maniere di crescere quale sia la migliore
è facile a definire „. E continua : " Mi meraviglio bene che molli
maestri del costume, non avvertendo che si lasciano dall'errore
comune trasportare, gridino si forte contro al lusso, prendendo
tanta cura della conservazione di quelle famiglie, che spesso ad
altro non servono che come motiumenti illustri della infelicità de'
secoli passati». Les aristocrates à la Lanterne! L'abate Parini, che
altri vorrebbe far passare per rivoluzionario e peggio, in confronto
dell'abate diplomatico, fa la figura, che meglio gli conviene e più
rassomiglia al vero, d' un conservatore !
Ma il poeta e l'economista concordano quando questi conclude
notando: "Ciò che ho detto s' intende tutto del lusso generalmente
riguardato, poiché ve ne sono molti particolarmente cattivi. Tale
è quello che ritiene molle persone oziose ed inutili, quello che
scema a' poveri l' elemosine, quello che ha con sé congiunta la
impuntualità de' debitori. Difetti tutti meritamente ripresi e cor-
retti ,. In quest'ultima frase pardi vedere l'anticipata approva-
zione, da parte dello statista abruzzese, della piu'ificatrlcc opera
del gran poeta brianzuolo.
IL VESPRO
POEMETTO
Ma de gli augelli e de le fere il giorno
E de' pesci squammosi e de le piante
E dell* umana plebe al suo fin corre.
Già sotto al guardo de la immensa luce
Sfugge r un mondo: e a berne i vivi raggi
Cuba s'affretta e il Messico e Taltrice
Di molte perle California estrema :
E da' maggiori colli e dall'eccelse
Rocche il sol manda gli ultimi saluti
Air Italia fuggente; e par che brami
Rivederti, o Signor, prima che l'Alpe
O l'Appennino o il mar curvo ti celi
A gli occhi suoi. Altro fìnor non vide
Che di falcato mietitore i fianchi
Su le campagne tue piegati e lassi,
E su le armate mura or braccia or spalle
Carche di ferro, e su le aeree capre
De gli edificj tuoi man scabre e arsicce,
E villan polverosi innanzi a i carri
Gravi del tuo ricolto, e su i canali
E su i fertili laghi irsuti petti
Di remigante che le alterne merci
A' tuoi comodi guida ed al tuo lusso :
Tutti ignobili aspetti. Or colui veggia
Che da tutti servito a nullo serve. *
* Questo l)rano faceva parte del Mezzogiorno, neiredizione del
17G5, e vi si leggeva cosi :
" Già de le fere e degli augelli il giorno, E de' pesci notanti,
V. de' fior varj. Degli ali)eri, e del vulgo al suo fin corre. Di
sotto al guardo delT immenso Febo Sfugge T un Mondo; e a berne
e
208 IL GIORNO (v. 26-54)
Pronto è il cocchio felice. Odo le rote,
Odo i lieti corsier che airalma sposa
E a te suo fido cavalier nodrisce
Il placido marito. Indi la pompa
Affrettasi de' servi: e quindi attende
Con insigni berretti e argentee mazze
Candida gioventù, che al corso agogna
1 moti espor de le vivaci membra;
E nell'audace cor forse presume
A te rapir de la tua bella i voti.
Che tardi ornai? Non vedi tu cornicila
Già con morbide piume a i crin leggeri
La bionda che svani polve rendette;
E con morbide piume in su la guancia
Fé' più vermiglie rifiorir che mai
Le dall'aura predate amiche rose ?
Or tu nato di lei ministro e duce
L'assisti all'opra : e di novelli odori
La tabacchiera e i bei cristalli aurati
Con la perita mano a lei rintegra;
Tu il ventaglio le scegli adatto al giorno;
E tenta poi fra le giocose dita
Come agevole scorra. Oh qual con lieti
Né ben celati a te guardi e sorrisi
Plaude la Dama al tuo sagace tatto 1
Ecco ella sorge, e del partir dà cenno:
Ma non senza sospetti e senza baci
A le vergini ancelle il cane affida.
Al par de' giochi, al par de' cari figli
i vivi raggi Cuba s' arfreUa, e il Messico, e l' allrice Di mo Ite
perle California estrema. Già da' maggiori colli e dall'eccelse
Torri il Sol manda gli ultimi saluti AU' Italia fuggente: e par
che brami Rivederti, o Signore, anzi che l'Alpe O l'Appennino,
o il mar curvo, ti celi Agli occhi suoi. Altro finor non vide Che
di falcato mietitore i fianchi Su le campagne tue piegati e lassi,
E su le armate mura or fronti or spalle Cardie di ferro, e su
le aeree capre Degli edificj tuoi man scabre e arsicce, E vlUan
polverosi innanzi ai carri Gravi del tuo ricolto, e su i canali E
su i fertili laghi irsute braccia Di remigante che le alterne merci
Al tuo comodo guida ed al tuo lusso: Tutt' ignobili oggetti. Or
colui vegga Che da tutti servito a nullo serve „.
Ih VESPRO (v. 55-94). 209
Grave sua cura: e il misero dolente,
Mal tra le braccia contenuto e i petti,
Balza e guaisce in suon che al rude vulgo
Ribrezzo porta di stridente lima,
E con rara celeste melodia
Scende a gli orecchi de la dama e al core.
Mentre cosi fra i generosi affetti
E le intese blandizie e i sensi arguti
E del cane e di sé la bella oblia
Pochi momenti; tu di lei più saggio
Usa del tempo: e a caro speglio innante
I bei membri ondeggiando alquanto libra
Su le gracili gambe; e con la destra
Molle verso il tuo sen piegata e mossa
Scopri la gemma che i bei lini annoda,
E in un di quelle ond* hai si grave il dito
L'invidiato folgorar cimenta:
Poi le labbra componi: ad arte i guardi
Tempra qual più ti giova; e a te sorridi.
Al fin tu da te sciolto, ella dal cane.
Ambo al fin v'appressate. Ella da i lumi
Spande sopra di te quanto a lei lascia
D'eccitata pietà Tamata belva;
E tu sopra di lei da gli occhi versi
Quanto in te di piacer destò il tuo volto.
Tal seguite ad amarvi; e insieme avvinti,
Tu a lei sostegno, ella di te conforto.
Itene omai de' cari nodi vostri
Grato dispetto a provocar nel mondo.
Qual primiera sarà che da gli amati
Voi sul Vespro nascente alti palagi
Fuor conduca, o Signor, voglia leggiadra ?
Pia hi santa Amistà : non più feroce
Qual ne' prischi eccitar tempi godea
L' un per l'altro a morir gli agresti eroi;
Ma placata e innocente al par di questi,
Onde la nostra età sorge si chiara.
Di Giove alti incrementi. — Oh dopo i tardi
De lo specchio consigli e dopo i giochi,
Dopo le mense, amabil Dea, tu insegni
14
210 IL GIORNO (v. 95-134).
Gome il giovin marchese al collo balzi
Del giovin conte; e come a lui di baci
Le gote imprima; e come il braccio annode
L* uno al braccio dell'altro; e come insieme
Passeggino, elevando il molle mento
E volgendolo in guisa di colomba;
E pà lpinsi e sorridansi e rispòndansi
Con un vezzoso tu. Tu fra le dame
Sul mobil arco de le argute lingue
I già pronti a scoccar dardi trattieni
S'altra giugne improvviso a cui rivolti
Pendean di già : tu fai che a lei presente
Non osin dispiacer le fide amiche;
Tu le carche faretre a miglior tempo
Di serbar le consigli. Or meco scendi;
E i generosi ufìcj e i cari sensi
Meco detta al mio eroe; tal che famoso
Per entro al suon de le future etadi
E a Pilade s'eguagli e a quel che trasse
II buon Teseo da le Tenarie foci.
Se da i regni che TAlpe o il mar divide
Dair Italico lido in patria or giunse
Il caro amico, e da i perigli estremi
Sorge d'arcano mal che in dubbio tenne
Lunga stagione i fisici eloquenti.
Magnanimo Garzone, andrai tu forse
Trepido ancora per l'amato capo
A porger voti sospirando? Forse
Con alma dubbia e palpitante i detti
E i guardi e il viso esplorerai de' molti
Che il giudizio di voi, menti si chiare,
Fra i primi assunse d'Esculapio alunni?
O di leni origlieri all'omer lasso
Porrai sostegno, e vital sugo a i labbri
Offrirai di tua mano? O pur con lieve
Bisso il madido fronte a lui tergendo,
E le aurette agitando, il tardo sonno
Inviterai a fomentar con l'ali
La nascente salute? Ah, no! tu lascia.
Lascia che il vulgo di si tenui cure
IL VESPRO (v. 135-174). 211
Le brevi anime ingombri ; e d' un sol atto
Rendi Tamico tuo felice a pieno.
Sai che fra gli ozj del mattino illustri,
Del gabinetto al tripode sedendo,
Grandma rbitro del bello oggi creasti
Gli eccellenti nell'arte. Onor cotanto
Basti a darti ragion su le lor menti
E su Topre di loro. Util ciascuno
A qualch' uso ti fia. Da te mandato,
Con acuto epigramma il tuo poeta
La mentita virtù trafigger puote
D'una bella ostinata; e l'elegante
Tuo dipintor può con lavoro egregio
Tutti dell'amicizia onde ti vanti
Compendiar gli uficj in breve carta:
O se tu vuoi che semplice vi splenda
Di nuda maestade il tuo gran nome;
O se in antica lapide imitata
Inciso il brami; o se in trofeo sublime
Accumulate a te mirarvi piace
Le domestiche insegne, indi un l'ione
Rampicar furibondo, e quindi Tale
Spiegar l'augel che i fulmini ministra;
Qua timpani e vessilli e lance e spade,
E là scettri e collane e manti e velli
Cascanti argutamente. Ora ti vaglia
Questa carta, o Signor, serbata all'uopo;
Or fia tempo d'usarne. Esca, e con essa
Del caro amico tuo voli a le porte
Alcun de' nuncj tuoi; quivi deponga
La tessera beata; e fugga; e torni
Ratto sull'orme tue, pietoso Eroe,
Che già pago di te ratto a traverso
E de' trivj ei*lel popolo dilegui.
Già il dolce amico tuo nel cor commosso,
E non senza versar qualche di pianto
Tenera stilla, il tuo bel nome or legge
Seco dicendo: Oh ignoto al duro vulgo
Sollievo almo de' mali! Oh sol concesso
Facil commercio a noi alme sublimi
212 IL GIORNO (v. 175-214\
E d'affetti e di cure! Or venga il giorno
Che si grate alternar nobili veci
A me sia dato! Tale sbadigliando
Si lascia da la man lenta cadere
L'amata carta; e te, la carta e il nome
Soavemente in grembo al sonno oblia.
Tu Tra tanto cola rapido il corso
Declinando intraprendi, ove la Dama
Co' labbri desiosi e il premer lungo
Del ginocchio sollecito ti spigne
Ad altre opre cortesi. Ella non meno.
Air imperio possente, a i cari moti
Dell'amistà risponde. A lei non meno
Palpita nel bel petto un cor gentile.
Che fa l'amica sua? Misera! Jeri,
Qual fusse la cagion, fremer fu vista
Tutta improvviso, ed agitar repente
Le vaghe membra. Indomito rigore
Occupolle le cosce; e strana forza
Le sospinse le braccia. Illividirò
1 labbri onde l'Amor l'ali rinfresca;
Enfiò la neve de la bella gola;
E celato candor da i lini sparsi
Effuso rivelossi a gli occhi altrui.
Gli Amori si schermiron con la benda ;
E indietro ri fuggi ronsi le Grazie.
In vano il cavaliere, in van lo sposo
Tentò frenarla, in van le damigelle,
Che su lo sposo e il cavaliere e lei
Scorrean col guardo, e poi ristrette insieme
Malignamente sorrideansi in volto.
Ella truce guatando curvò in arco
Duro e feroce le gentili schiene;
Scalpitò col bel piede; e ripercosse
La mille volte ribaciata mano
Del tavolier ne le pugnenti sponde.
Livida, pesta, scapigliata e scinta,
Al fin stancò tutte le forze; e cadde
Insopportabil pondo sopra il letto.
Nò fra r intime stanze o fra le cliiuse
IL VESPRO (v. 215-254). 213
Gemine porte il prezioso evento
Tacque ignoto molt'ore. Ivi la Fama
Con uno il colse de' cent' occhi suoi ;
E il bel pegno rapito usci portando
Fra le adulte matrone, a cui .segreto
Dispetto fanno i pargoletti Amori
Che da la maestà de gli otto lustri
Fuggon volando a più scherzosi nidi.
Una é fra lor che gli altrui nodi or cela.
Comoda e strigne; or d'ispida virtude
Arma suoi detti; e furibonda in volto
E infiammata ne gli occhi alto declama,
Interpreta, ingrandisce i sagri arcani
De gli amorosi gabinetti ; e a un tempo
Odiata e desiata, eccita il riso
Or co' proprj misterj, or con gli altrui.
La vide, la notò, sorrise alquanto
La volatile Dea; disse: Tu sola
Sai vincere il clamor de la mia tromba !
Disse, e in lei si mutò. Prese il ventaglio,
Prese le tabacchiere, il cocchio ascese;
E là venne trottando ove de' Grandi
È il consesso più folto. In un momento
Lo sbadigliar s'arresta ; in un momento
Tutti gli occhi e gli orecchi e tutti i labbri
Si raccolgono in lei: ed ella in' fine,
E ansando e percotendosi, con ambe
Le mani, le ginocchia, il fatto espone
E del fatto le origini riposte.
Riscr le dame allor, pronte domane
A fortuna simil, se mai le vaghe
Lor fantasie commoverà negato
Da i mariti compenso a un gioco avverso,
() in faccia a lor per deità maggiore
Negligenza d'amante, o al can diletto
Nata sùbita tosse: e rise ancora
La tua Dama con elle; e in cor dispose
Di teco visitar l'egra compagna.
Ite al pietoso uficio, itene or dunque :
Ma lunf^o consigliar duri tra voi
214 IL GIORNO (v. 255-291).
Pria che a la meta il vostro cocchio arrive.
Se visitar, non già veder, Tamica
Forse a voi piace, tacita a le porte
La volubile rota il corso arresti;
E il giovanetto messagger salendo
Per le scale sublimi, a lei v'annunzj
Si che voi non volenti ella non voglia.
Ma se vaghezza poi ambo vi prende
Di ap'iar chi sia seco, e di turbarle
L'anima un poco, e ricercarle in volto
De' suoi casi la serie^ il cocchio allora
Entri: e improvviso ne rimbombi e frema
L' atrio superbo. Egual piacere innonda
Sempre il cor de le belle, o che opportune
O giungano importune a le lor pari.
Già le fervide amiche ad incontrarse
Volano impazienti; un petto all'altro
Già premonsi abbracciando; alto le gote
D'alterni baci risonar già fanno;
Già strette per le man co' dotti fianchi
Ad un tempo amendue cadono a piombo
Sopra il sofà . Qui 1' una un sottil motto
Vibra al cor dell'amica ; e a i casi allude
Che la Fama narrò: quella repente
Con un altro l'assale. Una nel viso
Di bell'ire s'infiamma; e l'altra i vaghi
Labbri un poco si morde: e cresce in tanto
E quinci ognor più violento e quindi
11 trepido agitar de i duo ventagli.
Cosi, se mai al secol di Turpino
Di ferrate guerriere un paro illustre
Si scontravan per via, ciascuna ambiva
L' altra provar quel che valesse in arme ;
E dopo le accoglienze oneste e belle,
Abbassa van lor lance e co' cavalli
Urtavansi feroci; indi infocate
Di magnanima stizza, i gran tronconi
Giltavan via de lo spezzato cerro,
E correan con le destre a gli elsi enormi.
Ma di lontan per l'alta selva fiera
IL VESPRO (v. 295-324). 215
Un messéigger con clamoroso suono
Venir s'udiva galoppando; e Tuna
Richiamare a je Carlo, o al campo Taltra
Del giovane Ag^amante. — Osa tu pure,
Osa, invitto Garzone, il ciuffo e i ricci
Si ben fìnti stamane %ir urto esporre
De' ventagli sdegnati ; f^ a nuove imprese
La tua bella invitando, i casi estremi
De la pericolosa ira sospendi.
Oh solenne a la patria, oli all^orbe intero
Giorno fausto e beato, al fin sorgesti
Di non più visto in ciel roseo splendore
A sparger l'orizzonte! Ecco, la sposa
Di ramni eccelsi * T inclit'alvo al fìae
Sgravò di maschia desiata prole
La prima volta. Da le lucid'aure
Fu il nobile vagito accolto a pena,
Che cento messi a precipizio uscirò.
Con le gambe pesanti e lo spron duro
Stimolando i cavalli, e il gran convesso
Dell'etere sonoro alto ferendo
Di scutiche e di corni: e qual si sparse
Per le cittadi popolose e diede
A i famosi congiunti il lieto annunzio;
E qual, per monti a stento rampicando.
Trovò le rocche e le cadenti mura
De' prischi feudi ove la polve e l'ombra
Abita e il gufo, e i rugginosi ferri
Sopra le rote mal sedenti al giorno
Di novo espose e fé* scoppiarne il tuono,
* U Mazzoni : " Questa è la lezione vera, già dal Tonti ristabilita
nel testo, e confermatami dal Salveraglio di sul manoscritto origi-
nario: errata lezione è rami, che faceva pensare all'albero genea-
logico e a una maliziosa allusione alle corna del cervo. 1 Ramni o
Ramnensi furono il nucleo originario de' Romani raccoltisi intorno
a Romolo; e l'allusione maliziosa va invece ora a cadere sulle
origini delle fortune feudali: che, come Roma da' banditi, cosi
esse il più delle volte nacquero da predoni e avventurieri. Ramni
eccelsi vai qui dunque ' nobili d'antica nobiltà feudale , ; e anche
l'epiteto è tolto da Orazio che ha ' celsi Ramnes, Epistola ai ri-
soni, V. 342 „.
216 IL GIORNO {V. 325-349).
E i gioghi do' vassalli e le vallèe
Ampie e le marche del gran caso empieo.
Né le muse devote, onde gran plauso
Venne Taltr'anno a gì' imenèi felici,
Già si tacquero al parto. Anzi, qual suole
LÃ su la notte dell'ardente agosto
Turba di grilli, e più lontano ancora
Innumerabil popolo di rane,
Sparger d'alto frastuono i prati e i laghi,
Mentre cadon su lor fendendo il buio
Lucide strisce, e le paludi accende
Fiamma improvvisa che lambisce e vola:
Tal sorsero i cantori a schiera a schiera ;
E tal piovve su lor foco febèo.
Che di motti ventosi alta compagine
Fé' dividere in righe, o in simil suono
Uscir pomposamente. Altri scoperse
In que' vagiti Alcide, altri d' Italia
Il soccorso promise, altri a Bisanzio
Minacciò Io sterminio. A tal clamore
Non ardi la mia musa unir sue voci:
Ma del parto divino al molle orecchio
Appressò non veduta; e molto in poco
Strinse dicendo: Tu sarai simile
Al tuo ^ran ijrenitore !
" Qui è una lacuna, " la quale ,. congettura il Carducci [Storia
del Giorno, p. 261 ss.), " doveva esser riemi)ita dal séguito dcU'e-
pisodio e poi da ciò che rimanesse a fare della nobile coppia
prima di procedere al corso,. 11 (Carducci stesso ha trascritto dalle
carte pariniane, conservate in casa Hellotti, alcune note ed ap-
j)unli che forse si riferiscono a quanto il i)oeta si proponeva di
fare per questo episodio. Dicono ad esempio :
" Vespro... Collegi, uscita da essi, birhino, carrozzino „ (la birba
era un carrozzino scoperto a due posti e a quattro ruote). " UscirÃ
dal collegio, apprenderà i giuochi. „ — " Tu sarai in collegio, u-
scirai, ti daranno un birhino. „ — " Ercole uccise Lino battendogli
della cetra sul capo. „ — " I figli in collegio lasciano giovani. , —
"Nuovi araldici mettono i tigli in collegio, e se ne lagnano. Alla
partoriente parlar de' nuovi araldici. , — " Una volta i fanciulli si
divertivano e i padri attendevano agli studi : ora il contrario. , E
poi citazioni latine dall' Eneide (IX, G^IO) e da Persio (1, CI). " Nel
Vespro della partoriente dame e cavalieri prolettori de' birbanti. , —
IL VESPRO (v. 350-377). 217
Già di cocchi frequente il corso splende, *
E di mille che là volano rote
Rimbombano le vie. Fiero per nova
Scoperta biga, il giovane leggiadro,
Che cesse al carpentier gli aviti campi.
LÃ si scorge tra i primi. Air un de' lati
Sdrajasi tutto, e de le stese gambe
La snellezza dispiega. A lui nel seno
La conoscenza del suo merto abbonda;
E con gentil sorriso arde e balena
Su la vetta del labbro; o da le ciglia,
Disdegnando, de' cocchi signoreggia
La turba inferior: soave in tanto
Egli alza il mento, e il gomito protende,
E mollemente la man ripiegando,
I merletti finissimi su l'alto
Petto si ricompon con le due dita.
Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchio
Da i casali pervenne, e già s'ascrive
Al concilio de' numi. Egli oggi impara
A conoscere il vulgo, e già da quello
Mille miglia lontan sente rapirsi
Per lo spazio de' cieli. A lui davanti
Ossequiosi cadono i cristalli
De' generosi cocchi oltrepassando:
E il lusingano ancor per che sostegno
Sia de la pompa loro. Altri ne viene
" Primogeniti, cadetti, princìpii di musica, arcliitettura. „ = " Con-
lìdeii/.e tra padre e figlio. „ E tutto di sèguito : ■Accademia. Ca-
valiere elle straccia dopo l'Accademia il libro di Conclusioni ma-
lemaliclie inorridito di quelle cifre. Dama o cavaliere invitali, ra-
dunali e dato il segno del ti'asferirsi, non si movono, dicendo che
Iianno tempo di seccarsi. Alla recita, parlano, gridano. 11 recitante
si dispella del non essere ascoltato. Stanno più attenti alla mu-
sica. Cercan di fuggire. Termina non rimanendovi più di cinque
o sci persone. Quando recita il figlio dell'invitante, i padri o gli
amici tacciono, salvo a ciarlare quando recita il figlio altrui. „
' Quasi tutti i versi che seguono erano già nel Mezzogiorno, ac-
codati ai vv. 1-25, coi (inali ora comincia il Vespro, che alla lor
volta venivan subito dopo il v. 1194, ora l'ultimo del Mezzogiorno.
218 IL GIORNO (v. 378-417).
Che di compro pur or titol si vanta ;
E pur s'affaccia e par gli orecchi porge
E pur sembragli udir da tutti i labbri
Sonar le glorie sue. Mal abbia il lungo
De le rote stridore e il calpestio
De' ferrati cavalli e Taura e il vento,
Che il bel tenor de le bramate voci
Scender non lascia a dilettargli il core!
Di momento in momento il fragor cresce,
E la folla con esso. Ecco le vaghe
A cui gli amanti per lo di solenne
Mendicarono i cocchi. Ecco le gravi
Matrone che gran tempo arser di zelo
Contro al bel mondo, e delF ignoto corso
La scellerata polvere dannà ro;
Ma poi che la vivace amabil prole
Crebbe e invitar sembrò con gli occhi Imene,
Cessero al fine : e le tornite braccia,
E del sorgente petto i rugiadosi
Frutti prudentemente al guardo aprirò
De i nipoti di Giano. Affrettan quindi
Le belle cittadine, ora è più lustri
Note a la Fama, poi che a i tetti loro
Dedussero gli Dei; e sepper meglio
E in più tragico stil da la teletta
A i loro amici declamar T istoria
De' rotti amori; ed agitar repente
Con celebrata convulsion la mensa,
Il teatro e la danza. Il lor ventaglio
Irrequieto sempre or quinci or quindi
Con variata eloquenza esce e saluta.
Convolgonsi le belle: or su T un fianco
Or su r altro si posano, tentennano,
Volteggiano, si rizzan, sul cuscino
Ricadono pesanti, e la lor voce
Acuta scorre d' uno in altro cocchio.
Ma ecco al fin che le divine spose
De gV Italici eroi vengono anch'esse.
Io le conosco a i messagger volanti
Che le annuncian da lungi ed urlan fieri
IL VESPRO (v. 418-457). 219
E rompono la folla; io le conosco
Da la turba de' servi al vomer tolti
Per che oziosi poi di retro pendano
Al carro trionfai con alte braccia.
Male a Giuno ed a Pallade Minerva
E a Cinzia e a Giterea mischiarvi osate,
Voi, pettorute Najadi e Napèe,
Vane di picciol fonte o d* umil selva
Ghe a gli Egipani vostri in guardia diede
Giove dall'alto ! Vostr' incerti sguardi,
Vostra frequente inane maraviglia,
E l'aria alpestre ancor de' vostri moti,
Vi tradiscono, ahi lasse!, e rendon vana
La multiplice in fronte a i palafreni
Pendente nappa eh' usurpar tentaste,
E la divisa onde copriste il mozzo
E il cucinier che la seguace corte
Accrebber stanchi, e i miseri lasci^\ro
Ganuti padri di famiglia soli
Ne la muta magion serbati a chiave.
Troppo da voi diverse, esse ne vanno
Ritte ne gli alti cocchi alteramente;
E a la turba volgare che si prostra
Non badan punto; a voi talor si volge
Lor guardo negligente e par che dica:
Tu ignota mi sei ; o nel mirarvi
Gol compagno susurrano ridendo.
Le giovinette madri de gli eroi
Tutto empierono il Gorso, e tutte han seco
Un giovinetto eroe o un giovin padre
D' altri futuri eroi, che a la teletta,
A la mensa, al teatro, al corso, al gioco
Segnaleransi un giorno; e fìen cantati,
S'io scorgo l'avvenir, da tromba eguale
A quella che a me diede Apollo, e disse:
Ganta gli Achilli tuoi, canta gli Augusti
Del secol tuo ! Sol tu manchi, o Pupilla
Del più nobile mondo: ora ne vieni,
E del rallegrator dell' universo
Rallegra or tu la moribonda luce.
220 IL GIORNO (v. 458-486).
Già * tarda a la tua Darha; e già con essa
Precipitosamente al Corso arrivi.
Il memore cocchier serbi quel loco
Che voi dianzi sceglieste, e voi non osi
Tra le ignobili rote al vulgo esporre
Se star fermi a voi piace ; ed oltre scorra
Se di scorrer v'aggrada**, e a i guardi altrui
Spiegar gioje novelle e nuove paci
Che la pubblica fama ignori ancora.
Né conteso a te fia per brevi istanti
Uscir del cocchio: e sfolgorando intorno,
Qual da repente spalancata nube,
Tutti scoprir di tua bellezza i rai,
Nel tergo, ne le gambe e nel sembiante
Simile a un Dio ; poi che a te, non meno
Che all'altro Semideo, Venere diede
E zazzera leggiadra e porporino
Splendor di gioventù, quando stamane
A lo speglio sedesti. Ecco son pronti
Al tuo scendere i servi. Un salto ancora
Spicca, e rassetta gì* increspati panni
E le trine sul petto: un po' t'inchina;
A i lucidi calzari un guardo volgi;
Èrgiti, e marcia dimenando il fianco.
() il Corso misurar potrai soletto
Se passeggiar tu brami; o tu potrai
Dell'altrui dame avvicinarti al cocchio,
E inerpicarli, ed introdurvi il capo
E le spalle e le braccia e mezzo ancora
• Nel Mezzogiorno continuava : " Già d' untuosa polvere novella
Di propria man la tabacchiera empisti A la tua dama e di no-
velli oiiori 11 cristallo dorato; ed al suo crine La bionda che
svanìo polve tornasti Con piuma dilìcata; e adatto al giorno
I^e scegliesti il ventaglio: al pronto cocchio Di tua man la gui-
dasti, e già con essa Precipitosamente al corso arrivi. „ Cfr. però
Vespro, V. 36-4C.
** Nella jìrima ediz. del Mezzogiorno si leggeva: " Tra le ignobili
rote esporre al vulgo Se star fermi vi piace, ed olire scorra.
Se di scorrer v'aggrada. Uscir del cocchio Ti fia lecito ancor.
T'accolf^au pronti Allo scendere i servi. Ancora un salto Spicca;
e rassetta i rincrespati panni... ,
IL VESPRO (v. 487-511). 221
Dentro versarle. Ivi salir tant'alto
Fa' le tue risa che da lunge le oda
La tua Dama e si turbi ed interrompa
Il celiar de gli eroi che accorser tosto
Tra il dubbio giorno a custodirla in tanto
Che solinga rimase. O sommi Numi,
Sospendete la Notte, e i fatti egregi
Del mio giovin Signor splender lasciate
Al chiaro giorno! — Ma la Notte segue
Sue leggi inviolabili e declina
Con tacit'ombra sopra Temispero;
E il rugiadoso pie lenta movendo,
Rimescola i color varj infiniti,
E via gli sgombra con l'immenso lembo
Di cosa in cosa: e suora de la Morte,
Un aspetto indistinto, un solo volto
Al suolo, a i vegetanti, a gli animali
A i Grandi ed a la plebe equa permette;
E i nudi insieme e li dipinti visi
De le belle confonde, e i cenci, e Toro :
Né veder mi concede all'aere cieco
Qual de' cocchi si parta o qual rimanga
Solo all'ombre segrete:. e a me di mano
Tolto il pennello, il mio Signore avvolge
Per entro al tenebroso umido velo.
LA NOTTE
POEMETTO
Né tu contenderai, benigna Notte,
Che il mio Giovane illustre io cerchi e guidi
Con gli estremi precetti entro al tuo regno.
Già di tenebre involta e di perigli,
Sola, squallida, mesta, alto sedevi
Su la timida terra. Il debil raggio
De le stelle remote e de' pianeti.
Che nel silenzio camminando vanno,
Rompea gli orrori tuoi sol quanto é d'uopo
A sentirli vie più. Terribil ombra
Giganteggiando si vedea salire
Su per le case e su per Talte torri
Di teschi antiqui seminate aL piede:
E ùpupe e gufi e mostri avversi al sole
Svolazzavan per essa, e con ferali
Stridi portavan miserandi augurj:
E lievi dal terreno e smorte fiamme
Di su di giù vagavano per Taere *
Orribilmente tacito ed opaco ;
E al sospettoso adultero che lento.
Gol cappel su le ciglia, e tutto avvolto
Nel mantel, se ne già con Tarmi ascose,
Colpieno il core e lo stringean d'affanno.
E fama è ancor che pallide fantasime
Lungo le mura de i deserti tetti
Spargean lungo acutissimo lamento.
* Gli autografi leggono : " E dal terreno lievi e smorte flainnie
Sorgeano in tanto, e quelle smorte fiamme Di su di giù vaga-
vano per l'aere „ ecc.
15
226 IL GIORNO (v. 27-6(>).
Cui di lontan per entro al vasto buio
I cani rispondevano ululando.
Tal fusti, o Notte, allor che gì' inclinavi
Onde pur sempre il mio Garzon si vanta
Eran duri ed alpestri; e con l'occaso
Gadean dopo lor cene al sonno in preda ;
Fin che TAurora sbadigliante ancora
Li richiamasse a vigilar su 1' opre
De i per novo cammin guidati rivi
E su i campi nascenti, onde poi grandi^
Furo i nepoti e le cittadi e i regni.
Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,
Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,
Ghe trionfanti per la notte scorrono.
Per la notte che sacra é al mio Signore.
Tutto davanti a lor, tutto s'irradia
Di nova luce. Le ni miche tenebre
Fuggono riversale; e l'ali spandono
Sopra i covili, ove le fere e gli uomini
Da la fatica condannati dormono.
Stupefatta la Notte intorno vedesi
Riverberar più che dinanzi al sole
Auree cornici e di cristalli e spegli
Pareti adorne e vestimenti varj
E bianche braccia e pupillette mobili
E tabacchiere preziose e fulgide
Fibbie ed anella e mille cose e mille.
Gosi r eterno caos, allor che Amore
Sopra posovvi, e il fomentò con l'ale.
Senti il gcnerator moto crearse,
Senti schiuder la luce; e sé medesmo
Vide meravigliando e tanti aprirse
Tesori di natura entro al suo grembo.
O de miei studj generoso Alunno,
Tu seconda me dunque or ch'io t'invito
Glorie novelle ad acquistar là dove
la veglia frequente o l'ampia scena
1 Grandi eguali tuoi, degna de gli avi
E de i titoli loro e di lor sorte
E (le i pubblici voti ultima cura,
LA NOTTE (v. 67-106). 227
Dopo le tavolette e dopo i prandj
E dopo i corsi clamorosi occupa.
Ma dove, ahi dove senza me t'aggiri,
Lasso ! da poi che in compagnia del sole
T'involasti pur dianzi a gli occhi miei?
Qual palagio ti accoglie ; o qual ti copre
Da i nocenti vapor ch'Esperò mena
Tetto arcano e solingo; o di qual via
L' ombre ignoto trascorri, ove la plebe
Affrettando tenton s' urta e confonde ?
Ahimè! Tòlgalo il Giel, forse il tuo cocchio
Ove il varco é più angusto il cocchio altrui
Incontrò violento : e qual de i duo
Retroceder convenga, e qual star forte,
Disputano gli aurighi alto gridando.
Sdegna, egregio Garzon, sdegna d'alzare
Fra il rauco suon di Stèntori plebei
Tu'amabil voce, e taciturno aspetta
Sia che a Tun piaccia riversar dal carro
Lo suo rivale, o riversato anch'esso
Perigliar tra le rote, e te per l'alto
De Io infranto cristal mandar carpone.
Ma r avverso cocchier d' un picciol urto
Pago sen fugge o d'un resister breve :
Al fin libero andrai. Tu non per tanto
Doman chiedi vendetta; alto sonare
Fa il sacrilego fatto; osa, pretendi,
E i tribunali minimi e i supremi
Sconvolgi, agita, assorda: il mondo s'empia
Del grave caso; e per un anno almeno
Parli di te, de' tuoi corsier, del cocchio
E del cocchiere. Di si fatte cose
Voi, progenie d'eroi, famosi andate
Ne le bocche de gli uomini gran tempo.
Forse indiscreto parlator trattiene
Te con la Dama tua nel vuoto Corso.
Forse a nova con lei gara d' ingegno
Tu mal cauto venisti : e già la Bella
Teco del lungo repugnar s'adira ;
Già la man che tu baci arretra e tenta
228 IL GIORNO (V. 107-146).
Liberar da la tua ; e già minaccia
Ricovrarsi al suo tetto, e quivi sola
Involarse ad ognuno in fin che il sonno
Venga pietoso a tranquillar suoi sdegni.
In van chiedi mercè; di mente in vano
A lei te stesso sconsigliata incolpi:
Ella niega placarse: il cocchio freme
Dell'alterno clamore : il cocchio in tanto
Giace immobil fra l'ombre : e voi, sue care
Gemme, il bel mondo impaziente aspetta.
Ode il cocchiere al fin d'ambe le voci
Un comando indistinto, e bestemmiando
Sferza i corsieri, e via precipitando
Ambo vi porta, e mal sa dove ancora.
Folle ! di che temei ? Sperdano i venti
Ogni augurio infelice ! Ora il mio Eroe
Fra r amico tacer del vuoto Corso
Lieto si sta la fresca óra godendo
Che dal monte lontan spira e consola.
Siede al fianco di lui lieta non meno
L'altrui cara consorte. Amor nasconde
La incauta face; e il fiero dardo alzando
Allontana i maligni. O Nume invitto.
Non sospettar di me ; eh' io già non vegno
Invido esplorator, ma fido amico
De la coppia beata a cui tu vegli.
E tu, Signor, tronca gl'indugi. Assai
Fur gioconde quest' ombre allor che prima
Nacque il vago desio che te congiunse
All'altrui cara sposa or son due lune.
Ecco il tedio a la fin serpe tra i vostri
Cosi lunghi ritiri : e tempo è omai
Che in più degno di te pubblico agone
Splendano i genj tuoi. Mira la Notte
Che col carro stellato alta sen vola
Per l'eterea campagna"; e a te col dito
Mostra Teseo nel ciel, mostra Polluce,
Mostra Bacco ed Alcide e gli altri egregi
Che per mille d' onore ardenti prove
Colà fra gli astri a sfolgorar salirò.
LA NOTTE (v. 147-177). 229
Svegliati a i grandi esempj: e meco affretta.
Loco é, ben sai, ne la città famoso
Che splendida matrona apre al notturno
Concilio de' tuoi pari, a cui la vita
Fora senza di ciò mal grata e vile. *
Ivi le belle e di feconda prole
Inclite madri ad obliar, sen vanno
Fra la sorte del gioco i tristi eventi
De la sorte d'amore onde fu il giorno
Agitato e sconvolto. Ivi le grandi
Avole auguste e i gcnitor leggiadri
De' già celebri Eroi il senso e Y onta
Volgon de gli anni a rintuzzar fra Tire
Magnanime del gioco. Ivi la turba
De la feroce gioventù divina
Scende a pugnar con le mutabiP arme **
Di vaghi giubboncei, d'alti vezzosi,
Di bei modi del dir stamane appresi ;
Mentre la Vanità fra il dubbio marte
Nobil furor ne' forti petti inspira ;
E con vario destin dando e togliendo
Le combattute palme, alto abbandona
I leggeri vessilli a l'aure in preda.
Ecco che già di cento faci e cento
Gran palazzo rifulge. Multiforme
Popol di servi baldanzosamente
Sale, scende, s'aggira. Urto e fragore
Di rote, di flagelli e di cavalli.
Che vengono, che vanno, e stridi e fischi
Di gente, che domandan, che rispondono,
Assordan l'aria a l'alte mura intT)rno.
* 11 De Magri (// giorno, pt. IV, 1829, p. 43): " Alcune delle più
spleiulide case di Milano si contendevano il vanto di aprire i cir-
coli più brillanti. La fastosa matrona di cui accenna Parini era
la contessa S. S., onorata in quei giorni dalla più eletta frequenza
degli illustri. „
'* 11 Mazzoni: " 11 Reina legge mirabiranue, ma già il Tonti av-
verti, e il Siilveraglio mi conferma, che gli autografi hanno niiila-
biiuriììe; onde la correzione è ormai doverosa. Naturalmente nin-
labili vale che si mutano e rimutano, ome vuol3 la midi, di
giorno in giorno. „
28Q IL GIORNO (V. 178-217).
Tutto è strepito e luce. O tu che porti
La Dama e il Gavalier dolci mie cure,
Primo di carri guidator, qua volgi ;
E fra il denso di rote arduo cammino
Con olimpica man splendi ; e d' un corso
Subentrando i grand' atrj, a dietro lascia
Qual pria le porte ad occupar tendea.
Quasi a propria virtù, plauda al gran fatto
Il generoso Eroe, plauda la Bella,
Che con l'agii pensier scorre gli aurighi
De le dive rivali, e novi al petto
Sente nascer per te teneri orgogli.
Ma il bel carro s' arresta ; e a te la Dama,
A te prima di lei sceso d'un salto,
Affidata, o Signor, lieve balzando
Col sonante calcagno il suol percote.
Largo dinanzi a voi fiammeggi e gronde.
Sopra l'ara de' numi ad arder nato.
Il tesoro dell' api : e a Lei da tergo
Pronta di servi mano a terra proni
Lo smisurato lembo alto sospenda :
Somma felicità che Lei separa
Da le ricche viventi a cui per anco.
Misere ! su la via l' estrema veste
Per la polvere sibila strisciando.
Ahi ! se novo sdegnuzzo i vostri petti
Dianzi forse agitò, tu chino e grave
A Lei porgi la destra, e seco innoltra
Quale Ibero amador quando, raccolta
Da r un lato la cappa, contegnoso
Scorge l'amanza a diportarse al vallo,
Dove il tauro abbassando i corni irati
Balza gli uomini in alto, o gemer s'ode
Crepitante Giudeo per entro al foco.
Ma no, che V amorosa onda pacata
Oggi siede per voi: e quanto è d'uopo
A vagarvi il piacer, solo la increspa
Una lieve aleggiando aura soave.
Snello adunque e vivace offri a la Bella
Mollemente piegato il destro braccio:
LA NOTTE (v. 218-254). 231
Ella la manca v'inserisca: premi
Tu col gomito un poco : un poco anch'ella
Ti risponda premendo, e a la tua lena
Dolce peso a portar tutta si doni,
Mentre lieti celiando a brevi salti
Su per Tagili scale ambo affrettate.
Oh come al tuo venir gli archi e le volte
De' gran titoli tuoi forte rimbombano!
Come a quel suon volubili le porte
Cedono spalancate, ed a quel suono
Degna superbia in cor ti bolle, e face
L'anima eccelsa rigonfiar più vasta!
Entra in tal forma; e del tuo grande ingombra
Gli spazj fortunati. Ecco di stanze
Ordin lungo a voi s'apre. Altra di sèrvi
Infimo gregge alberga, ove tra i lampi
Di molteplice lume or vivo or spento
E fra sempre incostanti ombre schiamazza
11 sermon patrio e la facezia e il riso
Dell'energica plebe. Altra di vaghi
Zazzerati donzelli è certa sede,
Ove accento stranier misto al natio
Molle susurra : e s' apparecchia in tanto
Copia di carte e multiforme avorio,
Arme l'uno a la pugna, indice l' altro
D'alti cimenti e di vittorie illustri.
Al fin pili interna, e di gran luce e d'oro
E di ricchi tappeti aula superba
Sta servata per voi, prole de' numi.
Io di razza mortale ignoto vate
Come ardirò di penetrar fra i cori
De' semidei, ne lo cui sangue in vano
Gocciola impura cercheria con vetro
Indaga tor colui che vide a nuoto
Per l'onda genitale il picciol uomo ? *
Qui tra i servi m'arresto, e qui da loro
Nuove del mio Signor virtudi ascose
* Cfr. del Parini il magiiifico saneUo sulla generazione umana, che
Icrniina : " Cosi nasce il villano, il Papa e il Re „. Opere, III, 58.
232 ' IL GIORNO (v. 255-294).
Tacito apprenderò. Ma tu sorridi,
Invisibil Gamena, e me rapisci
Invisibil con te fra li negati
Ad ognaltro profano aditi sacri.
Già il mobile de' seggi ordine augusto
Sovra i tiepidi strati in cerchio volge :
E fra quelli eminente i fianchi estende
li grave Ganapè. Sola da un lato
La matrona del loco ivi s'appoggia ;
E con la man che lungo il grembo cade
Lentamente il ventaglio apre e socchiude.
Or di giugner è tempo. Ecco le snelle
E le gravi per molto adipe dame
Ghe a passi velocissimi s'affrettano
Nel gran consesso. 11 cavalieri egregi
Lor camminano a lato; ed elle, intorno
A la sedia maggior vortice fatto
Di sé medesme, con sommessa voce
Brevi note bisbigliano, e dileguansi
Dissimulando fra le sedie umili.
Un tempo il Ganapè nido giocondo
Fu di riso e di scherzi, allor che l'ombre
Abitar gli fu grato ed i tranquilli
Del palagio recessi. Amor primiero
Trovò r opra ingegnosa. Io voglio, ei disse,
Dono a le amiche mie far d* un bel seggio
Ghe tre ad un tempo nel suo grembo accoglia.
Gosi, qualor de gì' importuni altronde
Volga la turba, sederan gli amanti
L' uno a lato dell'altro, ed io con loro.
Disse, fé* plauso con le palme, e l' ali
Apri volando impaziente all' opra.
Ecco il bel fabbro lungo pian dispone
Di tavole contesto e molli cigne.
A reggerlo vi dà vaghe colonne
Ghe del silvestre Pane i pie leggeri
Imitano scendendo; al dorso poi
V alza pà tulo appoggio, e il volge a i lati
Gome far soglion flessuosi acanti
ricche corna d'Arcade montone.
LA NOTTE (v. 295-334). 233
Indi, predando a le vaganti aurette
L'ali e le piume, le condensa e chiude
In tumido cuscin che tutta ingombri
La macchina elegante; e al fin Tadorna
Di molli sete e di vernici e d'oro.
Quanto il dono d'Amor piacque a le belle !
• Quanti pensier lor balenerò in mente!
Tutte il chiesero a gara: ognuna il volle
Ne le stanze più interne : applause ognuna
A la innata energia del vago arnese
Mal repugnante e mal cedente insieme
Sotto a i mobili fianchi. Ivi sedendo
Si ritrasser le amiche; e da lo sguardo
De' maligni lontane, a i fidi orecchi
Si mormoraro i dilicati arcani.
Ivi la coppia de gli amanti a lato
Dell'arbitra sagace o i nodi strinse
O calmò l'ira e nuove leggi apprese.
Ivi sovente Tamador faceto
Raro volume all'altrui cara sposa
Lesse spiegando, e con sorrisi arguti
Lepida imago fé' notar tra i fogli.
Il fortunato seggio invidia mosse
De le sedie minori al popol vario ;
E fama è che talor invidia mosse
Anco a i talami stessi. Ah perchè mai
Vinto da insana ambizione uscio
Fra l'immenso tumulto e fra il clamore
De le veglie solenni? — Havvi due Genj
Fastidiosi e tristi a cui dier vita
L'Ozio e la Vanità ; che, noti al nome
Di Puntiglio e di Noja, erran cercando
Gli alti palagi e le vigilie illustri
De la stirpe de' Numi. Un fra le mani
Porta verga fatale onde sospende
Ne* miseri percossi ogni lor voglia ;
E di macchine al par che l'arte inventi
Modera V alme a suo talento e guida.
L'altro piove da gli occhi atro vapore ;
E da la bocca sbadigliante esala
'XU IL GIORNO (v. 335-374).
Alito lungo che sembiante a i pigri
Soffj dell'austro si dilata e volve,
E d' inane torpor lo menti occupa.
Questa del Canapè coppia infelice
Allor prese V imperio, e i risi e i giochi
Ed Amor ne sospinse; e trono il fece
Ove le madri de le madri eccelse
De' primi eroi esercitan lor tosse;
Ove r inclite mogli a cui beata
Rendon la vita titoli distinti
Sbadigliano distinte. Ah fuggi! ah fuggi,
Signor, dal tetro influsso, e là fra i seggi
De le più miti dee quindi remoto
Con l'alma gioventù scherza e t'allegra.
Quanta folla d'eroi! Tu che modello
D'ogni nobil virtù, d' ogn' atto egregio.
Esser dèi fra' tuoi pari, i pari tuoi
A conoscere apprendi ; e in te raccogli
Quanto di bello e glorioso e grande
Sparse in cento di loro arte o natura.
Altri di lor ne la carriera illustre
Stampa i primi vcstigj ; altri gran parte
Di via già corse; altri a la meta è giunto.
In vano il vulgo temerario a gli uni
Di fanciulli dà nome; e quelli adulti,
Qui^sti omai vegli di chiamare ardisce :
Tutti son pari. Ognun folleggia e scherza ;
Ognun giudica o libra ; ognun del pari
L'altro abbraccia e vezz(»ggia: in ciò sol tanto
Non simili tra bìr. che ognun sua cura
Ha fra l'altre diletta onde più brilli.
Questi or esce di là dove ne'trivj
Si ministran bevande, ozio e novelle.
Ei v' andò mattutin, partinne al pranzo,
Vi tornò lino a notte: e già sei lustri
Volgoli da poi che il bel tenor di vita
Giovanetto intrapresi;. Ah chi di lui
Può sedendo trovar più grati sonni
() più lunghi sbadigli, o più fiate
D'atro rapè solleticar le nari.
LA NOTTE (v. 375-414). 235
O a voce popolare orecchio e fede
Prestar più ingordo e declamar più forte?
Quegli é l'almo garzon che con maestri
Da la scutica sua moti di braccio
Desta sibili egregi ; e V ore illustra
I/aere agitando de le sale immense
Onde i prischi trofei pendono e gli avi.
L'altro è l'eroe che da la guancia enfiata
E dal torto oricalco a i trivj annunzia
Suo talento immortai , qualor dall'alto
De' famosi palagi emula il suono
Di messagger che frettoloso arrive.
Quanto è vago a mirarlo allor che in veste
Cinto spedita, e con le gambe assorte
In ampio cuojo, cavalcando a i campi
Rapisce il cocchio ove la dama è assisa
E il marito e l'ancella e il figlio e il cane!
Vuoi su lucido carro in di 'solenne
Gir trionfando al corso ? Ecco queir uno
Che al lavor ne presieda. E legni e pelli
E ferri e sete e carpentieri e fabbri
A lui son noti : e per l'Ausonia tutta
È noto ei pure. 11 Calabro di feudi
E d' ordini superbo, i duchi e i prenci
Che pascon Mongibello, e fin gli stessi
Gran nipoti Romani a lui sovente
Ne commetton la cura : ed ei sen vola
D' una in altra officina in fin che sorga
Auspice lui la fortunata mole;
Poi di tele ricinta e contro all' onte
De la pioggia e del sol ben forte armata,
Mille e più passi l'accompagna ei stesso
Fuor de le mura, e con soave sguardo
La segue ancor sin che la via declini.
Or non conosci del figliuol di Maja
Il più celebre alunno, al cui consiglio
Nel gran dubbio de' casi ognaltro cede.
Sia che dadi versati o pezzi eretti
O giacenti pedine o brevi o grandi
Carte mescan la pugna ? Ei sul mattino
230 IL GIORNO (v. 415-454).
Le stupide emicranie o V aspre tossi
Molce giocando a le canute dame;
Ei, già tolte le mense, i nati or ora
Giochi a le belle declinanti insegna.
Ei, la notte, raccoglie a sé dintorno
Schiera d'eroi che nobil estro infiamma
D'apprender l'arte onde l'altrui fortuna
Vincasi e domi, e del soave amico
Nobil parte de' campi all'altro ceda.
Vedi giugner colui che di cavalli
Invitto domator divide il giorno
Fra i cavalli e la dama ? Ov de la dama
La man tiepida preme; or de* cavalli
Liscia i dorsi pilosi, o pur col dito
Tenta a terra prostrato i ferri e l'ugna.
Ahimè misera lei quando s'indice
Fiera altrove frequente ! Ei l'abbandona
E per monti inaccessi e valli orrende
Trova i lochi remoti, e cambia o merca.
Ma lei beata poi quand' ei sen torna
Sparso di limo e novo fasto adduce
Di frementi corsieri ; e gli avi loro
E i costumi e le patrie a lei soletta
Molte lune ripete! (ir mira un altro
Di cui più diligente o più costante
Non fu mai damigella o a tesser nodi
O d' aurei drappi a separar lo stame.
A lui turgide ancora ambo le tasche
Son d' ascose materie. Eran già queste
Prezioso tappeto in cui distinti
D'oro e lucide lane i casi apparvero
D' Ilio infelice : e il cavalier, sedendo
Nel gabinetto de la dama, ormai
Con ostinata man tutte divise
In fili minutissimi le genti
D'Argo e di Frigia. Un fianco solo resta
De la Greca rapita ; e poi l' eroe
Pur giunto al fin di sua deceime impresa
Andrà superbo al par d'ambo gli Alridi.
Ve'clii sa ben come si deggia a punto
LA NOTTE (v. 455-4^). 237
Fausto di nozze o pur d'estremi fati
Miserabile annuncio in carta esporre.
Lui scapigliati e torbidi la mente
Per la gran doglia a consultar sen vanno
I novi eredi : né già mai fur viste
Tante vicino a la Gumèa caverna
Foglie volar d' oracoli notate,
Quanti avvisi ei raccolse i quali un giorno
Per gran pubblico ben serbati fièno.
Ma chi r opre diverse o i varj ingegni
Tutti esprimer porla, poi che le stanze
Folte già son di cavalieri e dame ?
Tu per quelle t' avvolgi, ardito e baldo
Vanne, torna, t' assidi, ergiti, cedi.
Premi, chiedi perdono, odi domanda.
Sfuggi, accenna, schiamazza, entra e ti mesci
Ai divini drappelli; e a un punto empiendo
Ogni cosa di te mira et apprendi.
LÃ i vezzosi d'Amor novi seguaci
Lor nascenti fortune ad alta voce
Gonfidansi air orecchio, e ridon forte
E saltellando batton palme a palme ;
Sia che a leggiadre imprese Amor li guidi
Fra le oscure mortali, o che gli assorba
De le dive lor pari entro a la luce.
Qui gli antiqui d'Amor noti campioni,
Con voci esili e dalF ansante petto
Fuor tratte a stento, rammentando vanno
Le già corse in amar fiere vicende.
Indi gl'imberbi eroi, cui diede il padre
La prima coppia di destrier pur jeri.
Con animo viril celiano al fianco
Di provetta beltà che a i risi loro
Alza scoppj di risa, e il nudo spande
Che di veli mal chiuso i guardi cerca
Che il cercarono un tempo. Indi gli adulti
A la cui fronte il primo ciuffo appose
Fallace parrucchier scherzan vicini
A la sposa novella ; e di bei motti
Tendonle insidia ove di lei s'intrichi
288 IL GIORNO (v. 495-534).
L'alma inesperta e il timido pudore.
Folli ! che a i detti loro ella va incontro
Valorosa cosi come una madre
Di dieci eroi. V'ha in altra parte assiso
Chi di lieti racconti o pur di fole
Non ascoltate mai raro promette
A le dame trastullo, o ride e narra
E ride ancor, ben che a le dame in tanto
Sul beir arco de' labbri aleggi e penda
Non voluto sbadiglio: e v'ha chi altronde
Con fortunato studio in novi sensi
Le parole converte; e in siinil suoni
Pronto a colpir divinamente scherza.
Alto al genio di lui plaude il ventaglio
De le pingui matrone a cui la voce
Di vernacolo accento anco risponde ;
Ma le giovani madri al latte avvezze
Di più gravi dottrine il sottil naso
Aggrinzan fastidite ; e pur col guardo
Scmbran chieder pietade a i belli spirti
Che lor siedono a lato e a cui gran copia
D'erudita effemeride distilla
Volatile scienza entro a la mente.
Altri altrove pugnando audace innalza
Sopra d' ognaltro il palafren eh' ei sale,
(.) il poeta il cantor che lieti ei rende
De le sue mense. Altri dà vanto all' elso
Lucido e bello de la spada ond'egll
Solo, e per casi non più visti, al fine
Fu dal più dotto Anglico artier fornito.
Altri grave nel volto ad altri espone
Qual per l'appunto a gran convito apparve
Ordin di cibi : ed altri stupefatto,
Con profondo pensier, con alte dita
Conta di quanti tavolieri a punto
Grande insolita veglia andò superba.
Un fra l'indice e il medio inflessi alquanto
Molle ridendo al suo vicin la gota
Preme furtivo : e 1' un da tergo all' altro
Il pendente cappel dal braccio invola ;
LA NOTTE (v. 535-549). 239
E del felice colpo a sé dà plauso. *
Ma d'ogni. lato i pronti servi in tanto
E luci e tavolieri e seggi e carte,
Suppellettile augusta, entran portando.
Un sordo stropicciar di mossi scanni.
Un cigolio di tavole spiegate
Odo vagar fra le sonanti risa
Di giovani* festivi e fra le acute
Voci di dame cicalanti a un tempo :
Qual dintorno a selvaggio antico moro
Suir imbrunir del di garrulo stormo
Di frascheggianti passere novelle.
Sola in tanto rumor tacita siede
La matrona del loco : e chino il fronte
E increspate le ciglia, i sommi labbri
* A questo~punto doveva probabilmente innestarsi il frammento
che il Carducci pubblicò nella sua Storia fjiel Giorno, pag. 27.3-4.
Descrive l'entrala nella conversazione d'una sposa novella: "A lei
vegnente Sorgon plaudendo i cavalier gentili. A lei vegnente
r inclite matrone Con severo contegno in su le gote Stampan
di mano in man due baci a punto, E con pari contegno in su
le gole Poi ricevon da lei due baci a punto. Tal, se volgendo
i due begli occhi grandi Ne le sale del ciel Giuno sen viene Dal
talamo immortai ove rendette Padre d' un altro nume il gran
Tonante, I maschi eterni e le divine femine Di letizia e di fe-
sta a lei dan segno. A lei di Cirra il vago dio che torna Pur
or dal giro suo, dove correndo Sparse di raggi d'oro ampia ric-
chezza. Chinasi e versa dal bocchin socchiuso Eleganze stra-
niere : a lei Gradivo, Stretti i gomiti al fianco e il petto alzato
E la canna pendente in fra le dita, Mollemente sorride: anco
Cillenio Col piumato cappel sotto a T ascella E d'alati fermagli
il piede ornato Rompe la folla, e di lontan comincia A spander
di parole alto profluvio Applaudendo a la diva. Idalia intanto.
Chiara nel ciel pQr variati amori E per argute di parlar licenze,
Corre improvviso ad abbracciarla, e s'alza, E un non so che
susuirale a 1' orecchio. Quella semplice ancor tigne il bel volto
D' un vermiglio importuno, e questa cade Supina in sul sedile
alti mandando Scoppi di risa, e rigonfiando ansante Ciò che
del molle seno anco le resta. Che di veli mal chiuso i guardi
cerca Che il cercarono un tempo. A tale aspetto Tu, casUssima
dea de' boschi amica, Torci il candido collo, i labbri aggrinzi,
E fastidita a contemplar ti volgi Del biondo Ganimede il volto
e i moti, Mentr'ei girando per lo ciel dispensa 11 nettare ge-
lato o pur l'ambrosia De i divini palati almo conforto. „ Qualche
verso i)erò (487-90) era già nel testo.
240 IL GIORNO (v. 550-580).
Appoggia in sul ventaglio, arduo pensiere
Macchinando tra sé. Medita certo
Come al candor, come al pudor si deggia
La cara figlia preservar che torna
Doman da i chiostri ove il sermon d'Italia
Pur giunse ad obliar, meglio erudita
De le Galliche grazie. Oh qual dimane
Ne i genitor, ne' convitati a mensa
Ben cicalando ecciterai stupore.
Bolla fra i lari tuoi vergin straniera !
Errai. Nel suo pensier volge di cose
L' alta madre d' eroi mole più grande ;
E nel dubbio crudel col guardo invoca
De le amiche V aita ; e a sé con mano
Il fido cavalier chiede a consiglio.
Qual mai del gioco a i tavolier diversi
Ordin porrà che de le dive accolte
Nulla obliata si dispetti, e nieghi
Più qui tornare ad aver scorno ed onte ?
Come con pronto antiveder del gioco
Il dissi mil tenore a i genj eccelsi
Assegnerà conforme, ond' altri poi
Non isbadigli lungamente, e pianga
Le mal gittate ore notturne, e lei
De lo infelice oro perduto incolpi ?
Qual paro e quale al tavolier medesmo
E di campioni e di guerriere audaci
Fia che tra loro a tenzonar congiunga ;
Si che già mai per miserabil caso
La vetusta patrizia, essa e lo sposo
Ambo di regi favolosa stirpe, *
* Alinola il De Magri (p. 52) che •* V ironia è diretta a mordere
un libro il quale, proponendosi di investigare le origini delle no-
stre famiglie patrizie, con ridicola sottigliezza d'argomenti, tutte le
trova nella storia degli anticlii Romani e Greci „. Il libro sarebbe
di un tal Giovan Pietro de' Cresccnzi, romano, nobile piacentino.
Fu pul)blicatoaMiIano, "nella Heg. Due. Corte,, 111648, con questo
pomposo titolo: Anfiteatro Romano, nel quale, con le memorie de'
(haniìi, si rappilogano in parte l'origine et le grandezze de' primi
Potentati d'Europa: et descrivendosi i principi et V instituto di tutti
gli Ordini antichi o nuovi della Cavalleria di Collana, si rappresenta
la nobiltà delle famiglie antiche e nuove della regia città di Milano ecc.
LA NOTTE (v. 581-620), 241
Con lei non scenda al paragon che al grado
Per breve serie di scrivani or ora
Fu de' nobili assunta, e il cui marito
Gli atti e gli accenti ancor serba del monte ?
Ma che non può sagace ingegno e molta
D*anni e di casi esperienza ? Or ecco
Ella compose i fidi amanti, e lungi
De la stanza nell'angol più remoto
Il marito costrinse, a di si lieti
Sognante ancor d' esser geloso. Altrove
Le occulte altrui, ma non fuggite all'occhio
Dotto di lei ben che nascenti a pena,
Dolci cure d'amor, fra i meno intenti
i meno acuti a penetrar nell'alte
Dell' animo là tèbre, in grembo al gioco
Pose a crescer felici : e già in duo cori
Grazia e mercé de la beli' opra ottiene.
Qui gì' illustri e le illustri ; e là gli estremi
Ben seppe unir de'novamente compri
Feudi, e de' prischi gloriosi nomi
Cui mancò la fortuna. Anco le piacque
Accozzar le rivali, onde spiarne
1 mal chiusi dispetti. Anco per celia
Più secoli adunò, grato aspettando
E per gli altri e per sé riso dall' ire
Settagenarie che nel gioco accense
Fien, con molta raucedine e con molto
Tentennar di parrucche e cuffie alate.
Già per l' aula beata a cento intorno
Dispersi tavolier seggon le dive,
Seggon gli eroi, che dell' Esperia sono
Gloria somma o speranza. Ove di quattro
Un drappel si raccoglie, e dove un altro
Di tre soltanto. Ivi di molti e grandi
Fogli dipinti il tavolier si sparge,
Qui di pochi e di brevi. Altri combatte ;
Altri sta sopra a contemplar gli eventi
De la inslabil fortuna e i tratti egregi
Del sapere o dell'arte. In fronte a tutti
Grave regna il consiglio: e li circonda
16
242 IL GIORNO (v. 621-660).
Maestoso silenzio. Erran sul campo
Agevoli ventagli, onde le dame
Gercan ristoro all'agitato spirto
Dopo i miseri casi. Erran sul campo
Lucide tabacchiere: indi sovente
Un'util rimembranza, un pronto avviso
Con le dita si attigne; e spesso volge
I destini del gioco e de la veglia
Un atomo di polve. Ecco sen ugne
La panciuta matrona intorno al labbro
Le calugini adulte: ecco sen ugne
Le nari dilicate e un po' di guancia
La sposa giovinetta. In vano il guardo
D' esperto cavalier che già su lei
Medita nel suo cor future imprese
Le domina dall'alto i pregi ascosi:
E in van d'un altro timidetto ancora
II pertinace pie l'estrema punta
Del bel pie le sospigne. Ella non sente
O non vede o non cura. Entro a que' fogli
Gh' ella con man si lieve ordina o turba
De le pompe muliebri a lei concesse
Or s'agita la sorte. Ivi è raccolto
Il suo cor, la sua mente. Amor sorride;
E luogo e tempo a vendicarsi aspetta.
Ghi la vasta quiete osa da un lato
Romper con voci successive, or aspre,
Or molli, or alte, ora profonde, sempre
Gon tenore ostinato al par di secchi
Ghe scendano e ritornino piagnenti
Dal cupo alveo dell'onda; o al par di rote
Ghe sotto al carro pesante, per lunga
Odansi strada scricchiolar lontano ?
L'ampia tavola è questa a cui s'aduna
Quanto mai per aspetto e per maturo
Senno il nobil concilio ha di più grave
O fra le dive socere o fra i nonni
O fra i celibi già da molti lustri
Memorati nel mondo. In sul tappeto
Sorge grand' urna che poi scossa in volta
LA NOTTE (v. 661-688). 243
La dovizia de' numeri comparte
Fra i giocator cui numerata è innanzi
D* immagini diverse alma vagliezza. *
Qual finge il vecchio che con man la negra
Sopra le grandi porporine brache
Veste raccoglie, e rubicondo il naso
Di grave stizza alto minaccia e grida
L'aguzza barba dimenando. Quale
Finge colui che con la gobba enorme
E il naso enorme e la forchetta enorme
Le cadenti lasagne avido ingoja.
Quale il multicolor Zanni leggiadro
Che col pugno posato al fesso legno
Sovra la punta dell' un pie s'innoltra
E la succinta natica rotando
Altrui volge faceto il nero ceffo.
Né d'animali ancor copia vi manca,
al par d'umana creatura l'orso
Ritto in due piedi o il micio o la ridente
Simia o il caro asinelio onde a sé grato
E giocatrici e giocator fan speglio.
Signor, che fai ? Cosi dell' opre altrui
Inoperoso spettator non vedi
Già la sacra del gioco ara disposta
A te pur anco? E nel!' aurato bronzo.
Che d'Attiche colonne il grande imita,
1 lumi sfavillanti a cui nel mezzo
Lusingando gli eroi sorge di carte
* • La Cavagnola, giuoco ugitato in Lombardia „, annota il Reina ;
e il De Magri soggiunge: • Essendosi a' di nostri perduto ruso e la
memoria di questo giuoco, non sarà ingrato un più esteso cenno
del medesimo, tratto da un moderno dizionario francese. — Jcu
de Iiasard, qui nous a été apporté de Génes vers le milieu du dix-
huìtième siede. Les Gcnois l'appellent Cavajola, mot qui signìfìe
nappe ou scrvielte. Il se joue avec de petits tableaux à cinq cases,
qui contiennent des figuresetdes numéros. Gomme il n'y a point
de lianquier et que cliacun Ure les boules à son tour, il est égal
pour tous les joueurs. Il ctait en usage du temps de Voltaire, qui
cn parie dans ces vers d' une épitre à la princesse de....: On croiraìt
que le Jeii console, Mais V ennui vieni à pas comptés A la table
d'un Caitagnole S' asseoir entra deux Majestés „.
244 IL GIORNO (v. 689-728).
Elegante congerie intatta ancora ? ?
Ecco s' asside la tua Dama e freme
Omai di tua lentezza : eccone un' altra,
Ecco reterno cavalier con lei
Che ritto in pie del tavolino al labbro
Più non chiede che te; e te co i guardi,
Te con le palme desiando- affretta.
Questi, or volgon tre lustri, a te simile .
Gorre di gloria il generoso stadio
De la sua dama al fianco. A lei Finterò
Giorno il vide vicino, a lei la notte
Innoltrata d'assai. Varia tra loro
Fu la sorte d' amor, mille le guerre,
Mille le paci, mille i furibondi
Scapigliati congedi e mille i dolce
Palpitanti ritorni, al caro sposo
Noti non sol, ma nel teatro e al corso
Lunga e trita novella. Al fine Amore
Doco tanti travagli a lor nel grembo
Molle sonno chiedea, quand'ecco il Tempo
Tra la coppia felice osa indiscreto
Passar volando; e de la dama un poco,
Dove il ciglio ha confin, riga la guancia
Gon la cima dell' ale, all' altro svelle
Parte del ciuffo che nel liquid' aere
Si conteser di poi 1' aure superbe.
Al fischiar del gran volo, a i dolci lai
De gli amanti sferzati, Amor si scosse.
Il nemico senti, l'armi raccolse,
A fuggir cominciò. Pietà di noi,
Pietà ! gridan gli amanti: or se tu parti,
Gome sentir la cara vita, come
Più lunghi desiarne i giorni e V ore ?
Nò già in van si gridò. La gracil mano
Verso r omero armato Amor levando,
Rise un riso vezzoso; indi un bel mazzo
De le carte che Felsina colora
Tolse da la faretra, e Questo, ei disse,
A voi resti in mia vece. Oh meraviglia!
Ecco que' fogli, con diurna mano
LA NOTTE (v. 729-768). 245
E notturna trattati, anco d' amore
Sensi spirano e moti. Ah se un invito
Ben comprese giocando e ben rispose
Il cavalier, qual de la dama il fìede
Tenera occhiata che nel cor discende;
E quale a lei voluttuoso in bocca
Da una fresca rughetta esce il sogghigno!
Ma se i vaghi pensieri ella disvia
Solo un momento, e il giocatore avverso
Util ne tragge, ah! il cavaliere allora
Freme geloso, si contorce lutto.
Fa irrequieto scricchiolar la sedia;
E male e violento aduna, e male
Mesce i discordi de le carte semi ;
Onde poi V altra giocatrice a manca
Ne invola il meglio : e la stizzosa dama
I due labbri aguzzando il pugne e sferza
Con atroce implacabile ironia
Gara a le belle multilustri. Or ecco
Sorger fieri dispetti, acerbe voglie,
Lungo aggrottar di ciglia, e per più giorni
A la veglia, al teatro, al corso, in cocchio,
Trasferito silenzio. Al fin chiamato
Un per gran senno e per veduti casi
Nèstore tra gli eroi famoso e chiaro.
Rompe il tenor de le ostinate menti
Con mirabil di mento arduo consiglio.
Cosi, ad onta del tempo, or lieta or mesta
L'alma coppia d'amarsi anco si fìnge.
Cosi gusta la vita. Egual ventura
T'é serbata, o Signor, se ardirà mai.
Gli' io non credo però, V alato veglio
Smovere alcun de' preziosi avorj
Onor de' risi tuoi, si che le labbra
Si ripieghino a dentro e il gentil mento
Oltre i confìn de la bellezza ecceda.
Ma d'ambrosia e di nettare gelato
Anco a i vostri palati almo conforto.
Terrestri Dcitadi, ecco scn viene ;
E cento Ganimedi, in vaga pompa
246 IL GIORNO (v. 769-808).
E di vesti e di crin, lucide tazze
Ne recan taciturni ; e con leggiadro
E rispettoso inchin tutte spiegando
Dell* omero virile e de' bei fianchi
Le rare forme, lusingar son osi
De le Cinzie terrene i guardi obliqui.
Mira, o Signor, che a la tua Dama un d'essi
Lene s' accosta e, con sommessa voce
E mozzicando le parole alquanto
Onde pur sempre al suo Signor somigli,
A lei di gel voluttuoso annuncia
Copia diversa. Ivi è raccolta in )ieve
La fragola gentil che di lontano
Pur col soave odor tradi sé stessa ;
V'ò il salubre limon ; v'é il molle latte;
V'é con largo tesor culto fra noi
Pomo stranier che coronato usurpa
Loco a i pomi natii ; v' è le due brune
(Morose bevande che pur dianzi
Di scoppiato vulcan simili al corso
Fumanti, ardenti, torbide, spumose,
Inondavan le tazze, ed or congeste
Sono in rigidi coni a fìeder pronte
Di contraria dolcezza i sensi altrui.
Sorgi tu dunque e a la tua Dama intendi
A porger di tua man, scelto fra molti.
Il sapor più gradito. I suoi desiri
Ella scopre a te solo ; e mal gradito
O mal lodato al men giugne il diletto
Quando al senso di lei per te non giunge.
Ma pria togli di tasca intatto ancora
Candidissimo lin, che sul bel grembo
Di lei scenda spiegato, onde di gelo
Inavvertita stilla i cari veli
E le frange pompose in van minacci
Di macchia disperata. Umili cose
E di picciol valore al cieco vulgo
Queste forse parran che a te dimostro
Con si nobili versi, e s[)argo ed orno
De' vaghi fiori de lo stil ch'io colsi
LA NOTTE (v. 809-816). 247
Ne' recessi di Pindo e che già mai
Da poetica man tocchi non furo.
Ma di si crasso error di tanta notte
Già tu non hai V eccelsa mente ingombra,
Signor, che vedi di quest'opra ordirsi
De' tuoi pari la vita, e sorger quindi
La gloria e lo splendor di tanti eroi
Che poi prosteso il cieco vulgo adora.
* A colmare la lacuna, il Carducci {Storia del Giorno, p. 276-280),
pubblica le seguenti note rinvenute tra gli autografi pariniani :
" 11 teatro è vin alveare, i palchi le celle, i giovani le api che
fanno il miele. — Al teatro gli altri vanno per sollevarsi dalle fa-
tiche, tu solo ci y^ì per coronare coU'estrema le fatiche del giorno.
— Porti il sacco, Iq levi, lo adatti; segga in faccia alla dama, pu-
lisca il cannocchiale^ esibisca diavoletti, porti ambasciate. — Go-
dere in un punto coi> la vista gli spettacoli, coir udito la musica,
coH'olfato gli odori, co^ gusto gli sporgimenU, col tatto del ginoc-
chio la donna. — Gli atteri applaudi non quando il meritano ma
quando vien capriccio. Il \ulgo adopera la ragione e quel senso
che per ciò è detto comunaj ma le voglie repentine sieno sole la
tua norma. — Donne di teat»^ : Amore guarda le dame, e sorride.
— Celibi. — Marito. — Bando 9 nastro da notte ricamato a carat-
teri amorosi dalla bella. — Cav^ier savio, dama savia. — Caratteri
di donne da visitare in teatro. — - Maschere. Chauves-souris. Tor-
nando svegliarsi all' improvviso e applaudire a chi stona. — Ca-
valieri che mantengono donne. -^ Cavalieri che danno ciarle
e protezione alle donne di teatro non potendo dar altro. —
Dame guardano ai ballerini, cavalieri aUe ballerine. — In palco
non ceder la mano, tornando ripigliarla. — Nella platea discendi
talora, accomunati co' musici, buffoni mutoli. — Degna talora gli
uomini di talento, ma come lione. — Parlar forte dalla platea al
palco.— Nel partir dal palco cerchi dello staffiere per la mantiglia,
la metta alla dama, ne acconci le code nel cappuccio. — Meravi-
glia de' posteri pensando che tu abbi fatto ogni giorno tante cose
per tanti anni. — Morte dell'eroe, funerali, apoteosi. — Inferno.
Mostri vari, ombre pallide, tutti eguali. Giudici sedendo distribui-
sco n le pene : tolgono agli uni il frutto de' lor peccati, danno ad
altri un premio che tornerà in loro danno, ec. „ E anche questi
versi: ' Poi che tant'opre e gloriose hai solo Fatte in un giorno,
almo signore, or vieni Meco e discendi ne la valle inferna. Nò
il lusingante con la cetra Orfeo Né l'armato di clava Ercole in-
vitto Sarien si chiaro a scintillar saliti LÃ per la volta de l'e-
tereo polo, Se non tentato già per l'ombre eterne Lasciato
avesser l'ultimo perigUo; Né di te degno e de relerna Clio Sarla
248 IL GIORNO.
il tuo vale, se de gli altri al paro Poi non guidasse il suo can-
tato eroe Felice temerario in faccia a Pluto. Vergine furibonda
e scapigliata De le cui voci profetanti tutta Ululava l'cuboica
riviera Ne' prischi tempi e che guidasti a Dite — 11 timoroso de
gli dei troiano, Tu predinne le sorti e tu ne assisti, Mentre
d'un semideo guidando i passi Scendo uom mortale e jienetrar
son oso 1 ridotti de l'ombre e il regno avaro. Ma oh Dio giÃ
mi trasformo. Ecco ceco un velo Ampio, nero, lugubre a me
d'intorno Si diffonde, mi copre. In grembo ad esso Si rannic-
chian le braccia, e veggio a pena Zoppicarmi del pie la punta
estrema Sotto spoglie novelle. Orrida giubba Di negro velo
anch'essa a me dal capo Scende sul dorso e si dilata, e cela E
mento e gola e petto. Ahimè il sembiante Sorge privo di labbra,
esangue, freddo, E di squallore sepolcral coperto ,.
Tra le carte pariniane, dice il Cantù (L'ab. Parini, 1854, p. 266-7),
" si trovarono il Vespro compito, con due foglietti che ne conte-
neano le varianti, e sette esemplari della Notte non finita ».
A proposito dei vv. 210-11 della Nolte, sarà bene riferire qui in
nota un frammento parìniano, in cui è descritto un Auto da fé
{OjK, I, 227-30). Son versi storicamente notevoli. Nel 1768 Maria Te-
resa soppresse nel Ducato di Milano l'Inquisizione dell'eretica
pravità ; e dai primi due versi parrebbe che al poeta venisse dal-
Tallo r ingiunzione di descrivere gli orrori del Sani' Uffizio nella
Spagna.
Fingimi, o Musa, or che prescritto è il fuoco
Per subbietto al tuo canto, in versi sciolti
Atti a svegliar nel sen del mio Baretti
Leggiadra bile contro a quel che il primo
Osò scuotere il giogo de la rima
Che della querul'Eco il suono imita;
Fingimi, dico, in qual guisa l'Ibero,
Amator di spettacoli funesti,
Soglia a sé far delizioso obbietto
De la morte de gli empj i quai fur o«i
Sollevarsi ostinati incontro a i dogmi
De la Religton de^ nostri padri.
Ecco di già l'orribile teatro
Spalancato ingojar per cento vie
La ognor di stravaganze avida plebe.
Ecco sorger da un lato anfiteatro
Lagrimevole e tristo ove non d'orsi
O tauri tigri o barbare leene
Fera strage sarà ; ma dove attendo
LA NOTTE. 249
L' ultima pena i miseri dannati.
Ecco dall'altro il venerato trono
Del giudice supremo a cui fu dato
Por fren de gli empj all'esecrande lingue
Colla spada e col fuoco. In tanto move
Con lento passo e con squallide facce
La terribile pompa in ordin lungo.
S'avanzan primi i figli di colui
A cui il ciel die' la spada e disse: uccidi
Gli empj fratelli tuoi cui il ver s'asconde;
Indi gli altri ministri i quai di, tanto
Gran potestade fur chiamati a parte.
Ma già vengon co' pie nudi seguendo
L' imagine di quel che per salvarne
Mori sul legno i duri peccatori.
Ei lor volge le spalle onde sia chiaro
Che lor non resta a più sperar salute.
Tutti intorno li copre oscura vesta
Cui vergan bianche liste; e sopra il petto
E su gli omeri scende altra di tetro
Mal augurato bigio colorita.
Fiamme infernali, draghi e dimon crudi,
Che con orrendi ceflft attizzan fuoco
Sotto all'imagin del tristo dannato,
Quivi sono dipinti. Al basso appare
L' infame nome e l'esecrabil colpa
Che a tanta pena il cattivel conduce:
se bestemmiando alzò la voce
In contro al Nume ; o se per danno altrui
Osò evocar dall' Èrebo infelice
Con sacrilego carme spirti ed ombre;
O col poter di bestemmiati sughi
De le sfrenate lammie a i sozzi alberghi
Notturno venne. Spaventose mitre
Loro sorgon sul capo, ove i demóni
Entro a sulfuree fiamme e serpi e botte
Tesson atra ghirlanda. Oh quant'uom puote
Umiliar l'altr'uomo! In cotal guisa.
Recando ne la man funeree faci
Tutte a giallo dipinte, ì peccatori
S'avviano a lor giudizio, indi a la pena.
Ma non eviteran color l'infamia
Che prevenner, morendo, il giorno atroce;
Però che l'ossa lor sturbate ancora
Da la quiete de le fredde tombe
Vanno a le fiamme, accolte in forzier neri
Sui quali alto s'erige il simulacro
Ch'ebbero dianzi allor che spirto e forma
Aveano d'uomo. Ecco già gli ampj roghi
Accender veggio; e de le fiamme all'aere
250 IL GIORNO.
I minacciosi coni ir sibilando.
Già le vittime accoglie il tetro fuoco
Vendìcator de la religione
Insultata da gli empj. Il elei rimbomba
In voci di pietade e di furore.
Già compiuta è la scena: ecco ne porta
Le ceneri meschine il vento e il fiume.
O Iberia, Iberia, hai tu forse più ch'altri
Di sacrileghi e d'empj il suol fecondo
Che si spesso ritorni al fero gioco?
11 Canapè (cfr. vv. 261 ss.) fu anche celel>rato dal Parini in uno
degli Scherzi sulle Vèntole {Op,, III, 13):
Sopra il molle canapè
Nel meriggio più infocato
Un mi tiene avanti a sé;
Altri due gli stanno a lato.
Io con moto dolce e grato
Do ristoro a tutti e tre
Sopra il molle canapè.
E il Ventaglio, che compie una cosi importante parte nella con-
versazione patrìzia e durante il gioco, fu pur esso variamente il-
lustrato dal poeta nei suoi Scherzi (v. dietro, p. 97) :
Noi ventagli e voi amanti
Tra di noi ci somigliamo.
Or mutati, ora scordati,
Or dimessi, ora cercati,
Capovolti, raggirati.
Ora siamo di moda ed or noi siamo,
Come piace a le belle a cui serviamo.
Il tuo bene, il tuo bel foco
Fa all'amore in altro loco:
E tu, Nice, che farai
Per passar questo momento?
Fatti vento!
De le belle il ca])0 a nuoto
Va in un turbin di cai)ricci.
Io movendomi do moto
À quel turbin di capricci:
E cosi con l'opra mia
Impedisco che corrotti
Non diventino pazzia.
Mi par bene di riferire (lui per dichiarare alcuni degli ultimi
versi della Sotte, e non essi soltanto, le considerazioni che ebbe a
farvi su, per caso, lo Zumbini {Poeti italiani e poeti stranieri, nel
Giorn. SapoL d. domenica, 5 febbraio 1882).
" Il Foscolo aveva giù notato come l' ironia del poema pariniano
LA NOTTE. 251
ci facesse rammentare talvolta di quella del The rape of the Lock
del Pope „ — egli dice (cfr. Foscolo, Opere, Le Monnier, XI, 218-9).
Si potrebbe soggiungere che già al Baretti, nella Frusta del 1° ot-
tobre 1763, il Mattino aveva richiamato in mente quel poemetto
inglese : " Dacci il quadro fìnito „, aveva concluso, " e contrappor-
remo senza paura i tre canti del tuo poema al Lutrin di Boileau
e al Rape of the Lock di Pope „. E altresì che già al Braniieri era
venuto in mente, secondo narra nella sua lettera del 7 settembre
1799 {Lettere di due amici, p. 6), " che a determinare il Parini a pre-
scegliere l'ironia qual arnie, che nascondendo a primo tratto la
intenzion di ferire non offende che lentamente e fa non pertanto
profonda e durevole impressione, avesse dovuto contribuire mol-
tissimo il Riccio rapito di Pope. Parevami „ , ripigliava, ' che di lÃ
più che d'altronde derivata avesse almeno il nostro poeta quell'arte
difficilissima di aggrandire i piccioli, di nobilitare i bassi oggetti,
di cogliere destramente i minimi dettagli produttori della massima
evidenza, di rilevare maravigliosamente le minutezze e di dare
al frivolo ed al ridicolo un'aria ben sostenuta d'importanza „.
" E qualche altro scrittore „, continua lo Zumbini, " ha poi ac-
cennato alla imitazione più o meno probabile che possa averne
fatto il Parini. Il Cantù ... non accoglie questa opinione, parendogli
che l'arte di magnificare un piccolo evento e nobilitare le minute
particolarità il Parini poteva averla imparata da ben altri, comin-
ciando dalla Batracomiomachia e venendo ai nostri berneschi. La-
sciando stare quanto c'è di falso in questa e in altre sentenze che
r illustre storico ha sopra questo medesimo proposito, diciamo
solo che vi sarebbe un mezzo semplicissimo di risolvere tali qui-
stioni : la paziente lettura dei poemi, di cui vogliasi affermare o
negare la relazione. Or bene, chi legga tutto il Rape of the Lock
non può non conchiudere che il Parini se ne sia valso largamente,
imitandone, con abilità somma, moltissimi luoghi e insieme certe
forme estetiche e maniere particolarissime al poeta inglese ... Il
Mattino è tutto ricalcato sul primo canto del poema inglese, e spe-
cialmente suir ultima parte di esso canto. 11 giovine signore è, nel
poema italiano, un personaggio che corrisponde perfettamente
alla Belinda del poema inglese. E qui voglio per incidenza notare
come senza questi o simili studi, il critico corre rischio non pure
di estimare inadeguatamente il valore estetico dei fatti, non po-
tendone determinare esattamente l' invenzione, ma eziandio d' in-
gannarsi intorno al valore storico o morale dei medesimi. Cosi, per
dame un esempio, accade al Cantù, là dove trova non abbastanza
signorile, e poco conforme ai costumi contemporanei, l'alto del
giovine signore, descritto dal Parini in questi versi: Ma pria togli
di tasca ecc. {v. dietro, p. 246, vv. 799-804). Ebbene, questa è una delle
imitazioni del poema inglese. Capisco come, anche dopo saputo
ciò, l'atto possa parere poco signorile ; ma il critico, che ne avesse
indicato la fonte, avrebbe reso ragione dell'errore del poeta: er-
rore volontario e commesso con la speranza di conseguire un fe-
lice effetto poetico „.
11 passo, cui lo Zumbini si riferisce, è nel III canto. A quelli che
252 IL GIORNO.
ricorderanno la parie avuta dalla traduttrice nella vita del leopardi
riuscirà gradito eh' io lo dia nella versione della contessa Teresa
Malvezzi Carniani (Messina, 1836). Si è intorno alla tavola dove si
prepara il caffé.
Un rtmpio vaso tosto lo riceve,
In nettà rea bevanda lo converte,
E a curvo rostro cento tazze e ceuto
Ricolma. I cavalier con dolci inviti
Alle donne gentili in giro il porgono,
K vie scherzando tra soavi sorsi
Accrescono i diletti. I Silfi accorti.
Ed alla cura di Belinda intesi,
Van lievemente rigirando intorno :
Ed or su M ricco suo novel broccato
L' uno distende le dipinte penne,
Schermo apprestando alle cadenti stille;
L'alìro i zeffiri move al roseo labbro,
Che mentre liba dal calor soverchio
Non abbia offesa. Oh veramente grato,
Oh soave licor degno de' Numi !
" Non apparisce die il Parini sapesse d'inglese; ma ciò non im-
porta», osserva il Carducci {Storia del Giorno^ p. 123 ss.), al quale
però non piace, • e non so io perchè „ , che si parli di somiglianze
tra il poema pariniano e il Riccio rapito. ' A mezzo il secolo de-
ciniottavo la letteratura inglese era diffusa in Italia più forse che
oggi, e non pure per le traduzioni francesi, ma per conoscenza
propria della lingua e in traduzioni italiane.... Il Pope poi a quei
nostri avi piacque su tutti e fu gustatissimo. Tutte quasi le poesie
sue originali trovarono traduttori, e piìi d' uno, in Italia.... Il Rìccio
rapilo, primo dei nostri lo tradusse in endecasillabi sciolti l'abate
Antonio Conti patrizio veneto, a' conforti e con l'assistenza di lord
Bolingbroke, al tempo della seconda sua dimora in Londra e in
Parigi dal 1718 al 1726; e la traduzione, buona, pur omettendo al-
cuni particolari che parevano troppo inglesi, fu pubblicata nel 1756.
Anche l'avca tradotto fin dal 17:J9, e anche in versi sciolti, un
abate Andrea Bonducci fiorentino, letterato e stampatore :... la tra-
duzione, andante se non elegante, ebbe , prima della composizione
del Mattino, tre edizioni (Firenze 1739, Firenze e Venezia 1750, Na-
poli 1760). Sì che il Parini, non pure potè conoscere il Riccio nelle
traduzioni francesi in prosa e una in versi del Marmonlel (1746),
ma probabilmente lo conobbe e lesse nelle due versioni italiane»
forse, e senza forse, migliori delle francesi „. Il Pope compose e
pubblicò il suo poema il 1711-1712, e poi, rifatto, il 1714.
Pei raffronti tra i due poemetti, è anclie da vedere lo scritto
dello Z.VNKLLA, Alessandro Pope e Antonio Conti, pubblicato prima
nella Suova Antologia del P luglio 1882, e poi nel Paralleli lei"
terari, Verona, 1883; e, chi voglia, pur la sgarbata contradizionc del
signor G. Agnelli, Precursori e imitatori del Giorno, Bologna, 1888,
p. 25 ss.
LA NOTTE. 253
Racconta il Reina {Op., I, xxxvi) che " l'arte recondita „ del Pa-
ri ni, " ignota al volgo de' poeti e vestita dì apparente facilità , se-
dusse parecchi all' imitazione de' poemetti, per vaghezza di fama.
Ma l'autore della Sera, quelli dell' Uso, della Moda e delle Conver-
sazioni, mal distinguendo tra il naturale e l'affettato, il grande ed
il turgido, il vero ed il falso, imitarono i modi suoi laddove l'ec-
cellenza dell'arte è vicina al pericolo ; e, privi di belle e giudiziose
invenzioni e di bello stile, provarono co' mediocri loro componi-
menti che gli scrittori originali sono rari e quasi inimitabili „. Della
Sera, che comparve a Venezia nel 1766 accodata con non biasimevole
audacia ai due poemetti pariniani (cfr. Lettere di due amici, p. 60
ss.), era autore un Mulinelli non so se veronese o bresciano (v. dietro,
p. 119). Dell' Uso, pubblicato a Bergamo e a Brescia nel 1778 e nel
1780, autore era il conte Durante Duranti. Narra l' Ugoni che, do-
mandato il Parini che ne pensasse, rispondesse : " So pur troppo
d'aver fatto de' cattivi scolari! „ La Moda e le Conversazioni son
due poemetti che il parmense Clemente Bondi, uno degli ex-ge-
suiti benaccetti alla Corte arciducale di Milano (v. dietro, p. 120),
compose e pubblicò nel 1778. (V. quanto ne dice il Bramieri nelle
Lettere di due amici, p. 62 ss.).
A codesti imitatori e a codeste imitazioni son pure da. aggiun-
gere : il canonico Gaetano Guttierez del Hoyo, che nel 1767 mandò
fuori anonimo II Cavalier del dente, e l'anno dopo, s'è suo, Il
Cavalier del naso ; I Nei, " poemetto di noto autore milanese „ Ve-
nezia, Graziosi, 1768; Il Mattino d'Elisa, Venezia, Bassanese, 1768
(dov' è notevole il consiglio del poeta alla sua eroina di non " pa-
ventar che intanto il cavaliere Di Belinda rinnovi il caso acerbo
Col rapirti alcun riccio alto sorgente „); Il Tupè, Bassano, Remon-
dini, 1772, stanze graziose e leggiadre di Iacopo Viltorelli ; Il Com-
wercio, Il Gusto, La Toletta, V Emilia del bresciano Giuseppe Col-
pani, Milano 1766 e 1767, Lucca 1780 ; // Gioco, " stampato nelle Pro-
vincie venete poco prima o poco dopo il 1765 „ ; Lo Studente alla
moda, " d'autor napolitano, certamente composto e probabilmente
stampato innanzi al 1787 „.
Cfr. Agnelli, Precursori e imitatori del Giorno, p. 47 ss.; Gnoli,
Studi letterari, Bologna, 1883, p. 310 ss. ; Carducci, Storia del Giorno,
p. 202 ss.
pobsie; varik
AL CONSIGLIERE BARONE DE" MARTINI'
Signor, poi che degnasti a i versi miei
Dar si benigna lode, a ciie li rendi
Tosto che letti ? E chiara sede nieghi
Al lor breve volume in fra i molt'altri
Che buon giudice aduni o che felice
Autor descrivi ? Al vulgo in pelli adorne
Piace i libri ammirar; ma tu non curi
Specie o colori, ape sagace intenta
Solo i dolci a sorbir celati sughi.
Forse de le dottrine alte e severe
Clio a te forman tesoro indegni credi
Questi miei scherzi? No. Tuo senno integro
Non vieta espor Futile e il ver scherzando.
Spesso gli uomini scuote un acre riso:
Ed io con ciò tentai frenar gli errori
De' fortunati e de gP illustri, fonte
Onde nel popol poi discorre il vizio.
Nò paventai seguir con lunga beffa
E la superbia prepotente e il lusso
Stolto ed ingiusto e il mal costume e l'ozio
* Annota il Mazzoni: " Carlo Antonio De' Martini, mandato da
Giuseppe II a riordinare il Fóro lombardo, ebbe in dono il Mattino
e il Mezzogiorno dal Parini ; ma, dopo lettili, glieli rimandò aven-
dosi a male che non fossero ben rilegati ; con questi versi il Pa-
rini glieli rimanda da capo „. Furono scritti circa il 1784.
17
258 POESIE VARIE.
E la turpe mollezza e la nemica
D'ogni atto egregio vanità del core:
Cosi, già compie il quarto lustro, io volsi
L'itale Muse a render saggi e buoni
I cittadini miei: cosi la mente
Io d'Augusto prevenni : a cui, se in mezzo
All'alte cure de' miei carmi il suono
Salito fosse, a la salute, a gli anni
Onde son grave, avrei miglior sostegno,
E al terinin condurrei la impresa tela.
Dunque, o Signore, a la tua man concedi
Che rieda il mio volume, ond'altri veggia
Che, se tu dotto vi lodasti alcuno
Pregio dell'arte, la materia e il fine
Tu consultor del trono anco ne approvi.
260 POESIE VARIE.
I/usanza vostra: di sprezzar vi giova
L'età presente, ed esaltar Tetade
Che voi vide sbarbati. E qual vi resta
In questi di cadenti altro conforto
Fuor che la dolce vanità con molte
Vane querele lusingar tossendo ?
In vano, in van di richiamar tentate
L'antica calza in su le brache avvolta,
E le scarpe quadrate e i tempi oscuri.
Quando con formidabile staffile
Regnarono i pedanti, a cui dinanzi
Con boccaccia e con strani torcimenti
Stridevano i fanciulli
PER NOZZE*
È pur dolce in su i begli anni
De la calda età novella
Lo sposar vaga donzella
Che d'amor già ne feri.
In quel giorno i primi affanni
Ci ritornano al pensiere,
E maggior nasce il piacere
Da la pena che fuggi.
Quando il sole in mar declina
Palpitare il cor si sente:
Gran tumulto è ne la mente:
Gran desio ne gli occhi appar.
Quando sorge la mattina
A destar Taura amorosa,
Il bel volto de la sposa
Si comincia a vagheggiar.
Bel vederla in su le piume
Riposarsi al nostro fianco,
L'un de' bracci nudo e bianco
Distendendo in sul guancial;
E il bel crine oltra il costume
Scorrer libero e negletto,
E velarle il giovin petto
Che va e viene all'onda egual'
* Fu scritta suUa line del 1777, pel volume che si preparava in Ve-
rona a celebrar le nozze del marchese Carlo Malaspina con la
contessina Teresa Montanari. 11 Parini ne fu richiesto dal Pas-
se roni.
262 POESIE VARIE.
Bel veder de le due p;ote
Sul vivissimo colore
Splender limpido madore
Onde il sonno le spruzzò;
Come rose ancora ignote
Sovra cui minuta cada
La freschissima rugiada
Che Taurora distillò.
Bel vederla alFimprovviso
1 bei lumi aprire al giorno;
E cercar lo sposo intorno,
Di trovarlo incerta ancor:
E poi schiudere il sorriso
E le molli parolette
Fra le grazie ingenue e schiette
De la brama e del pudor.
O Garzone, amabil figlio
Di famosi e grandi eroi,
Sul fiorir de gli anni tuoi
Questa sorte a te verrà .
Tu domane, aprendo il ciglio.
Mirerai fra i lieti lari
Un tesor che non ha pari
E di grazia e di beltà .
Ma ohimè come fugace
Se ne va letà più fresca,
E con lei quel che ne adesca
Fior si tenero e gentil!
Come presto a quel che piace
L'uso toglie il pregio e il vanto;
E dileguasi l'incanto
De la voglia giovanili
Te beato in fra gli amanti,
Che vedrai fra i lieti lari
Un tesor che non ha pari
Di bellezza e di virtù!
La virtù guida costanti
A la tomba i casti amori,
Poi che il tempo invola i fiori
De la cara gioventù.
BRINDISI
Volano i giorni rapidi
Del caro viver mio;
E giunta in sul pendio
Precipita l'età .
Le belle ohimè che al fingere
Han lingua cosi presta
Sol mi ripeton questa
Ingrata verità .
Con quelle occhiate mutole
Con quel contegno avaro
Mi dicono assai chiaro:
Noi non siam più per te !
E fuggono e folleggiano
Tra gioventù vivace;
E rendonvi loquace
L'occhio la mano e il pie.
* Fu scritto al principio del 1778, quando già il poeta era sui
cinquanta. II Parini svolge con nuova leggiadria un vecchio motivo
anacreontico. Si ricordi la XI* delle odicine attribuite al poeta
greco, cosi caro al nostro. (Gfr. Novati, nel Giorn. Stor. d. lett. ital.,
I, p. 125). La dò nella versione contemporanea del RoUi:
Sentomi dir le donne :
Sei vecchio, Anacreonte !
Prendi lo specchio, osserva
Dileguati i capelli
E tutto calvo il fronte.
Di quel che spetta a quelli,
Non mi curo, non so
Se ancor vi sieno o no;
So ben che a un attempato
Divertirsi conviene
Più che l'estremo fato
Presso di lui sen viene.
264 POESIE VARIE.
Glie far? degg'io di lagrime
Bagnar per questo il ciglio ?
Ah, no: miglior consiglio
È di godere ancor.
Se già di mirti teneri
Colsi mia parte in Gnido,
Lasciamo che a quel lido
Vada con altri Amor.
Volgan le spalle candide,
Volgano a me le belle :
Ogni piacer con elle
Non se ne parte al fin.
A Bacco, all'Amicizia
Sacro i venturi giorni.
Cadano i mirti; e s'orni
D'ellera il misto crin.
Che fai su questa cetera,
Corda che amor sonasti?
Male al tenor contrasti
Del novo mio piacer.
Or di cantar dilettami
Tra' miei giocondi amici,
Augurj a lor felici
Versando dal bicchier.
Fugge la inslabil Venere
Con la stagion de' fiori:
Ma tu, Lieo, ristori
Quando il dicembre usci.
Amor con l'età fervida
Convien che si dilegue;
Ma l'amistà ne segue
Fino a l'estremo di.
Le belle, ch*or s'involano
Schife da noi lontano,
Verranci allor pian piano
Lor brindisi ad offrir.
E noi, compagni amabili,
Che far con esse allora?
Seco un bicchiere ancora
Bevere, e poi morir.
IL PARAFOCO
Stava un giorno Giterea
Di Vulcano a la fucina:
Né difender si sapea
Da la fiamma a lei vicina;
Nò salvar le fresche rose
De le gote sue vezzose.
Opponeva or destra or manca
Al gran foco ivi raccolto;
Ma la man picciola e bianca
Vano scudo era al bel volto;
Che feriva e volto e mano
La gran vampa di Vulcano.
De la Dea vide i tormenti;
A pietadc Amor si mosse:
E dell'ali rinascenti
Una subito strapposse,
Poi con atto dolce e caro,
Ecco, disse, il tuo riparo.
Serenò Venere il ciglio;
E il celeste almo sorriso
Rivolgendo al caro figlio,
Abbassossi, e il baciò in viso;
Poi fé' schermo al gran calore
Con quell'ala dell'Amore.
Ma la Dea sagace apprese,
Riparando al foco ardente.
266 POESIE VARIE.
Di quel vago e novo arnese
Ad usar più dolcemente:
Onde rise il Nume armato
Che le stava all'altro lato.
Ella i guardi a lui volgeva,
Airorecchio gli parlava,
E il bel volto nascondeva
Dal marito che guardava;
E cosi sfogava il core
Sotto all'ala deiramore.
Spesso ancor si ricopria
La metà de le pupille;
E più forte Tassalia
Condensando le faville,
Che ferian con più rigore
Sotto all'ala dell'Amore.
Or dal sommo de' bei labri
Accennava i molli baci;
Ora uscien de' bei cinabri
Sospiretti o ghigni audaci;
Or nasceva un bel rossore
Sotto all'ala dell'Amore.
Tale, intanto che Vulcano
Fabbricava arme agli Dei,
Giterea cosi pian piano
Accresceva i suoi trofei
Sopra il Nume vincitore
Sotto all'ala dell'Amore.
Belle mie, voi m'intendete:
Dell'Amor l'ala son io.
Come Venere, potete
E spiegar più d'un desio
E temprar l'occulto ardore
Sotto all'ala dell'Amore.
DA ANACREONTE*
Rondinella garruletta,
Se non taci, un giorno affé
Io vo' far sopra di te
Un'asprissima vendetta.
Vo' pigliarti stretta stretta,
E legarti per un pie';
Poi far quel che Téreo fé'
Con cotesta tua linguetta.
L'alba in ciel non anco appare
Che con querula favella
Tu ne vieni a risvegliare.
Or che dorme la mia bella,
Guarda ben, non la destare,
Garruletta rondinella.
E la XII delle Odi. Il Rolli Taveva già tradotta languidamente,
cosi :
Or che mai, per mia vendetta,
A te vuoi ch'io faccia, a te,
Rondinella garruletta ?
Quelle tue si rapid'ali
Vuoi che, prese, io tarpi ? o addentro
Tagli via quella tua lingua.
Come quel Teréo ti fé'?
Con le troppo mattutine
Voci stridule, a qual fine
Da quel sogno si gradito
Hai Batillo mio rapito ?
FINE.
i3sriDiaE
Pag.
Lettera a Bonaventura Zumbini v
Te di stirpe gentile, frammento dì ode x
Cenni riografici xiii
Io son nato in Parnaso...., sonetto xiv
Chi noi già per V undecima, frammento di ode . . . xv
Predà ro i Filistei l'Arca di Dio, sonetto xxii
Odi 1
Avvertenza 2
La vita rustica 3
Lasalubrità dell'aria 6
L a i m p o s t II r a 11
L'educazione 15
L'innesto delvaiuolo • 21
Ilbisogno 29
L a m u s i e a 33
Frammento del sermone II teatro . . 37
Lalaurea 39
L arecita deiversi 45
Un prete brutto vecchio.. ., sonetto 47
Ecco del mondo e meraviglia...., sonetto . . . 48
Ilpericolo 49
Grato scarpel su questo marmo...., sonetto .... 53
Quell'io che già con lungo...., sonetto 35
Lacaduta . .54
Late ni pesta 60
Carca di merci preziose. ... sonetto 65
In morte di Antonio Sacchini . . . 66
Quando costei su la volubil scena, sonetto ... 69
Allor che il caro albergo...., sonetto 70
270 INDICE.
Pag.
Lamagistraturn 71
Ildono 78
Tanta già di coturni...., sonetto 80
Le fresche ombre tranquille...^ sonetto 81
Lagratitudine. . . . 82
Il messaggio 93
Rapi de' versi miei...., sonetto 97
O /)e//a Venere per cui s' accende, sonetto .... 97
Sul vestire alla ghigliottina, A Silvia. . 99
Madamm g' ìiala quaj noeuva de Lionfy sonetto . . 103
Silvia immortai ben che da i lidi miei, sonetto . . 106
Alla musa 108
Il Giorno 113
Avvertenza 115
Il Mattino, poemetto 123
Allamoda 124
Nota 159
Il Mezzogiorno, poemetto 165
Nota 198
Il Vespro, poemetto 2(fi
La Notte, poemetto 223
Nota 248
L'Auto-da-fe, frammento 248
Sopra il molle canapè, epigramma 250
Noi ventagli e voi amanti, epigramma .... 250
Il tuo bene il tuo bel foco, epigramma .... 250
De le belle il capo a nuoto, epigramma .... 250
Poesie varie 255
Al consigliere Barone de' Martini . . 257
AGianCarlo Passerotti 259
Pernozze 261
Brindisi 263
Il Parafoco 265
DaAnacreonte 267